cosa vuole davvero Trump dall’Europa

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Se si usa il metro della razionalità economica, le tariffe di Trump sono dannose anche per gli Stati Uniti perché creano inflazione, sono recessive in quanto riducono i vantaggi del commercio internazionale, aumentano l’incertezza per gli investitori, tendono ad apprezzare il dollaro vanificando l’impatto delle tariffe, e neppure riducono il disavanzo commerciale che dipende piuttosto dall’eccesso di capacità produttiva rispetto alla domanda interna di Europa e Cina.

Ma per Trump le tariffe non sono soltanto una tassa sulle importazioni, ma una merce di scambio per strappare concessioni e vantaggi economici, parte di un disegno politico che vuole ricostruire l’industria e la manifattura americana devastata dalla globalizzazione, con pesanti ricadute sull’occupazione e sul reddito specialmente negli Stati dove l’industria si era sviluppata nel primo novecento.

Questo disegno vuole un ritorno all’autarchia, che ha un costo, ma che in un’economia chiusa come gli Stati Uniti è di gran lunga inferiore a quello imposto al resto del mondo, dipendente in misura maggiore dagli scambi internazionali: per Trump, si tratta di una posizione negoziale vantaggiosa, da sfruttare.

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L’obiettivo, dunque, non è il disavanzo commerciale di per sé, ma la creazione di posti di lavoro e il rilancio dell’industria; le tariffe, lo strumento per indurre le imprese americane a riportare a casa le produzioni, e a produrre negli Stati Uniti per quelle straniere.

Per ora Trump ha imposto una tariffa del 10 per cento sulle merci cinesi; una del 25 sulle importazioni da Messico e Canada (10 per i prodotti energetici); 25 su acciaio e alluminio, e altre sono state preannunciate per farmaci, veicoli e semiconduttori.

Ha poi chiesto un’analisi dei regimi tariffari dei singoli paesi che importano dagli Stati Uniti per imporre la reciprocità tariffaria (le importazioni americane da un paese sarebbero tassate allo stesso modo in cui quel paese tassa l’export americano) che avrebbe un forte impatto sul commercio internazionale visto che la tariffa media americana è intorno al 3 per cento, molto inferiore al resto del mondo.

Senza regole

Le tariffe di Trump sono poi uno degli strumenti da buttare sul tavolo delle trattative in un negoziato molto più ampio dove regole, accordi multilaterali, trattati e diplomazia non contano più, e dove tutto viene affrontato con l’ottica degli affari da cui Trump vuole sempre trarre un vantaggio.

Emblematico che anche la guerra in Ucraina sia diventata un’occasione per concludere un affare di stampo neo-coloniale per lo sfruttamento di risorse naturali, calpestando la Nato e il diritto internazionale. Anche nei confronti dell’Europa le tariffe sono un’arma per strappare un ampio spettro di concessioni secondo lo schema “hit first, talk later” (colpiscili prima, poi discuti).

L’elenco dei potenziali obiettivi è lungo: acquisti di Lng americano, anche se più costoso rispetto ad altre fonti di approvvigionamento; maggiore spesa per la difesa da usare per acquisti di armamenti americani; spostamento di impianti produttivi negli Stati Uniti e conseguente riorganizzazione della filiera dei fornitori a vantaggio di quelli locali; ridefinizione dei divieti all’importazione di beni agroalimentari per via dell’uso di pesticidi proibiti nella Ue o di organismi geneticamente modificati; rimozione dell’imposta europea sui ricavi digitali; uscita degli Stati Uniti dall’accordo sull’imposizione minima delle multinazionali, con conseguente perdita di gettito per i paesi europei; revisione della regolamentazione su intelligenza artificiale e servizi digitali (il Digital Services Act) visti come un costo per l’industria tecnologica americana; rimozione del divieto al fracking in Europa dove gli Stati Uniti vantano il primato.

Sono alcune delle tante possibili concessioni a vantaggio delle imprese americane che Trump vuole strappare con la minaccia delle tariffe e che poco hanno a che fare col disavanzo commerciale.

Un metodo peraltro usato anche nella sua prima presidenza quando, come ritorsione per gli aiuti di stato ad Airbus, furono imposte delle tariffe non solo sui suoi aerei ma anche sui formaggi europei.

