La religione dei popoli altaici di Uno Harva (Vocifuoriscena) | libroguerriero

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I popoli altaici furono influenzati dal manicheismo, dal nestorianesimo e dal buddismo che fece il suo ingresso provenendo originariamente da Oriente e giungendo in Asia centrale per il tramite della cultura cinese. Dopo la campagna militare del potente sovrano dei mongoli Gengis Khan ai danni dell’Europa, in Russia rimasero alcune truppe tartare i cui discendenti vivono tuttora in quest’area. Lo sciamanesimo, la “fede nera” di mongoli e calmucchi, cedette il passo al lamaismo, cioè alla “fede gialla”, i cui predicatori, i lama, influenzarono il popolo intero, ponendo così fine alla loro indole bellicosa.

La stragrande maggioranza dei popoli altaici si è convertita all’islam. Successivamente prese piede tra i popoli altaici un credo ibrido, frutto della commistione tra paganesimo e religione organizzata, quando i cosiddetti burqanisti, che rifiutavano gli sciamani e i sacrifici per ricacciare gli spiriti maligni, iniziarono a venerare un unico dio chiamato Burqan. Tracce del paganesimo si sono conservate più tenacemente nelle zone che hanno adottato il culto ortodosso. Si sono però conservate sopravvivenze che forniscono un prezioso materiale comparativo per studiare l’arcaica religione dei popoli atavici: lo sciamanesimo appunto.

Un’usanza tipica della cultura delle foreste consiste nel collocare i defunti sugli alberi o sopra delle piattaforme fissate su ceppi lignei mentre fin dall’antichità presso i popoli delle steppe era diffusa l’inumazione. I popoli altaici ci rivelano oggigiorno di appartenere a due distinte cerchie culturali: da un punto di vista storico-religioso il nomadismo pastorale dei popoli centro-asiatici con i suoi sacrifici cruenti e le offerte di latte risulta tanto interessante quanto la cultura venatoria diffusa nelle regioni boschive settentrionali e in genere in tutta la fascia nord-eurasiatica. Ambedue le culture riflettono usanze credenze risalenti a un periodo primitivo alquanto vetusto. Non si può infatti trovare tra i popoli altaici una Weltanschauung chiara, intatta e uniforme. Queste frammentarie credenze sono assai oscure e contraddittorie.

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Secondo i miti cosmogonici centro-asiatici la terra si sarebbe sviluppata gradualmente a partire da un punto centrale, l’ombelico della terra (o onfalo o cingulus mundi) fino a raggiungere la sua attuale estensione. Al mondo ipotonico conduce un’apertura che alcune popolazioni altaiche chiamano “foro della terra per la fuoriuscita del fumo”. Poiché nella concezione orientale il mondo è posizionato nel grembo di un immenso oceano è comprensibile come vi sia strettamente associata l’idea di un sostegno o supporto che impedisce alla terra di sprofondare nel territorio abitato. Spesso la “tartaruga dorata” figura anche come reggitrice del mondo assiale.

Sembra che presso i mongoli la concezione di un sostegno della terra sia giunta in epoca relativamente arcaica tramite la mediazione cinese. Secondo il nostro autore è singolare che la tartaruga abbia svolto un simile ruolo anche presso talune tribù indiane dell’America settentrionale. In Asia centrale figura talvolta un pesce quale reggitore del mondo. Uno o più pesci come reggitori del mondo compaiono anche nei miti cosmogonici russi. Altri popoli pensano che la terra sia sorretta da un drago che, muovendosi di tanto in tanto, la scuote. Anche i popoli altaici hanno messo in relazione il fenomeno naturale dei terremoti con un animale che funge da piedistallo.

Taluni popoli altaici hanno immaginato il cielo come la volta di una tenda che ricopre e protegge la terra: si parla di una “porta del cielo” che gli dèi talvolta dischiudono per qualche attimo. Il cielo, secondo quest’ottica, risulta una sorta di protezione equiparabile al telo di una tenda che si stende sopra l’intera terra, le stelle pertanto appaiono come i fori di questa copertura. Oltre che all’ombelico della terra molti popoli asiatici ed europei si riferivano anche a un ombelico-asse del cielo. Molti popoli settentrionali hanno definito la stella polare “chiodo”. Il misterioso movimento circolare del cielo ha destato anche l’idea di un sostegno più forte e robusto che non un semplice chiodo ovvero una sorta di gigantesca colonna o asse attorno alla cui sommità ruota il cielo: la raffigurazione del “pilastro cosmico”. Si riteneva infatti che le stelle fossero legate al pilastro con lacci invisibili.

