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Un’energia nuova si sprigiona dalle proteste studentesche che da settimane fanno tremare la Serbia. Voci, speranze, incertezze: il nostro reportage cattura i momenti e le atmosfere di un paese che ha voglia di cambiare e costruire un futuro diverso
“Non c’è nulla nella mia vita che possa essere paragonato a questo.” Con un ampio sorriso sul volto, Uroš è in fila fuori dalla Facoltà di Farmacia di Belgrado per iscriversi alla marcia di quattro giorni verso Kragujevac che lui e centinaia di suoi colleghi si preparavano ad iniziare, trasformando in manifesto il proprio corpo in cammino. “E a dirla tutta, non sono nemmeno un tipo da camminate”, ammette lo studente, originario di Novi Sad.
Le scarpe da ginnastica leggere che indossa lo dimostrano: Uroš, ad una prima occhiata, non sembra affatto attrezzato per percorrere a piedi 120 chilometri. Ma dentro, ci dice, ha “un’emozione e un dovere morale” che lo fa avanzare senza il minimo segno di stanchezza – almeno durante i primi dieci chilometri, fino ad Avala – mentre lo accompagno, mentre lo ascolto:
“Per la mia generazione questa è la nostra ultima possibilità di costruire un futuro in questo paese. Se non funziona, emigreremo. (…) Forse sacrificheremo un anno, ma se lo sacrifichiamo per bene, ne varrà la pena. Questo è un’enorme esame per l’intera società serba, un test per vedere se siamo svegli. (…) La democrazia è il punto centrale. Stiamo cercando di indicare alla società come essere migliore. In Serbia c’è un’enorme mancanza di democrazia ma all’interno di quella micro-società che è la società studentesca, stiamo dimostrando che può esistere. Gli studenti non si sono mai sentiti un corpo così unito. Questo sentimento di appartenenza, di condivisione, di essere una comunità, ci sta spingendo verso la libertà”.
Un corpo collettivo, on the road. Ed ogni sua cellula ha una storia da raccontare:
“Appartengo alla minoranza serba di Vukovar e ho anche origini dalmate. La mia famiglia porta il trauma della guerra ed una parte della nostra identità è basata sul fuggire dal male: sto cercando di fronteggiare quel trauma e combatterlo. Questa lotta è solo l’ultima ‘battaglia’ per il bene. Empatia e amore sono due sentimenti che erano stati accantonati da queste parti. Dagli anni ’90 in poi, le persone hanno smesso di credere nella società come corpo unito. Una cosa sorprendente è che l’amore e l’empatia ora si sono risvegliati non solo in Serbia ma in tutta l’ex Jugoslavia… Lubiana, Zagabria, Fiume, Sarajevo… È un segno che forse le nostre società stanno guarendo e che la mia generazione è pronta a costruire di nuovo amicizia e fratellanza”.
Uroš ha 23 anni. È ancora presto, ma se dovesse decidere oggi la sua futura specializzazione, sceglierebbe di essere un medico internista, attratto dalla concezione del corpo come universo unico e indivisibile. E il corpo di questa società? “Per la nazione serba, il cuore non è mai stato un problema, abbiamo sempre avuto passione. Ma il cervello è stato spesso un po’ lento, un po’ pigro, intrappolato da anni e anni di manipolazione mediatica. Ma ora nuovi impulsi raggiungono il cervello. Sta succedendo qualcosa”.
Kuda na protest?
Uroš era uno delle decine di migliaia di manifestanti scesi in piazza il 15 febbraio a Kragujevac, in una delle più grandi proteste di questo inverno, dopo i grandi raduni di Belgrado del 22 dicembre e 27 gennaio e di Novi Sad il primo febbraio.
Tutte le strade porteranno a Niš per la prossima grande protesta nazionale programmata dagli studenti per il primo marzo, ma fino ad allora la Serbia continuerà a essere una matrioska di lotte quotidiane che si moltiplicano, in quello che sembra crescere come il più grande movimento sociale di questo secolo nel paese e in tutta l’ex Jugoslavia.
E lentamente inizia a aver senso chiedersi: è questo uno dei più grandi movimenti studenteschi – realmente studenteschi di base – di questo secolo in tutta Europa?
Negli ultimi tre mesi, ad ogni metastasi del regime di Vucic corrisponde una manifestazione o una blokada. Mentre scrivo, gli studenti hanno appena occupato il KCB – Centro Culturale di Belgrado.
È impossibile trascorrere una giornata a Belgrado senza sentire qualcuno chiedere Kuda na protest? (Dove si va a protestare?), che è anche il nome del sito che è la bussola quotidiana della rivolta.
Nel resto della Serbia, esclama una veterana di tutte le manifestazioni degli anni ’90, “sta davvero succedendo qualcosa: ci sono proteste nel 2025 in luoghi dove i serbi non si erano nemmeno ribellati ai turchi!”
Tra le tante, probabilmente la protesta più organica e potenzialmente fruttuosa che cresce all’ombra del grande albero della rivolta degli studenti universitari è quella delle scuole elementari e superiori, soprattutto perché alcuni gruppi di insegnanti del ginnasio erano già in sciopero parziale prima dell’ondata di blokade.
Venti universali, venti nuovi
Un sole in alto nel cielo d’inverno addolcisce un po’ le temperature glaciali che persistono fino nel primo pomeriggio dell‘8 febbraio, alla rotonda di fronte al Municipio di Novi Beograd.
