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Non c’è pace per la liquidazione dei dipendenti pubblici. Ai ritardi nell’erogazione del Tfs/Tfr (più volte denunciati da Collettiva), si fa sempre più sentire il peso di un’inflazione che ne erode il valore reale. L’aumento del costo della vita, infatti, non intacca solo i salari, ma anche le future pensioni e, appunto, le liquidazioni. Una situazione insostenibile e della quale si è discusso in un convegno dello scorso 17 febbraio a Roma (“Il trattamento di fine rapporto dei dipendenti pubblici, proposte e iniziative per superare l’inaccettabile sequestro della liquidazione”) promosso da Cgil, Uil, Cgs, Cse, Cosmed, Cida e Codirp.
Serve, sottolinea Ezio Cigna, responsabile previdenza della Cgil, “un intervento normativo che garantisca ai lavoratori e alle lavoratrici dei settori pubblici gli stessi diritti di quelli del settore privato. È una situazione inaccettabile: si tratta, di fatto, di un’appropriazione indebita perpetrata da diversi governi a prescindere dal loro colore politico”.
D’altra parte su questo differimento ingiustificato aveva già manifestato le sue perplessità nel 2023 la Corte Costituzionale, con la sentenza n.130/2023. Mentre è di pochi giorni fa la notizia che il Tar delle Marche, ha rimandato la questione alla stessa Corte Costituzionale, per un ex dipendente della Polizia che ha presentato ricorso legale per ricevere il pagamento immediato della sua liquidazione.
Tutto è iniziato con il governo Berlusconi
Ma cerchiamo di capire come si è arrivati a questa situazione. Quindici anni fa il governo Berlusconi, con il dl 138/2011, stabilì termini più lunghi per l’erogazione del Tfs/Tfr dei dipendenti pubblici, introducendo tempistiche di almeno 6 mesi per l’erogazione del beneficio e generando un’ingiustificabile discriminazione rispetto a chi lavora nei settori privati.
Come se non bastasse, quei termini sono stati nel corso degli anni allungati, con ulteriori provvedimenti legislativi che hanno finito per creare danni economici di grande rilievo a migliaia di persone e ritardi enormi: siamo arrivati al punto che oggi si possono attendere ben 7 anni (come per “quota 100” o “quota 102”) per poter incassare la liquidazione che, va sempre ricordato, non è un regalo, ma salario differito, frutto di anni e anni di lavoro.
Il peso dell’inflazione
La penalizzazione non riguarda soltanto l’allungamento dei tempi di attesa dell’erogazione della liquidazione. Tocca pesantemente anche il potere d’acquisto del Tfs/Tfr che, a causa dell’inflazione accumulata, perde sempre più valore col passare del tempo. Un motivo in più per rivendicare che nel rinnovo dei contratti venga presa a riferimento il tasso d’inflazione reale. Come sempre quando si parla di previdenza e mercato del lavoro tutto si tiene: le ingiustizie e le distorsioni del presente si riflettono nel futuro pensionistico delle persone.
Un po’ di numeri: la perdita del potere d’acquisto
Ma andiamo a vedere nel concreto. Prendendo come riferimento dati Inps, l’importo medio lordo del Tfs per chi va in pensione per vecchiaia o limiti di servizio è pari a 82.400 euro. Se prendiamo in considerazione una cessazione dal servizio a novembre del 2022, l’importo della prima rata (che sarà erogata a gennaio 2025) sarà di 50.000 euro; quanto alla seconda (gennaio 2026) ammonterà a 32.400 euro. Se però consideriamo l’inflazione cumulata maturata in quegli anni (rispettivamente 8,1, 5,4 e 0,8%), vediamo che il valore reale di queste cifre è assai più basso.
Per la prima rata l’inflazione cumulata del 13,9% fa sì che il valore reale della liquidazione passi da 50.000 a 43.050 euro. Quanto alla seconda rata, l’importo nominale di 32.400 euro “grazie” a un’inflazione cumulata del 14,8% (a cui si aggiunge quella stimata per il 2025) scende in realtà a 27.605 euro. In totale, dunque, la perdita rispetto a quei 82.400 euro nominali è di ben 11.735 euro, pari al 14,2%. Una perdita che ovviamente aumenta all’aumentare dell’importo del Tfs, soprattutto considerando l’ulteriore differimento per le rate successive.
Un dato allarmante è anche quello che riguarda l’ammontare complessivo delle risorse sottratte a causa della perdita del potere d’acquisto prodotta dal differimento del pagamento del Tfs e dall’inflazione. Si tratta, per chi è andato in pensione nel 2022 e nel 2023, di ben 2 miliardi e 157 milioni di euro. con conseguenze dirette sul benessere di decine di migliaia di lavoratori. “Questo dato conferma come il differimento si traduca in un vero e proprio taglio occulto dei diritti economici dei dipendenti pubblici”, chiosa Cigna.
Gli effetti dell’innalzamento dei limiti pensionistici
Come se non bastasse, a tutto questo si aggiunge l’effetto dell’innalzamento dei limiti ordinamentali a 67 anni introdotto con la legge di bilancio 2025. Una decisione che avrà un impatto significativo sul differimento del Tfs/Tfr. A partire dal 2026, infatti, inizieranno a generarsi risparmi per l’amministrazione pubblica stimati in 339 milioni di euro nel decennio 2025-2034, ma a discapito di 76.300 lavoratori pubblici, che in questo modo vedranno ulteriormente posticipato il loro diritto alla liquidazione. Se si considera anche l’impatto sulle pensioni, il risparmio complessivo nel decennio 2025-2034 raggiunge 2 miliardi e 145 milioni di euro, portando il totale dei risparmi tra Tfs/Tfr e pensioni a 2 miliardi e 484 milioni di euro.
Cambiare rotta
Drastico il giudizio di Cigna: “Questi dati confermano che il meccanismo del differimento del Tfs/Tfr non è più giustificabile né dal punto di vista economico, né da quello giuridico. Le risorse sottratte ai lavoratori pubblici non solo ne penalizzano la stabilità economica, ma violano il principio di equità di trattamento rispetto ai dipendenti privati, ai quali il Tfr viene erogato in tempi ragionevoli”.
Non solo: “I 2 miliardi e 157 milioni di euro sottratti ai lavoratori pubblici a causa del differimento e dell’inflazione rappresentano una perdita anche per l’economia del Paese. Queste risorse, se erogate nei tempi corretti, sarebbero state investite all’interno del sistema produttivo, messe in circolazione e avrebbero generato effetti positivi sul ciclo economico, contribuendo alla crescita e allo sviluppo nel nostro Paese”, conclude il dirigente della Cgil.
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