Economia e moneta: cosa cambierà nel 2025

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In questo articolo cercheremo di comprendere perché le Banche Centrali hanno annunciato di voler emettere e immettere valuta “cripto” e digitale – con tecnologia “block chain” – diversa dalla comune moneta elettronica (quella dei nostri conti correnti e delle carte di credito/debito, mentre quella digitale sarebbe capace di operare senza internet o altre reti informatiche): essa sarebbe dovuta venire introdotta quest’anno, ma non risolti problemi tecnici stanno spingendo l’evento in avanti nel tempo; qui non ci interesseremo delle problematiche tecniche, ma del perché le Banche Centrali sarebbero sul punto di aggiungere un’altra valuta, un’ulteriore base monetaria, al dollaro che, nonostante i fenomeni di “dedollarizzazione” – di cui ci occuperemo in questa sede – rimane ancora la principale moneta di riferimento.

Orbene, occorre iniziare col considerare l’ultimo grande evento riguardante la moneta e risalente al 2008; quando l’immane creazione di (titoli) derivati cominciò a mettere in seria difficoltà banche ordinarie e altre istituzioni finanziarie speculative per la principale e storica ragione, riguardante la carenza di liquidità.

A partire dal 2008, infatti, le Banche Centrali introdussero tale nuova dottrina economica: avrebbero garantito immissioni “illimitate” (sono parole loro) di mezzi monetari a corso legale onde evitare le classiche crisi bancarie dovute a carenza di liquidi.

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Sono state, dunque, emesse e immesse nel sistema quantità incredibili di mezzi monetari, pari a decine di volte il PIL mondiale (attualmente solo 100.000 miliardi di dollari, ovvero 100 trilioni, a fronte di diversi quadrilioni ovvero milioni di miliardi di dollari): dati della Banca dei Regolamenti Internazionali di Basilea (BRI). Nel passato e in condizioni “normali”, la liquidità dell’economia reale si aggirava attorno ad un 20% del Valore Aggiunto annuale; oggi, soprattutto dopo il 2008, essa oscilla – comprendendo tutta la componente finanziaria – attorno al 300% del PIL; ma la liquidità che arriva all’economia reale è sempre più scarsa.

Attraverso vari strumenti – garantiti dalla BRI (soprattutto per quanto attiene al credito per le famiglie e le piccole imprese) – il sistema si è retto sulla necessità che nulla della immane creazione di moneta arrivasse all’economia reale: se ciò fosse accaduto, infatti, il mondo del lavoro ne sarebbe risultato sconvolto perché nessuno – ricco di dollari e di euro – avrebbe accettato ancora mansioni sottopagate, faticose e, comunque, poco appaganti.

Ma vi è, tuttavia, un importantissimo canale di aumento della liquidità in moneta a corso legale che sostiene l’economia reale (non si parla qui della moneta fiduciaria, creata dai privati, che un po’ riesce a sopperire alle carenze della precedente): il debito pubblico, che cresce in funzione dei disavanzi dello Stato quando la spesa complessiva supera le entrate.

Secondo le teorie economiche affermatesi circa un secolo fa, il disavanzo creato dalle spese pubbliche (infrastrutture, welfare, assistenzialismo, clientele, guerre e quant’altro) generava un “effetto moltiplicativo” che andava da un minimo dell’1,5 – secondo i detrattori di tali teorie – ad un massimo del 3-4 per i sostenitori di esse: in altri termini, un dollaro sottratto al contribuente attraverso le tasse, generava un effetto sulla crescita del PIL da 1,5 a 4 dollari.

Di cosa, invece, potrebbero essersi accorte, di recente, le Banche Centrali, soprattutto l’americana FED? Che talune spese non avrebbero più un effetto positivo sul PIL, ma negativo: si sta sostenendo, in base a dati ormai di dominio pubblico, che un dollaro di tasse ovvero di debito del governo per spese militari, produce un effetto sul PIL di soli 58 centesimi, ovvero una perdita di 42 centesimi di dollaro.

Nella Storia (vedansi la Prima e la Seconda Guerra Mondiale), le spese militari e lo smaltimento delle scorte belliche, furono lo strumento per uscire dalle crisi (del capitalismo liberale la Prima, di quello finanziario la Seconda); in tempi più recenti, soprattutto dopo l’esperienza del Vietnam, le guerre sono andate, invece, a distruggere il bene divenuto più prezioso: vale a dire le relazioni, umane, commerciali, eccetera.

Nel recente passato, la crisi era costituita dalla difficoltà a smaltire produzioni eccessive rispetto alle capacità di reddito delle popolazioni, vale a dire la loro domanda effettiva; oggi, sappiamo che la possibilità di vendere un prodotto dipende dalle relazioni commerciali vantate dallo stesso produttore o, il più delle volte, da un intermediario.

A differenza degli anni ’60 e ’70 del secolo scorso, gli Stati che non fanno parte dei cosiddetti BRICS, tendono a contenere le spese per infrastrutture e welfare; oggi, dunque, gli USA emettono dollari a proprio debito, soprattutto per spese militari; non è chiaro quali saranno le grandi strategie dell’amministrazione Trump; ma non pare che essa stimolerà una crescita del deficit e del debito per finalità umanitarie o di crescita tecnologica diversa dalle spese militari.

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Quindi, il principale canale di trasmissione monetaria all’economia reale – la spesa pubblica in disavanzo – non produce più una crescita adeguata del PIL, ma un suo contenimento – nell’esempio USA – del 42%: un dollaro tolto ai contribuenti mancherà di sostenere i consumi, mentre l’investimento e la spesa dello Stato avrà un effetto inferiore ad 1 sul PIL stesso.

In queste condizioni, le Banche Centrali che furono create per la gestione della moneta cartacea, in Europa, a partire dalla fine del XVII secolo, allo scopo di evitare che i Sovrani eccedessero nelle emissioni, sono state causa, soprattutto dopo il 2008, di un eccesso tale da suggerire il superamento delle attuali valute – principalmente il dollaro, ma non solo – ed il loro affiancamento o, addirittura, la loro sostituzione, con alternative.

In teoria, dunque, sarebbe necessario ridurre drasticamente le spese militari: oppure – il che macroeconomicamente è lo stesso – far crescere moltissimo le spese per la ricerca (non a fini bellici), il Welfare, le infrastrutture.

Invece, il fuoco di Los Angeles lo dimostra (coi i tagli alle spese per l’assetto ambientale e per l’organizzazione contro gli incendi) non siamo al passo con i tempi: la spesa militare non aiuta l’equilibrio economico e quella civile è insufficiente.

La cultura corrente, infatti, demonizza la spesa pubblica e sostiene, invece, che la crescita del debito non possa portare a situazioni o soluzioni di equilibrio; tesi non del tutto sbagliata, ma la cui conseguenza è quella di immettere risorse non a debito: gli Stati, infatti, possono pur sempre esercitare la loro sovranità monetaria e non hanno, necessariamente, bisogno di Banche centrali del tutto autonome; ma, semmai, di Istituti di emissione che calibrino le nuove emissioni di moneta non sulla base delle esigenze del mondo finanziario, ma di quello reale; oggi in condizioni di crescere in funzione delle esigenze delle persone, dell’ambiente, delle esigenze di manutenzione del patrimonio esistente.

Al contrario, l’introduzione di una nuova valuta – a prescindere dai suoi aspetti tecnici – non appare la soluzione; ma, semmai, un’ulteriore complicazione nella gestione della o delle basi monetarie cui i cittadini guardano, sempre più preoccupati per il destino dei loro risparmi.



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