“È una bella giornata, ma un po’ ventosa”, inizia dicendo, davanti a quasi 10mila persone, tra cui molti adolescenti e bambini, uno degli insegnanti della scuola “20 ottobre”, salita sul palco all’incontro “Novi Beograd cammina per l’istruzione”.
È un soffio di Košava, il vento freddo e penetrante di sud-est, ma il momento lo trasforma in un vento storico: “È un vento che ci spinge in avanti. Non possiamo riposare un minuto senza fare del nostro meglio per questa generazione”.
Un’altro insegnante, della scuola Duško Radović, promette che “questa sarà la generazione migliore di questo paese” quando legge un discorso in rappresentanza di tutti i suoi colleghi, mostrando come gli insegnanti mutuano i metodi dagli studenti, discutendo e votando in riunioni plenum su un discorso che è una voce collettiva.
La sensazione di trovarsi in un laboratorio di democrazia diretta è rafforzata dalla visione sul palco di persone che solitamente non si espongono; c’è un processo orizzontale e circolare di presa di parola.
L‘insegnante della Radović rivendica anche il “diritto a una vera educazione” e il “diritto a un abbraccio”, amplificando l’idea di empatia, una parola uscita dalla bocca di studenti come Uroš per invadere lo spazio pubblico.
La Generazione Z ha fatto sì che emoticon a forma di piccoli cuori comparissero dagli schermi dei cellulari in ogni strada, su ogni manifesto, su ogni discorso e in ogni abbraccio. Un vero social network.
“Gli studenti universitari”, aggiunge una terza insegnante, “danno l’esempio agli studenti delle scuole superiori”. E non solo ai colleghi più giovani, dice con la voce già tremante, ma davvero a tutta la società, perché con il loro sciopero “gli studenti non perdono nessuna lezione; ci stanno piuttosto insegnando che la cosa più importante è lottare per ciò in cui crediamo” e che questo è il momento per tutti noi di “liberarci dalla paura”.
“Insieme possiamo tutto” riassume un cartello che un padre tiene in una mano; nell’altra il figlio, di pochi anni. Sul pavimento, un gruppo di bambini sta dipingendo un poster dedicato ai loro idoli nella vita reale: “Quando sarò grande, sarò uno studente”. Le dimostrazioni rappresentano oggi un’altra scuola. E nonostante gli scioperi la Serbia oggi sembra tutta in classe.
Avanguardia contro lo zeitgeist mondiale
“Svegliati
sta succedendo qualcosa
non dire che non lo sapevi…”
Mentre riecheggiano i versi iniziali della poesia “Svegliati” di Duško Trifunović, letta da una degli insegnante al microfono, mi guardo intorno e non vedo una sola bandiera dell’Unione Europea, che ha praticamente ignorato tutto quello che sta accadendo in Serbia, ostaggio della sua lunga connivenza con il regime al potere.
Ci sono alcune bandiere serbe, molte delle varie scuole o facoltà; tra questi spicca lo striscione della FDU, la facoltà di arti drammatiche, dove il 23 novembre è iniziata la prima blokada universitaria.
“C’è una nuova energia nella società”, aveva detto anche sul palco improvvisato Srđan Golubović, regista e professore di cinema alla FDU, pochi minuti prima. Come la stragrande maggioranza dei manifestanti, lui fa copypaste dalla strategia degli studenti di non pronunciare mai il nome di Aleksandar Vučić (letteralmente mai) – e questa scelta è già un caso di studio per i futuri corsi di comunicazione politica.
Golubović si riferisce alla Serbia come al “paese dei diplomi comprati” e amplifica il coro che gonfia la voce dei giovani universitari: “Con loro stiamo imparando a lottare, senza compromessi, fino alla fine, per un sistema [equo], per un futuro”.
Si rivolge ai colleghi dei livelli di istruzione di base e li ringrazia: “Potete dire di aver compiuto la vostra missione quando vedete i vostri studenti cambiare il mondo, come accade oggi. Ciò che sta accadendo in Serbia è all’avanguardia nello scenario mondiale. In quale parte del mondo sta accadendo qualcosa di simile a quello che sta succedendo qui?”
Golubović non pronuncia mai la parola rivoluzione, un’altra delle “regole” della retorica studentesca, ma il discorso gli sfugge per confrontare il presente con un fotogramma della storia della dialettica delle rivoluzioni: “Nel ’68 si diceva ‘Siate realisti, chiedete l’impossibile!’. Il motto di questa manifestazione è: siamo realisti e chiediamo il possibile. Non solo possibile, ma qualcosa che deve assolutamente succedere”.
Terminata la protesta, una bambina aiuta subito a ripulire la piazza. Alcuni manifestanti accatastano poster, come fossero pezzi di un puzzle, nel retro di un furgone Zastava. In una vecchia Volkswagen lì accanto, due grandi altoparlanti piazzati sul tetto diffondono i primi accordi di Hoću da znam della banda rock Partibrejkers, “Hoću da znam kuda vodi ovaj put…”. Duško Trifunović voleva (anche) sapere dove ci porta la strada:
“Svegliati
sta succedendo qualcosa
non posso dirti chiaramente cosa sia
non è bugia, non è verità
ma sento che a lungo durerà…”
La poesia dei suoi versi non finisce qui. Succederà qualcosa.
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