Parmigiani (Unipol): CSRD, dialogo con il sistema finanziario e cultura della sostenibilità le tre priorità per il 2025

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Preparazione del bilancio aziendale secondo gli standard della nuova direttiva CSRD, dialogo con le banche sui dati ESG e rafforzamento della cultura aziendale sul valore della sostenibilità. Sono queste le tre priorità che dovrebbero guidare l’azione dei sustainability manager nel 2025, secondo Marisa Parmigiani, Head of Sustainability & Stakeholder Management di Unipol Assicurazioni, nonché presidente di Sustainability Makers, l’associazione di categoria dei responsabili aziendali della funzione di sostenibilità. Parmigiani è a stata coinvolta nella redazione del bilancio secondo la direttiva CSRD del Gruppo Unipol che, essendo quotato in Borsa e redigendo la DNF, fa parte del primo gruppo di aziende europee chiamate a presentare il nuovo documento già da quest’anno. È dal 2024, quindi, che la manager è al lavoro per superare le sfide della nuova normativa soprattutto date dall’introduzione del concetto di doppia materialità e dalla scelta e reperimento dei diversi KPI. Nel caso di Unipol sono stati ridotti rispetto al passato, focalizzandosi su 500 parametri materiali, oltre ad alcuni dati relativi alla rete di agenzie e all’AI, in cui il gruppo assicurativo è attivo attraverso due società, che vanno oltre quanto strettamente richiesto dalla CSRD.  Per la gestione dei dati Unipol ha scelto di integrare il sistema informativo SAP, già in adozione, con il modulo   sostenibilità.

Quali sono le tre priorità per un sustainability manager nel 2025?

La prima priorità è senza dubbio l’introduzione della CSRD. Nel 2025, anche le imprese che finora non erano coinvolte dovranno adeguarsi alla nuova rendicontazione prevista dalla normativa. Mentre lo scorso anno l’obbligo ha riguardato solo le aziende di maggiori dimensioni, quotate in Borsa e già abituate a redigere la DNF, nel 2025 la nuova reportistica sarà estesa a tutte le grandi imprese.

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Di conseguenza, anche realtà che finora non avevano adottato alcuna pratica di rendicontazione, o che seguivano volontariamente il framework GRI senza l’obbligo di revisione, dovranno adeguarsi. Questo cambiamento rappresenta una fonte di preoccupazione e rende necessario un confronto approfondito.

Per affrontare la transizione, i sustainability manager si affidano sempre più alle società di consulenza, con un forte ricorso alle cosiddette Big Five che, oltre a offrire servizi di consulenza, dispongono anche di competenze nell’attività di revisione. Oggi, ai consulenti viene richiesto di fornire un punto di vista allineato a quello dei revisori, con un’attenzione in particolare a quali saranno le principali richieste in fase di revisione e su quali aspetti si concentreranno le verifiche.

La CSRD rappresenta, senza dubbio, una priorità assoluta.

E quali sono le difficoltà sulla CSRD, cioè gli scogli che state vedendo?

La nuova normativa introduce diverse novità, tra cui l’analisi di doppia materialità. Una delle principali sfide è condurre un’analisi della materialità finanziaria in modo realmente rigoroso, adottando un approccio più quantitativo che qualitativo. Attualmente, molte analisi di doppia rilevanza valutano l’impatto dei rischi esclusivamente in modo qualitativo, classificandoli come “alti” o “bassi”, senza analizzare concretamente le conseguenze economiche sui conti aziendali.

La quantificazione dei rischi materiali rappresenta una sfida significativa per un sustainability manager, che non può affrontarea da solo. È fondamentale che in azienda collaborino attivamente le figure del controllo di gestione, dell’amministrazione e della finanza, lavorando a stretto contatto con il sustainability manager in questa fase. Inoltre, è essenziale rafforzare la sinergia con i risk manager, laddove presenti. Tuttavia, in Italia non tutte le aziende ne dispongono d e spesso manca un approccio strutturato all’analisi di impatti, rischi e opportunità.