Il pilastro quadrangolare dotato di incisioni, sulla cui cima viene ubicata l’immagine dell’aquila simboleggiante le forze celesti, viene chiamato dai dolgani il “sostegno incrollabile”.

Oltre alla colonna in posizione centrale possono comparire a sorreggere il tettuccio altri quattro pali più sottili, uno per ciascuno punto cardinale. Si erigeva la colonna cosmica affinché la divinità non facesse precipitare il cielo

Le credenze ed i miti dei popoli altaici ci presentano anche un’altra concezione in base alla quale il firmamento è costituito da più livelli celesti: in particolare nei miti si parla di tre, sette o nove strati del cielo. Si parla talvolta perfino di dodici, sedici o addirittura diciassette livelli celesti. Probabilmente la yurta che taluni popoli centro-asiatici erigono per l’ascesa celeste dello sciamano rappresenta la tenda del cielo, sempre dotata di un foro per il fumo. È interessante il termine “tengeri” che significa sia cielo sia dio.

Nelle credenze e nei miti dei popoli centro-asiatici figura anche un imponente monte che si innalza dall’onfalo terrestre: un monte centrale o cosmico.

Volgendosi a nord si possono constatare due diverse concezioni: in una il monte cosmico si colloca nel centro del mondo, nell’altra rappresenta invece il cielo stesso. Anche altri miti centro-asiatici collocano questo monte nel mezzo del mare primigenio. Alcuni di essi trattano di come al principio non ci fosse la terraferma, ma soltanto il mare primordiale dal quale si innalzava la grande montagna sulla cui vetta c’era un tempio in cui dimoravano trentatré tengri o dèi. L’albero cosmico, secondo Harva, ricorda il pilastro cosmico di cui potrebbe essere considerato una variante.

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Sebbene la colonna e l’albero cosmico abbiano tratti comuni, si distinguono considerevolmente, in particolare perché quest’ultimo viene immaginato come un albero vivo i cui tratti più caratteristici sono freschezza e succosità. I miti di vari popoli lo collocano generalmente nei pressi di una sorgente, lungo un fiume o uno specchio d’acqua di maggiori dimensioni o perfino dentro l’acqua. Il luogo in cui svetta l’albero dispensatore di vita figura come la dimora del primo uomo e viene descritto come una sorta di paradiso dove l’acqua della vita conferisce all’eroe primordiale una forza nove volte superiore. Non si sa dove e quando si sia originata la concezione dell’albero della vita. Troviamo i suoi corrispettivi fin dai tempi antichi presso le civiltà asiatiche. Il nostro etnografo osserva che il paradiso traspare come simile destinazione per i beati anche presso le antiche culture mesopotamiche.

Generalmente si credeva che il lago o la fonte ai piedi dell’albero della vita contenesse un liquido dalla natura davvero straordinaria. I popoli centro-asiatici e gli jacuti lo chiamano “lago di latte”.

In tutti i miti fin qui adotti ritroviamo già prima della creazione due esseri antagonisti dei quali uno è buono e l’altro risulta malvagio. Il diavolo compare in sembianza antropomorfe o ornitomorfe (volatili). Nelle narrazioni raccolte in Asia centrale settentrionale relative alla creazione dell’uomo compaiono difatti solitamente due esseri antagonisti ovvero Dio e il diavolo. Il secondo rovina ciò che il primo ha creato. Nella maggioranza dei casi il diavolo riesce ad avvicinarsi all’uomo prima ancora che Dio gli abbia insufflato la vita, in questi miti il cane al quale Dio assegna il compito di proteggere l’uomo svolge un ruolo peculiare. Si evince da queste credenze che, se il maligno non avesse messo le mani sull’uomo, questi non avrebbe mai conosciuto né la malattia né la morte. Questo netto dualismo compare fin da tempo immemore anche nella religione persiana.

Oltre ai miti in cui il diavolo deturpa l’uomo prima che riceva lo spirito ce ne sono altri in cui l’uomo è esposto a conseguenze dannose solo dopo esser stato portato in vita.

