I libri di NRW: Italiani d’America

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Mario Avagliano Marco Palmieri
Italiani d’America
La grande emigrazione negli Stati Uniti
(1870-1940)
2024 Il Mulino
pagine 500 euro 30Per gentile concessione degli autori Mario Avagliano e Marco Palmieri e dell’editore Il Mulino pubblichiamo un estratto dal libro Italiani d’AmericaE se gli immigrati all’inizio si accontentano di dormire nelle pensioni casalinghe e di mangiare «solo pane e cipolle e 2 o 3 scatole di sardine per settimana», come fanno gli operai italiani di un’impresa di New York intervistati dal Bureau of Labor tra il 1900 e il 1906, quando invece il loro progetto migratorio da temporaneo diventa definitivo e richiamano le famiglie, anche la loro dieta quotidiana varia e diventa non solo più ricca ma legata alle tradizioni del territorio di provenienza e a quelle nazionali, assumendo così un carattere di legame identitario.
Il salto di qualità è evidente. In Italia l’alimentazione dei contadini negli anni dell’emigrazione è scarsa, ripetitiva, incentrata su zuppe, erbe di campo, legumi e pane confezionato con farine di grani inferiori (o polenta di mais, in alcune zone del Centro e del Nord), con conseguente diffusione di malattie come la pellagra, denutrizione e sottoalimentazione. La pasta (fatta eccezione per la Campania) e la carne vengono consumate solo nei giorni di festa e la bevanda più diffusa è un vino di qualità scadente, spesso fatto con gli scarti della vendemmia. Negli Stati Uniti invece gli emigranti da un lato cucinano i piatti del proprio paese di origine, spesso facendosi mandare dalla patria gli ingredienti necessari, dall’altro introducono nella loro dieta in modo sistematico cibi e prodotti che fanno parte di una più generica cucina italiana, come la pasta, il parmigiano, il pecorino, l’olio, il vino, l’aglio, i pomodori.
La cucina etnica peraltro viene proposta non solo nelle case degli emigranti che ormai si sono stabiliti in America, ma anche nelle pensioni gestite da connazionali, in negozi, osterie e saloon che vendono le bevande e gli alimenti tipici regionali, talvolta importati dalla Penisola, e nei numerosi ristoranti italiani. Nell’inverno del 1917-1918 le ricercatrici della Columbia University scoprono con stupore che «famiglie che non avevano cibo a suffi- cienza né di che riscaldarsi», tuttavia «comperavano regolarmente olio d’oliva a 4 dollari il gallone e pecorino romano a 1 dollaro e 25 centesimi alla libbra»; negli anni seguenti un’altra ricerca giunge a risultati analoghi: «nonostante il formaggio americano costasse esattamente un terzo di quello italiano, gli immigrati preferivano consumare minori quantità di quest’ultimo, piuttosto che passare al prodotto locale».
Nelle città come in provincia, infatti, le famiglie italiane cercano di tenere in vita le tradizioni culinarie dei loro territori di origine. Ad esempio Rose Marie Nuzerini, nata a Youngstown, ricorda che a casa sua negli anni Venti a febbraio il padre «com- prava un maiale e lo macellavamo. Usavamo tutto del maiale, l’intestino, la testa, le orecchie, la coda. Preparavamo prosciutto, salsiccia e pancetta. Mettevamo da parte il sangue del maiale e preparavamo qualcosa che era una delizia per gli italiani. Lo cucinavamo e filtravamo e aggiungevamo miele, noci, scorze di limone e cioccolato. Mescolavamo tutto questo insieme finché non diventava come un budino. Era un budino denso e ricco ed era servito come una prelibatezza». E la piemontese Teresa Bossa, la cui famiglia si era stabilita in California, dice che a casa sua «si cucinavano spaghetti e risotto. Si cucinavano anche gnocchi, bagna cauda, bagnet… tutto alla piemontese compresi i fricoli e le bugie».
La figura centrale della casa degli immigrati è la madre, come sottolinea Nancy Reubert, di Littleton, in Colorado: «Mia nonna, Mary Antonesia Veronica (Anna) Chickadel, figlia di immigrati italiani, ogni sera, dopo aver preparato la cena e riassettato tutto, lucidava cinque paia di scarpe da uomo (quattro dei suoi figli e uno di suo marito)». Robert Argentine, residente a Pittsburgh, in Pennsylvania, figlio di un immigrato di Termini Imerese, afferma: «Mia madre era un’ottima cuoca. Preparava sempre la grande cena italiana con penne, gnocchi, ravioli o qualcosa del genere e insalate». Gloria Talevi Bacci di Chicago racconta: «mia madre […] faceva ravioli e tortellini e, naturalmente, l’arrosto e la salsiccia. Beh, in quei giorni, le ragazze erano davvero vecchio stile nel fare la pasta fatta in casa. Mia madre voleva che imparassi. Continuava a dirmi: “Devi imparare, devi imparare”. Cominciava, quindi, con un impasto di farina e uova, poi lo arrotolava fino a quando subentravo io a farlo sottile per tagliarlo e farne ravioli».
E lo scrittore Mario Puzo, cresciuto in una sezione italiana del West Side di Manhattan, aggiunge: «Non sono mai tornato in una casa vuota; c’era sempre l’odore della cena sul fuoco e mia madre era sempre lì ad accogliermi. […] Mia madre non si sarebbe mai sognata di non usare altro che il migliore olio d’oliva d’importazione, i migliori formaggi italiani. Come la maggior parte delle donne italiane, era una grande cuoca nello stile contadino».
Anche nel racconto Casa dolce casa di John Fante, al ritorno di un figlio dopo una lunga assenza, si festeggia con un classico pranzo all’italiana in cui attraverso il cibo traspare tutto l’amore materno («spaghetti in un trionfo di salsa e di formaggio, perché mia madre sarebbe mortificatissima se non seguitassi a mangiare fino a quando non mi mancasse il respiro»). Accanto ai piatti e ai cibi italiani, però, sulle tavole degli immigrati appaiono anche la carne, la farina bianca di grano (con cui i panifici e pastifici gestiti dagli italoamericani preparano un ottimo pane e i macaroni), il caffè, la birra, il tè e i dolci, che, a differenza dell’Italia, negli Stati Uniti sono diffusi e a buon mercato. La carne soprattutto al Sud era prerogativa delle classi più ricche e veniva consumata dai contadini o dalle categorie popolari solo in occasioni speciali, invece le famiglie italoamericane la introducono massicciamente nelle loro diete alimentari. Rocco Corresca, un lustrascarpe di Brooklyn, racconta: «[Noi avevamo] pochissimi soldi, e i nostri vestiti erano quelli che raccoglievamo per la strada. Tuttavia avevamo abbastanza da mangiare e mangiavamo la carne molto spesso, cosa che in Italia non succedeva mai». Anche il vero caffè in Italia era considerato un genere di lusso ed era sostituito da altre bevande (di orzo o cicoria), invece nelle case degli italo-americani, come scrive Antonio Mangano nel 1903, «la caffettiera è sempre a portata di mano, e se qualcuno viene a far visita tra i pasti, ci si aspetta che accetti sempre una tazza di caffè».

© 2024 Società editrice il Mulino, Bologna



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