il fenomeno che scuote le periferie italiane

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«Maresciallo non ci prendi, pistole nella Fendi», cantava nel 2022 Niko Pandetta, attualmente recluso nel carcere di Favignana. Il suo brano resiste tutt’ora nelle classifiche social della musica maranza, trap e drill con testi violenti, richiamo alle origini e orgoglio identitario. I maranza c’erano già negli anni ‘80, crasi tra «marocchino» e «zanza» sinonimo di tamarro, adesso sono un marchio, spesso un problema sociale, casi di cronaca e oggetto di scontro politico.

TUTA E COLLANE

Il fenomeno nasce dal basso, dalle periferie e dall’immigrazione di seconda generazione, ma punta in alto a cominciare dall’abbigliamento. Catene d’oro, tuta in tessuto acetato non troppo larga (per non confodersi con l’abbigliamento da strada), piumino corto e nero senza maniche, scarpe Nike Tn e magliette da calcio, quelle del Milan, del Paris Saint-Germain e del Manchester United le più ambite. Anche la rivista Vogue vi ha dedicato un articolo e gli stilisti attingono dal loro repertorio, creando alla fine l’omologazione dei maranza. Collane, cappellini, monopattini e musica trap, risse per strada e aggressioni. «Faccio l’insegnante e una mia allieva mi ha detto: “Maranza è uno stile, è il nostro modo di essere giovani”».

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È l’atteggiamento nichilista di una generazione cresciuta nella crisi, nelle disuguaglianze. È una reazione», spiega la sociologa Anna Curcio, che per la casa editrice DeriveApprodi ha pubblicato il saggio “Maranza di tutto il mondo, unitevi” dell’attivista franco-algerina Houria Bouteldja. Che dipinge due categorie: i cosiddetti «beaufs», i bifolchi, il sottoproletariato bianco delle periferie abbandonato dalla politica, e i «barbares», gli afro-francesi ignorati anche da chi sostiene di difendere i loro diritti.

«L’obiettivo è provare a comprendere cosa c’è dietro, sporcarsi le mani, incanalare questa rabbia trasformandola in forza costruttiva», sottolinea. Come? «Con nuove politiche urbane e sociali, agendo all’interno delle scuole. Non si tratta di giustificare la violenza o restituire al fenomeno un’idea romantica, bensì contestualizzarlo e gestirlo». Senza liquidarlo solo come fatto di costume. «L’abbigliamento, per esempio. Tutte le esperienze passano sempre da qui, è il riconoscimento dell’identità di un gruppo – riflette Anna Curcio – Attraverso gli accessori vistosi, i marchi esibiti passa il messaggio non siamo soltanto feccia, possiamo sfoggiare le cinture dei grandi marchi della moda. Ci siamo anche noi. Ecco, dobbiamo assumerci la responsabilità collettiva di questa rabbia». Al Corvetto, quartiere a sud di Milano, è esplosa a novembre con cassonetti incendiati dopo la morte di Ramy, schiantatosi con il motorino guidato dall’amico Fares durante un inseguimento dei carabinieri.

«Grazie ai paladini dei diritti difensori dei maranza, si sta diffondendo la moda di continue forzature dei posti di blocco delle forze dell’ordine», segnala il vicepresidente della commissione Affari Costituzionali della Camera Riccardo De Corato. Di notte alla Darsena, all’Arco della Pace e in corso Como, i maranza sono responsabili della maggior parte degli atti di violenza e seminano il panico fuori dai locali. In provincia di Treviso il “Casanegra lounge” si è inventato un Daspo affiggendo un cartello sulla porta:

«Ingresso selezionato. No tuta, no cappellini». A Capodanno il bar era stato teatro di una maxirissa con un diciottenne sfregiato. Giovanissimi gli aggressori, ragazzi le loro vittime. Come il diciannovenne italiano di origine marocchina accoltellato due giorni fa davanti a un centro commerciale. Lo schema è sempre lo stesso: «Hey bro, c’hai una siga?». Poi la lite quando uno del gruppo scopre che con la vittima ha un conto in sospeso, il coltello che spunta, la fuga della banda con il telefono e il monopattino del diciannovenne riverso a terra. Ora è caccia alla banda, stando all’identikit sono tutti giovani nordafricani.

I VIDEO

Nel 2023, dei 22 mila stranieri arrivati a Milano erano 1.300 i minori non accompagnati in carico per legge al Comune, numero doppio rispetto all’anno precedente, tanto che il 30% dei ragazzi è ospitato in comunità fuori città o in altre Regioni. Ciro Cascone, ex procuratore capo del Tribunale dei Minori di Milano, ha identificato il filo conduttore che accomuna tutti i gruppi: «Spesso si identificano con il Cap del quartiere di appartenenza. Condividono il disagio economico e il desiderio di pareggiare i conti con chi è nato più fortunato. Infine il non pensiero: rubano spesso per gusto, aggrediscono per uno sguardo sgradito».

E poi alta dispersione scolastica, famiglie disgregate o inesistenti, TikTok come unico faro. A Torino, il 20 gennaio, tre ragazzi tra i diciassette e i vent’anni hanno rapinato una novantenne minacciandola con una pistola e una spranga di ferro, uno di loro ha ripreso tutto con il cellulare. I filmati, dicono sconfortati gli inquirenti, sembrano essere stati registrati soltanto per vantarsi in rete. La brutalità in diretta, sulle chat di WhatsApp. «La rapina sembra quasi finalizzata a fare il video, come se quello fosse l’obiettivo principale. Purtroppo, per chi lavora con i minori, non è nemmeno una novità. Si riprendono con la droga in mano, con le pistole, con le banconote rubate», afferma la procuratrice per i Minori Emma Avezzù. «E adesso, anche mentre compiono rapine a mano armata».

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