In talune leggende a fungere da protezione dell’uomo è la pelliccia oppure una pelle coriacea: l’uomo perde questo prezioso rivestimento solo dopo aver gustato il frutto dell’albero proibito. Sia il serpente sia il cane vengono menzionati come guardiani dei frutti proibiti. Si dice che nel paradiso biblico vi fossero due alberi ovvero l’albero della vita e l’albero della conoscenza del bene e del male. Ambedue gli alberi crescevano al centro del paradiso, ma il frutto del secondo era precluso all’uomo.

Alla stregua dell’origine del mondo e dell’uomo il patrimonio mitico dei popoli altaici ci spiega anche quale sarà la sua fine. La paura che il suolo ceda o che il mondo possa cadere vittima di un’inondazione si ricollega alla concezione che la terra sia ubicata in grembo a uno sconfinato mare primordiale, privo di fondo. I miti asiatici, che trattano delle diverse ere, narrano di come già una volta un’inondazione abbia annientato ogni forma di vita sulla terra e un superstite fosse divenuto il capostipite della nuova schiatta umana. Spesso in questi miti la moglie dell’eroe diluviale viene descritta come una persona malvagia, tentata dal diavolo.

Le leggende altaiche fanno riferimento ad un dio uranico visto come il Dio unico chiamato tengri. È diffusa la concezione del dio uranico come reggitore dell’ordine cosmico.

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Un dio uranico in sembianze umane (antropomorfo), attorniato da raggi, compare anche nelle raffigurazioni altaiche: in tali casi il cielo funge solamente da dimora del dio uranico ed il suo trono risulta in genere ubicato al centro del più alto livello celeste sulla cima di un monte che svetta attraversando i vari cieli. Il dio uranico dispone inoltre di una schiera di aiutanti o adiutori.

I nanai credono che in cielo si situi un grande albero sul quale vivono le anime dei nascituri sotto le sembianze di uccellini. Questi si moltiplicano e da qui discendono sulla terra, prendendo posto nel grembo delle future madri. Se un bambino muore prima di aver raggiunto l’anno di età, la sua anima fa ritorno all’albero. L’albero omia di un bambino deceduto può tuttavia ritornare nel grembo della medesima donna e rinascere: ciò è probabilmente dovuto al fatto che sul cadavere dell’infante venivano tracciati segni che erano poi visibili sul corpo del bambino nato successivamente.

Se una donna nanai fosse rimasta sterile, sarebbe stata solita rivolgersi a uno sciamano per procurarsi un omia. Per fare ciò l’incantatore indossa il suo intero armamentario e inizia a cantare e a danzare accompagnato dalla percussione del tamburo e realizza una piccola culla con effigi che faceva oscillare affinché l’albero che si trovava al suo interno non volasse nuovamente in cielo. Gli altai credono che l’anima del bambino si origini in cielo.

Sebbene i popoli turcici fossero nomadi provvisti di notevole esperienza con il corso delle stelle e attenti osservatori del cielo notturno davano pochi nomi alle stelle. I popoli altaici narrano di un tempo lontano in cui non c’erano ancora il sole e la luna: l’uomo prima del peccato originale sarebbe stata una creatura luminosa, il sole e la luna furono creati solamente quando il mondo si oscurò in seguito alla caduta dell’uomo nel peccato.

La maggioranza dei popoli turcici immagina il sole come una creatura femminile (“madre sole”) e la luna maschile (“padre luna” o “vecchio della luna”). Naturalmente gli altai, alla stregua di altri popoli, hanno misurato il tempo in base al corso del sole e alle fasi lunari. Oltre al sole e alla luna anche la stella polare, l’Orsa Minore, l’Orsa Maggiore, Orione, le Pleiadi la stella vespertina Venere e la Via Lattea hanno particolarmente interessato i popoli altaici. Uno Harva nota che le medesime stelle o asterismi erano oggetti della massima attenzione anche presso i nativi del Nord America.

I popoli dell’Asia centrale usavano dedicare sacrifici al tuono. Sembra pertanto che in Asia centrale l’offerta devoluta al tuono consistesse soprattutto in latte.

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Conformemente ai punti cardinali i popoli siberiani parlano di quattro venti che si originano dai quattro angoli del cielo. Più singolare risulta la concezione secondo cui i monti sono ricettacoli dei venti.