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Se anche riuscirà ad evitare le tariffe, ma avendo concesso a Trump vantaggi economici di vario tipo, l’Europa finirà per pagare comunque un costo salato. Anche perché i paesi europei si presentano deboli e impreparati al negoziato.

La loro struttura economica dipende troppo dalle esportazioni, non solo perché vanta il secondo più grande avanzo commerciale con gli Stati Uniti, ma anche perché utilizza una quota di input stranieri per le proprie esportazioni nettamente superiore rispetto alle altre aree del mondo (rappresentano il 27 per cento delle esportazioni, contro il 12 degli Usa e 18 della Cina). Inoltre, la Cina, che ha una specializzazione settoriale sempre più simile all’Europa (con in più la tecnologia), tenderà a dirottare il suo eccesso di capacità produttiva dagli Stati Uniti all’Europa, potendoci fare concorrenza sui prezzi in molti settori. Rischiamo quindi di dover combattere una guerra commerciale su due fronti. Come ha recentemente sottolineato il governatore Fabio Panetta: «L’Europa deve adottare un nuovo modello di sviluppo che valorizzi il mercato unico e riduca la dipendenza da fattori esterni».

Ma per farlo bisognerebbe abbattere le troppe barriere che i governi nazionali stanno invece innalzando ovunque in Europa; creare il mercato unico dei capitali e il debito comune; promuovere i consumi privati e gli investimenti in innovazione tecnologica per aumentare la produttività. Mi sembra però si vada nella direzione opposta, a cominciare dal nostro governo.

L’illusione dell’Europa Unita

Nel negoziato con Trump l’Europa ha altre debolezze: la regolamentazione, l’Iva e la diversa composizione merceologica dell’export. La vasta regolamentazione europea viene vista da Trump come un costo improprio che grava sulle imprese americane e viene usato come argomento per ottenere concessioni. Lo stesso dicasi per l’Iva.

Il professor Pisauro ha spiegato su queste colonne che l’Iva non equivale a una tariffa poiché è costruita in modo tale che il consumatore europeo paga la stessa imposta per un’auto, che sia importata o prodotta localmente, come pure il consumatore americano per le auto vendute negli Stati Uniti.

Ma per Trump la dottrina economica vale quanto il diritto Internazionale, vicino allo zero. Per lui i Governi europei traggono un indebito vantaggio dalla tassazione di oltre il 20 per cento sull’acquisto delle auto, quando gli Stati americani si accontentano del 3; e che quindi dovrebbero restituire in qualche modo agli Stati Uniti “l’eccessiva” tassazione.

Infine, è illusorio pensare a una risposta unitaria europea: il commercio internazionale è una materia che spetta alla Commissione, ma gli interessi nazionali sono ben diversi se le tariffe ricadono sulle auto, piuttosto che sul vino o sull’abbigliamento. Lo sa bene Bernard Arnault, il fondatore della multinazionale del lusso Lvmh, unico imprenditore europeo presente all’inaugurazione della presidenza Trump: se saranno tariffe meglio che colpiscano i formaggi o le auto piuttosto che le borsette di Louis Vuitton e che, in omaggio a Trump, ha già cominciato a produrre negli Stati Uniti.

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Uno studio Confindustria mostra come l’Italia sia particolarmente esposta alla guerra commerciale avendo il secondo maggior avanzo nei confronti degli Stati Uniti, ma soprattutto perché il 53 per cento dei 67 miliardi del nostro export verso quel paese è concentrato in quattro settori – macchinari, autoveicoli e altri mezzi di trasporto, farmaceutica ed alimentare – in cima alla lista delle tariffe di Trump.

E mentre gli investimenti in Italia delle multinazionali americane rappresentano il 20 per cento del valore aggiunto delle imprese residenti in Italia, le nostre sono mediamente troppo piccole per fare acquisizioni ed espandersi negli Stati Uniti.

Ma per Giorgia Meloni il problema sembrerebbe quello di Ecce Bombo (nel famoso film di Nanni Moretti): «Mi si nota di più se partecipo al Cpac a Washington, o vado e me ne sto in disparte, o non ci vado?».

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