«Il femminismo ora combatta contro il capitalismo digitale»

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Ha parlato di social che hanno dentro di sé un modello di business propizio alla violenza digitale di genere, di diritto alla deindicizzazione e all’oblio, di “falle” discriminanti nei software di riconoscimento facciale. Ha denunciato come le violenze, lo sfruttamento e l’esclusione delle donne siano dinamiche strutturali che permeano a livello globale i processi di produzione delle tecnologie digitali. Ha raccontato di operaie in Cina, minatrici in Congo, moderatrici social in India, ragazze violate sulle piattaforme social a due passi da casa nostra. E ha connesso queste storie, mostrando come, appunto, il capitalismo digitale riproduca le ingiustizie della nostra società, lucrandovi sopra.

Il saggio di Lilia Giugni, La Rete non ci salverà. Perché la rivoluzione digitale è sessista (e come resistere), pubblicato nel 2022 da Longanesi, l’hanno amato quelle che l’autrice sente come le Millennial tradite dalla tecnologia. Che nel 2025 sono ancora più tradite. Ma che non devono mollare, come spiega oggi Giugni, 38 anni, docente di Innovazione Inclusiva e Processi di Apprendimento Sostenibili all’UCL – University College London, nonché scrittrice e attivista, in piena Technology First trumpiana.

Lilia Giugni

Il saggio rimarca due punti: il sostrato misogino, razzista e omolesbo-transfobico che permea le Big Tech e le tecnologie che riflettono sia le distorsioni di chi le ha create, sia le disuguaglianze sociali e di genere. Sono passati tre anni e c’è l’esordio del feroce Trump II.

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Continuo a riconoscermi nella visione alla base del mio testo, e cioè un’impostazione critica dell’attuale assetto tecnologico e delle sue implicazioni sociali e di genere, non per questo tecnofobica o luddista. E resto convinta che una tecnologia diversa sia necessaria e possibile. Però, negli ultimi anni abbiamo perso tante occasioni. In Europa, interventi di regolamentazione come il Digital Services Act e l’Ai Act non hanno intaccato il cuore nero dell’intreccio tra patriarcato e capitalismo di piattaforma. E cioè, la monetizzazione dei dati e delle interazioni digitali, che tanta parte gioca nella diffusione della violenza misogina online.

A gennaio, aveva colpito l’immagine dei boss di Big Tech (tutti maschi trumpiani post obamiani) in prima fila all’insediamento di Trump. Zuckerberg poi sembra come risorto dopo Cambridge Analytica.

Il legame tra capitalisti digitali ed élite politiche intrise di sessismo era evidente ben prima del Trump II. Nel libro mi soffermavo sull’uso della misoginia social come strumento di manipolazione del consenso. C’erano Mike Cernovich e Steve Bannon, che hanno giocato un ruolo chiave nella vittoria di Trump nel 2016, e c’erano anche i paralleli con le strategie digitali di Putin, Modi, Bolsonaro e della destra italiana.

Descrivevo la spregiudicatezza con cui da anni questi e altri operatori politici si servono degli algoritmi social per fidelizzare le fasce disilluse dell’elettorato, usando donne simbolo (attiviste, giornaliste, deputate) come bersagli contro cui aizzare i seguaci. Le grandi aziende tech si sono sempre ben guardate dal monitorare gli abusi di leader e gruppi partitici.

Nel frattempo, però, anche a causa del clamore suscitato da Cambridge Analytica, le forze democratiche liberali, che sino a quel momento avevano intrattenuto con il Big Tech rapporti cordiali, hanno iniziato orientarsi verso la regolamentazione. E così i boss hanno cercato sponde sempre più esplicitamente destrorse, fino ad arrivare al binomio Trump-Musk. E cioè a un progetto politico in cui la tecnologia è esplicitamente pensata come strumento di controllo sulla società. Facile intuire quali ulteriori ingiustizie si troverebbero a subire le donne. Ecco perché credo che i movimenti femministi odierni, di cui mi sento parte, non possano esimersi dal mettere la critica del capitalismo digitale al centro delle lotte.

Occorrono nuove leggi o più consapevolezza degli ordinamenti circa le eccezioni della libertà di parola?

Ovvio che servano interventi legislativi urgenti per contenere lo strapotere degli oligopolisti tech. Ma trovo problematica l’applicazione della legge penale sulle condotte digitali dei singoli utenti. Credo, infatti, che siano necessarie azioni mirate a inquadrare fenomeni “nuovi” come la diffusione non consensuale di immagini intime, forma feroce di violenza di genere online. Molte altre tipologie di abusi sono però già coperte dalle leggi.

Solo che, per garantirne l’applicazione, il personale giudiziario andrebbe formato con una sensibilità specifica alle questioni di genere. La priorità di patrocinio e mobilitazione dovrebbe andare non solo verso la responsabilizzazione degli utenti individuali ma soprattutto delle piattaforme che da questa violenza traggono profitto. Le istituzioni europee sono lente, ma hanno anche perso l’opportunità di integrare le istanze delle donne (e, per esempio, delle comunità migranti) nell’ultima ventata legislativa sul tech.

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Il Regno Unito, invece, ha adottato un approccio diverso, che mette al centro la “sicurezza online”. Si sarebbe potuto intervenire di più sulla strategia economica delle piattaforme, ma, grazie alle femministe britanniche, si sono ottenute vittorie importanti, tra cui il divieto di diffondere video deepfake espliciti non consensuali.

Quali sono le evoluzioni tech più pericolose per la giustizia di genere, soprattutto per la categoria politica delle donne?

Dopo l’uscita del libro i modelli di intelligenza artificiale generativa come ChatGpt sono esplosi a livello mondiale, in particolare nelle scuole e nelle università. Offrono opportunità, ma, come dico ai miei studenti, presentano insidie dal punto di vista intersezionale e di genere. Per esempio, essendo “allenati” su dataset mastodontici e in modo poco trasparente, si prestano a riprodurre stereotipi e a rendere invisibili i contributi delle comunità storicamente marginalizzate.

Un altro tema sensibile è, come dicevo, quello dei deepfake non consensuali. E cioè dei filmati espliciti prodotti grazie a una tecnica basata sull’intelligenza artificiale, a partire da una immagine di una persona – generalmente una donna – che non ha consentito ad apparire. Sono già stati utilizzati per ricattare donne in giro per il mondo, incluse giornaliste e attiviste.

Che cosa si può fare?

Moltissimo. Ong e gruppi di esperte ed esperti hanno fatto del proprio meglio per incidere sui processi decisionali in corso a Bruxelles e altrove. È mancata, però, una partecipazione popolare che crei pressione sui decisori: purtroppo, i dibattiti sul digitale sono percepiti come tecnici e di nicchia: invece, riguardano tutte e tutti e andrebbero politicizzati e democratizzati.

Da dove partire? Direi dall’informarci e dall’auto-educarci. Poi dal produrre e scambiare saperi critici, portando queste conversazioni nelle scuole, nei luoghi di lavoro, nella formazione professionale e politica, e rendendole accessibili. E a proposito di saperi critici. Ricordo che, soprattutto in Italia, gran parte della ricerca e del giornalismo di inchiesta sul tech è portata avanti da donne giovani e precarie. Proprio in questi giorni, molte si stanno organizzando all’interno delle nostre università per rivendicare sacrosanti diritti, senza i quali le loro preziose attività potrebbero cessare. Intanto, queste instancabili colleghe continuano a coordinare iniziative interessantissime, come il ciclo di seminari pubblici organizzato da febbraio a giugno a Napoli dal collettivo Game of Tech.

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