La credenza che il fuoco provenga dal cielo è molto comune tra i popoli altaici. Ci sono persino miti sull’origine del fuoco in cui l’inventore ha un’anima particolarmente intelligente come il riccio o un uccello. Il fuoco assorbe un ruolo molto importante anche per difendersi dalle malattie: molte delle cerimonie di purificazione sono finalizzate a scacciare gli spiriti dannosi, pertanto il fuoco viene tenuto acceso, soprattutto nelle notti in cui si attende il ritorno dei morti. La credenza nella forza protettrice del fuoco risalirebbe già a epoche primitive quando gli uomini iniziarono a impiegarlo per proteggersi dai pericoli notturni. Oggetto di particolari credenze e usanze tradizionali era soprattutto il focolare domestico che si ritiene protegga la famiglia. Sussistono numerose testimonianze in merito ai sacrifici tributati al fuoco: i popoli altaici, soprattutto i mongoli, davano al fuoco il primo assaggio di ogni cibo e bevanda e mettevano burro nell’elemento igneo. Al fuoco si tributavano anche sacrifici cruenti.

Uno Harva ci spiega anche che secondo i mongoli il respiro contenuto in tutto il corpo perirebbe insieme all’organismo: il fiato che si allontana al decesso per i popoli altaici non costituiva originariamente un’entità autonoma e pertanto non può essere designato neppure con la parola anima. Solamente in seguito ai contatti con culture allogene questa ulteriore connotazione è stata associata al respiro.

Talvolta gli altai credono che l’uomo abbia tre anime: quando ne perde una o due si ammala. Se viene a mancare anche la terza, l’individuo è votato alla morte. La parola che indica l’anima che è pure ombra significa anche immagine. Non solo gli esseri viventi, ma anche gli elementi della natura, nonché gli utensili realizzati dall’uomo sono dotati di un’anima-ombra.

Oltre che volontariamente durante il sonno, l’anima può lasciare la propria sede forzatamente. Ciò accade spesso a causa di uno spavento a cui si crede ricorrano gli spiriti per impossessarsi dell’anima del malcapitato. Sebbene l’anima umana sia un ente incorporeo, la si concepiva, tuttavia, con una certa corporeità. Più a lungo l’anima rimane all’esterno del corpo peggiore sarà la condizione del malato. Se l’anima non fa più ritorno non c’è alcuna speranza di guarigione.

Per riuscire a guarire il malato, questi deve sforzarsi di ricordare il luogo in cui probabilmente ha smarrito l’anima. Oltre che dalla bocca e dalle narici l’anima può fuoriuscire anche dalle orecchie. L’anima, allontanatasi dal corpo durante il sonno, si manifesta non solo nelle sembianze dell’individuo in questione, ma anche di insetto o uccello. Nelle credenze altaiche risulta particolarmente diffusa l’anima ornitomorfa.

È soprattutto l’anima dello sciamano a comparire esternamente al corpo e assume sembianze teriomorfe.

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Molti popoli turcici credono inoltre che ciascun individuo disponga fin dalla nascita di un particolare spirito protettore che segue costantemente il proprio protetto ed è con essa in stretta relazione. È diffusa la concezione di due spiriti che seguono l’individuo dei quali uno è buono e lo guida verso il bene mentre l’altro è cattivo e lo induce a compiere il male. Uno Harva segnala che anche i Romani avevano un particolare spirito che seguiva fedelmente l’individuo dalla nascita alla morte: questo spirito era il genius. Si dice che, se lo sciamano viene inumato, la sua strologa (Gavia stellata, l’animale allegorico della sua anima) non avrebbe più fatto ritorno. Uno sciamano defunto necessita innanzitutto dei suoi paraphernalia. La bara viene collocata in una tomba poco profonda oppure su una piattaforma di legno su grossi ceppi. La maggioranza dei sarcofagi si trova a cielo aperto. Oggigiorno la pratica più usuale è naturalmente l’inumazione. Gli jakuti ponevano talvolta la bara semplicemente sui rami di un albero ai piedi del quale seppellivano un cavallo vivo. Assieme al morto, infatti, venivano bruciati anche il suo destriero e gli oggetti da lui impiegati.

Il nostro autore commenta che alcune feste commemorative a cadenza prestabilita, tenute principalmente dai popoli altaici, son finite nella sfera di influenza cristiana o islamica.

L’immagine che i popoli altaici avevano del mondo post mortem traspare fin dai riti di sepoltura. Se il defunto viene fornito di vestiti e vivande, se riceve utensili domestici, armi, strumenti di lavoro per il viaggio, persino animali mansueti è evidente che si ritiene ne abbia bisogno anche dopo la morte: nell’aldilà si vive proprio come sulla terra. Si crede inoltre che nel regno dei morti ciascuno continui a dedicarsi alle stesse attività di cui si era occupato in vita.