In generale, le imprese italiane non sono ancora abituate a ragionare in questi termini, rendendo questa transizione ancora più complessa.

E la seconda priorità qual è?

Un’altra priorità fondamentale è il rapporto con il sistema finanziario. Ci si può chiedere se la CSRD sarà sufficiente a soddisfare le esigenze informative di questo settore. Oggi le banche richiedono determinate informazioni, altre invece sono sollecitate dalle assicurazioni. L’esposizione di un’azienda ai rischi ambientali, sociali e di governance è sempre più rilevante ed è un fattore considerato dal sistema finanziario per l’erogazione dei servizi.

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Tuttavia, il sustainability manager tradizionale non è abituato a interfacciarsi con il mondo finanziario. Nelle società quotate, il sustainability manager ha almeno esperienza nel dialogo con analisti finanziari e investitori SRI. Al contrario, nelle grandi imprese non quotate o nelle medie imprese, spesso non esistono figure dedicate alla sostenibilità con una formazione specifica in ambito finanziario. Questo rappresenta dunque un’ulteriore sfida cruciale.

Sulla possibilità di unificare le informazioni sui dati di sostenibilità richieste dal sistema bancario c’è un tavolo di lavoro dell’Abi. Ci sono stati dei progressi?

Sì, si sta facendo un lavoro importante e assolutamente utile.

Un altro aspetto da considerare è l’allineamento con i meccanismi di controllo delle catene di fornitura. L’obiettivo è evitare che un’azienda debba fornire diverse tipologie di dati separatamente: un set di informazioni per la catena di fornitura, un altro per le banche e un altro ancora per la rendicontazione.

Le banche stanno già lavorando in questa direzione, partendo dagli ESRS, ma è fondamentale che ci sia un coordinamento anche con i principali provider di dati per le catene di fornitura, come Synesgy di CRIF ed Ecovadis.

E infine qual è la terza priorità per i sustainability manager nel 2025?

La terza grande priorità per i sustainability manager riguarda la consapevolezza. Mai come oggi è fondamentale lavorare sulla creazione di una cultura aziendale solida e radicata in materia di sostenibilità. E quindi occorre attivarsi per aumentare la conoscenza e tenere viva la sensibilizzazione sui temi di sostenibilità.

Una delle principali preoccupazioni attuali dei sustainability manager è il rischio di una semplificazione o di una riduzione dell’importanza dei temi ESG a causa di dinamiche politiche globali. Per contrastare questo rischio, è essenziale costruire una cultura d’impresa consapevole del valore strategico della sostenibilità, in grado di riconoscerla come parte integrante del modello di business.

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Quando la sostenibilità è percepita solo come un obbligo normativo o una risposta alle pressioni del mercato, qualsiasi riduzione delle richieste esterne porta inevitabilmente a un calo dell’attenzione. Per questo motivo, è cruciale che i sustainability manager lavorino in modo proattivo sulla diffusione e il consolidamento di questa cultura all’interno delle aziende.

Il contesto internazionale, in particolare la cultura americana, mostra dinamiche contrastanti. Da un lato, ci sono pressioni per allentare gli impegni ambientali, dall’altro le critiche, anche da parte del settore petrolifero, alla decisione di abbandonare l’adesione all’Accordo di Parigi. Non dimentichiamo poi che gli investimenti nella transizione ecologica restano strategici. L’Europa, e l’Italia in particolare, devono continuare a puntare su questi obiettivi, osservando con attenzione le mosse degli altri attori globali.

E quindi per rafforzare la cultura della sostenibilità quali azioni potrebbero essere intraprese?

Sessioni di induction ai membri del CDA e al management board, così come la diffusione di una cultura aziendale a tutti i livelli, devono essere una priorità. È fondamentale continuare a investire tempo, risorse ed energie per promuovere e integrare questi temi all’interno dell’organizzazione.

Quale sensibilità si riscontra in Italia sulla sostenibilità del modello di business da parte dei vertici aziendali?

