Gabriele Gravina, di origini pugliesi e abruzzese d’adozione, continuerà a guidare la Figc fino al 2028. In carica dal 2018, nei giorni scorsi è stato rieletto al primo scrutinio con il 98,7% dei voti. Tra attualità e ricordi del glorioso passato nel Castel di Sangro dei miracoli, il 71enne dirigente si racconta a Il Messaggero.
Presidente Gravina, nonostante l’incertezza sulla candidatura al terzo mandato il consenso è stato quasi unanime. Che tipo di elezione è stata? Forse più facile della seconda? «Raccogliere un consenso così ampio non è mai facile, al contrario. Siccome avevo subordinato alla scelta di candidarmi un’ampia condivisione sul progetto, prima che sulla mia persona, mi sono concentrato nel tracciare un percorso che andasse in continuità con l’azione di unità e di cambiamento portata avanti negli ultimi sei anni. Una tappa fondamentale di questo processo è stata la celebrazione dell’Assemblea per la modifica dello Statuto federale di inizio novembre. È lì che, isolando chi voleva personalizzare l’azione politica della Federazione e di alcune Leghe, abbiamo gettato le basi per ritrovare serenità e compattezza su una visione comune di sviluppo del calcio italiano».
Prima di essere dirigente federale è stato presidente del Castel di Sangro e ha portato il piccolo paese dalla Seconda categoria alla B. Quel modello sarebbe replicabile nel calcio di oggi?
«Se si parla del solo risultato sportivo forse è ancora replicabile. Ma ciò che siamo stati in grado di fare a Castel di Sangro è qualcosa di molto più ampio, gettando le basi per una significativa trasformazione del territorio con ricadute positive per tutte la Comunità. Più che negli investimenti economici, sempre più importanti, io confido molto nel lavoro e nelle progettualità condivise».
L’allenatore a cui è rimasto più legato? E il giocatore?
«Ogni allenatore che ho avuto ha offerto il suo contributo alla crescita del progetto Castel di Sangro. Ma se devo sceglierne uno, anche per l’impatto straordinario dei risultati, dico Osvaldo Jaconi, l’uomo giusto al posto giusto nel momento giusto. Sono affezionato a tutti i calciatori che ho avuto, ma due in particolare rimarranno sempre nel mio cuore: Danilo Di Vincenzo e Pippo Biondi. Cercati e voluti fortemente e poi tragicamente scomparsi per una triste fatalità».
Insieme al compianto Luciano Russi qualche anno fa ha legato il calcio al mondo accademico creando il primo corso di studi universitari in Europa dedicato allo sport. Come è nata l’idea?
«È stata un’intuizione straordinaria. Unimmo per la prima volta tre materie solo apparentemente slegate tra loro come management, sport e turismo, e seminammo un percorso fecondo che ha in Castel di Sangro il suo frutto più bello. Affermare che “lo sport è cultura” all’epoca sembrava quasi un’eresia, invece, mentre formavamo giovani manager, stavamo gettando le basi per realizzare un modello di turismo sportivo che ha avuto in Abruzzo, come in altre regioni, la capacità di aggregare e di rilanciare interi territori, creando sviluppo e generando nuove opportunità».
Lei ha portato “La Divina Commedia” nei teatri realizzando un musical di grande successo. Perché ha scelto il capolavoro dantesco?
«Perché è molto più di un’opera. Parla di un viaggio straordinario nell’animo umano, è un raggio di sole nell’oscurità della vita, con l’eccezionale capacità di emozionare. La Divina Commedia è modernissima, ancora attuale, perché racconta dell’uomo che cerca l’amore. Mi piace che questo messaggio universale contamini le nostre vite, unendo quanti più italiani possibile attraverso un linguaggio artistico aggiornato ai nostri tempi, un po’ come fece Dante con l’italiano volgare nella sua epoca. Ma la nostra attività di produzione annovera anche altri due spettacoli, diversi ma altrettanto entusiasmanti, come Vajont e Van Gogh Cafè. Confido di riuscire a portare in scena molto presto pure la storia della vita appassionata di Frida Kahlo».
L’Abruzzo calcistico è in crisi, con soli due club tra i professionisti. C’è una spiegazione? Quali possono essere le cause?
«Conosco bene gli sforzi che stanno facendo le due società pro abruzzesi e vi posso assicurare che rappresentano due punti di riferimento in Lega Pro, benché siano ovviamente molto diversi. Il calcio è cambiato rispetto anche solo a dieci anni fa e bisogna prenderne atto, calandosi nella realtà che più si addice ai contesti territoriali facendo calcio sostenibile. L’unica via è lavorare bene sui settori giovanili e rafforzare il senso di appartenenza con tutti gli stakeholder, a partire dai propri tifosi».
Quando rivedremo la Nazionale in Abruzzo?
«Sarebbe bellissimo, ma per ospitare la Nazionale maggiore servono dei requisiti specifici a livello impiantistico. Fino a quando non saranno soddisfatti, il mio impegno è quello di continuare a coinvolgere tutte le altre selezioni azzurre».
Di recente è scomparso Vincenzo Marinelli. Il suo ricordo?
«Era un entusiasta della vita e un grande appassionato di calcio. Con lui ho condiviso anni bellissimi nella Nazionale Under 21, durante i quali ho potuto apprezzare la considerazione che riponeva nei giovani e nei talenti del futuro. A tutti loro dava suggerimenti da padre prima ancora che da dirigente, distinguendosi per la sua grande generosità. È stato un amico, il nostro ricordo più bello è sicuramente la medaglia olimpica conquistata ad Atene, un’emozione incredibile che ci unirà per sempre».
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