I popoli nord-siberiani immaginano che i defunti nell’aldilà siano divisi in stirpe e che dimorino in capanne come sulla terra. In genere i popoli altaici non lo definiscono “mondo sotterraneo”, ma “altro mondo” o “terra altra”.

La caratteristica del regno dei morti è che, sebbene la vita continui proprio come sulla terra, tutto sembra essere diverso. I popoli altaici parlano anche di uno specifico spirito del mondo ipoctonio che manda malattia a uomini e animali e che raduna presso di sé i defunti. Di là l’anima umana viene pesata ponendo sull’altro piatto della bilancia una pietra bianca e una nera: se la pietra bianca risulta più leggera dell’anima del defunto, questa ascende al cielo, ma, se a pesare di meno è quella nera, allora l’anima finisce nel mondo intero dove viene gettata dapprima in un’orribile forra gelida e scura. Uno Harva nota che la psicostasia era diffusa già presso gli antichi egizi.

In base al modo in cui le persone hanno vissuto possono finire anche in oltretombe ubicate in luoghi diversi. L’idea secondo cui taluni defunti ascendono al cielo mentre altri finiscono nel regno dei morti ipotonico può avere origini molto antiche.

L’etnografo avvalora l’idea che gli sciamani possano evocare gli spiriti servendosi del tamburo e degli scongiuri.

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Gli altai avevano l’usanza di tenere separati gli spiriti protettori paterni da quelli materni, Questi spiriti protettori erano oggetti di venerazione e se ne realizzavano effigi. A vagare irrequieti sono soprattutto gli spiriti che non sono giunti nell’aldilà, ma permangono a infestare l’ambiente dei viventi. Per tenerli a bada vengono tributati loro sacrifici. Spesso si manifestano, come in genere i defunti, anche in sogno.

Generalmente agli spiriti malevoli non vengono tributati sacrifici, ma sono ricacciati con urla, percuotendo tamburi, sbattendo oggetti in ferro, scoccando frecce o sparando colpi di fucile.

Tra i popoli altaici si pensa che cigni, oche e alcuni uccelli tuffatori rappresentino una manifestazione degli spiriti. In particolare, l’orso è considerato dotato di un intuito straordinario ed è oggetto di massimo riguardo ed interesse. Alcune parti del corpo dell’orso come le zampe, gli artigli e le zanne rivestono inoltre un importante significato apotropaico. Nella vita delle genti dedite alla caccia è molto diffuso il rito della suffumicazione che aveva lo scopo di scacciare l’anima del plantigrado con il fuoco e il fumo. Alle esequie dell’orso sono connesse anche gare di corsa.

Una parte rilevante nei rituali di caccia è costituita anche dal conservare le ossa degli animali. Se si trascura questo rituale, si perde secondo la concezione comune la fortuna nella caccia. Già al taglio della carcassa si deve prestare attenzione che neppure l’osso più piccolo vada rotto. I pezzi di carne vengono separati in corrispondenza delle articolazioni. Questa scrupolosa conservazione delle ossa dell’orso costituisce un tratto comune, fa parte dell’arcaica cultura venatoria. Oltre a non rompere le ossa si badava anche a non recidere arterie e tendini.

Gli sciamani ricevono la vocazione e tale dono risulta un compito ingrato per il neofita, è addirittura il fardello più pesante. La vocazione sciamanica sarebbe congenita e si manifesterebbe con attacchi epilettici generalmente già durante l’infanzia. La predisposizione sciamanica si manifesta come malattia. L’epilessia costituisce il tratto distintivo dei candidati sciamani la cui condizione migliorava solo subitamente non appena incominciavano a sciamanizzare. All’estasi è associato anche il vaneggiare che si crede dovuto ad uno spirito che si è introdotto nel corpo privo di sensi dello sciamano: in tali casi non è lui a parlare, ma lo spirito che si è impossessato del suo corpo.

Lo sciamano o incantatore ha a sua disposizione anche degli adiutori o assistenti. All’origine dello sciamanesimo l’aquila figura come inviato degli dèi. Secondo Uno Harva l’aquila e il cigno sono animali totemici connessi con lo sciamanesimo. Lo spirito dello sciamano compare sempre in sembianze di un determinato animale. Ogni sciamano ha al proprio servizio molti spiriti adiutori che si crede compaiono sotto le sembianze di vari animali come pesci, uccelli, insetti, ma, oltre a questo, ciascuno sciamano ha anche uno spirito principale da cui dipendono la sua vita e la sua morte. Lo spirito sciamanico teriomorfo è in intima relazione con il possessore. Si dice inoltre che ciascun sciamano disponga di un peculiare albero da cui dipende la sua stessa vita.