Ci troviamo in un contesto in cui le autorità di vigilanza stanno imponendo vincoli sempre più stringenti sui rischi legati al cambiamento climatico, mentre la politica sembra fare dei passi indietro di fronte a queste sfide , Tuttavia se per le autorità la crisi climatica rappresenta un fattore critico, le regole si adegueranno di conseguenza.

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Recentemente, ad esempio, l’EIOPA ha dichiarato che Stati e assicurazioni in Europa non possono permettersi di trovarsi impreparati di fronte a eventi climatici estremi. Il rischio di collasso finanziario è reale e va gestito in anticipo.

Alcuni paradigmi sono ormai stati interiorizzati dal mercato: i principali attori del sistema finanziario sono direttamente impegnati nell’identificazione, gestione e mitigazione di questi rischi e quando uno di questi diventa sistemico, è olo stesso sistema a prenderlo in carico, indipendentemente dalle intenzioni della politica.

Oltre agli aspetti climatici, c’è una retromarcia sulle questioni della diversity. Su questo fronte c’è minore convergenza sull’impatto in termini di rischi…

Il tema della DEI (diversity e inclusion) è infatti diverso. C’è una distinzione tra cambiamento climatico e DEI: quest’ultima rappresenta un’opportunità, ma non un rischio sistemico. Questo significa che si può scegliere se adottarla o meno, in base alla propria visione del mondo. E il mercato attribuisce priorità molto diverse a questi due temi.

La differenza risiede anche nella possibilità di quantificare e monitorare i fenomeni. Sul cambiamento climatico esistono metriche universalmente riconosciute, misurabili attraverso strumenti tecnico-scientifici: siamo nell’ambito della scienza. Per la DEI, invece, non è così.

Di conseguenza, si tratta di due fattori distinti da considerare. Lo stesso vale anche per altre tematiche ambientali: ad esempio, gli sversamenti nei fiumi sono quantificabili e monitorabili con precisione, così come le emissioni. Questo livello di conoscenza e misurabilità non è altrettanto sviluppato per le questioni sociali.

Tuttavia, il discorso cambia quando si parla di come un’azienda genera valore. Per un investitore, non tutte le informazioni sono rilevanti allo stesso modo. Ad esempio, il modo in cui un’azienda tutela i diritti umani lungo la propria filiera è cruciale perché una violazione comporta rischi di compliance, economici e reputazionali avendo, quindi,un impatto concreto sugli investimenti.

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In un momento in cui va rafforzata la cultura ESG, i nuovi bilanci redatti secondo la CSRD non rischiano di essere dei tomi letti da pochi? Come avvicinare le informazioni di sostenibilità al pubblico degli stakeholder?

Quest’anno rappresenterà un anno di passaggio. Come Unipol redigeremo un bilancio secondo il modello CSRD, quindi integrato: tutto sarà riportato insieme.

Quello di rendere leggibile un report di questo tipo è una sfida complessa: bisogna fornire informazioni precise, ma al tempo stesso renderle intellegibili. Quindi il nodo cruciale è arrivare a una struttura logica che renda il documento chiaro e comprensibile.

Le prime rendicontazioni CSRD di quest’anno saranno dei documenti piuttosto grigi e uniformi. E non per mancanza di impegno, ma perché tutti seguiranno pedissequamente gli standard, punto per punto, per paura di sbagliare.

Tra due o tre anni, una volta assimilati gli standard, inizieremo a vedere documenti più personalizzati, in cui le aziende metteranno in evidenza alcuni aspetti, ne sintetizzeranno altri e riorganizzeranno le informazioni. Ad esempio, oggi il paragrafo 2 descrive le politiche, ilparagrafo 3 i target, il paragrafo 4 le azioni, e così via per ogni tema.

Col tempo, chi vorrà dare maggiore risalto alle politiche potrà raccogliere tutti i paragrafi di un argomento in un unico capitolo, mentre chi vorrà concentrarsi su target e performance li organizzerà diversamente. Ma questo accadrà solo dopo aver acquisito familiarità con i contenuti e con il modo di strutturarli. Solo allora si potrà personalizzare il report e far emergere le diverse interpretazioni delle priorità CSRD da parte delle aziende.

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