Il Nostro osserva inoltre che c’è una differenza tra sciamani bianchi e neri: lo sciamano bianco venera gli dèi benevoli e non infligge male agli uomini, al contrario offre loro aiuto, lo sciamano nero, invece, infligge agli uomini solo del male, invoca gli spiriti maligni e sacrifica solo agli dèi malevoli. Il neofita deve essere quindi purificato con il sangue e con l’acqua.

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Secondo Uno Harva queste credenze altaiche sugli sciamani sono collegabili all’antica religione persiana e ai misteri mitraici.

Molto importante è anche il costume dello sciamano dotato di caftano e copricapo. Il costume assumeva delle sembianze ornitomorfe che, a desumere dal piumaggio, erano proprio quelle di un gufo reale. L’incantatore altaico ha inoltre dotato il proprio costume di particolari accessori apotropaici: ha anche degli anelli appesi sulla schiena assieme ai loro piccoli pendagli tubolari. Comuni sono inoltre le campanelle e sonagli di metallo. La caratteristica più importante sono le notevoli corna sul copricapo del costume sciamanico. Gli sciamani nanai presentano anche una particolare cintura con numerosi pendenti tubolari in ferro e campanelli in rame e dei guanti sui quali sono dipinte figure di serpenti, lucertole, rane dai colori sgargianti.

Molti accessori del costume servono indubbiamente a spaventare gli spiriti nefasti che si trovano nelle vicinanze degli uomini.

Durante la cerimonia lo sciamano impiega anche un tamburo. Per percuoterlo viene ovunque impiegato un attrezzo oblungo simile a una mazza che, in realtà, generalmente intagliano da una giovane betulla. I tatari lebedini lo ricavano anche da un arbusto e la sua superficie di percussione viene avvolta con pelliccia di lepre o pelle della coscia di un animale di maggiori dimensioni come lo stambecco.

Come il costume, anche il tamburo dello sciamano è considerato sacro. Si deve pertanto evitare di contaminarlo specialmente durante le migrazioni.

Nelle leggende dei popoli altaici il tamburo viene talvolta detto anche “cavallo dello sciamano”. L’incantatore può impiegare anche un bastone o un arco, se non dispone di un tamburo.

Oltre alla concezione secondo cui la malattia deriva dalla perdita dell’anima, che naturalmente lo sciamano deve cercare, ne figura anche un’altra in base alla quale i dolori della malattia sono da ricondurre al fatto che uno spirito maligno, talvolta anche più di uno, è penetrato nell’ammalato e lo tormenta. Lo sciamano deve allora scacciare questo spirito. L’incantatore per curare il malato dovrebbe ascendere ai cieli addirittura fino al nono: questo viaggio siderale intrapreso a scopo di guarigione va interpretato dal punto di vista dell’antica pratica sciamanica. Uno Harva osserva che lo sciamano non si reca quasi mai nel mondo ipotonico, ma va generalmente in cielo. La vera e propria ascesa al cielo ha inizio accanto alla betulla raffigurata all’interno della yurta e lungo la quale sono intagliati nove gradini. La cerimonia sciamanica inizia solo a sera inoltrata.

Per quanto l’uomo contemporaneo possa giudicare lo sciamanesimo come un mero fenomeno religioso e sociale è indubbio che il suo valore e il suo rilievo nella comunità primitiva erano notevoli. Il potere dello sciamano perdura generalmente anche dopo la sua morte allorché viene realizzata una sua immagine e le successive generazioni lo venerano come spirito protettore della famiglia della stirpe.

Quando uscì il volume nel 1933, La religione dei popoli altaici venne da subito accolta con entusiasmo tanto che solo dopo cinque anni fu pubblicata una traduzione ampliata in tedesco. Quest’opera segno un vero e proprio spartiacque per i principi della ricerca etnologica e storica religiosa sia perché offriva un nuovo e ampio spettro di materiale comparativo sia perché presentava un approccio ragionato e strutturato non solo alla religione, ma a tutti i principi dell’esistenza delle popolazioni nord-eurasiatiche.



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