Il 19 febbraio si è tenuto alla Fondazione Basso di Roma un incontro con una delegazione di Kairos Palestine, movimento palestinese cristiano non-violento, nato a seguito della pubblicazione dell’Appello Kairos Palestine: A moment of truth (2009). Presenti Rifat Kassis (coautore dell’appello e coordinatore di Global Kairos for Justice), Sahar Francis (avvocata e direttrice dell’associazione Addameer, che fornisce patrocinio legale ai prigionieri politici palestinesi) e Munther Isaac (pastore e teologo, preside del Bethlehem Bible college) che abbiamo intervistato a margine della conferenza.
Lei è prima di tutto un pastore cristiano, in questi 16 mesi quanto sono aumentate le restrizioni alla libertà di culto?
Le restrizioni sono quelle che tutti in palestinesi vivono: confisca di terre, checkpoint. Impediscono ai cristiani di Betlemme di andare a pregare a Gerusalemme. Non dovremmo aver bisogno di un permesso per muoverci nella nostra terra, ma almeno in passato ce lo concedevano durante le festività. Oggi non possiamo più farlo, è una violazione della nostra libertà di culto nella nostra stessa terra. Le maggiori violazioni ci riguardano in quanto palestinesi, prima che cristiani.
Sono state distrutte moltissime chiese e moschee, non solo a Gaza ma anche in Cisgiordania.
Le case di culto sono state colpite e distrutte specialmente a Gaza, Israele non ha nessun rispetto per le istituzioni religiose, la santità dei luoghi – cristiani e musulmani – e la vita umana. La situazione in Cisgiordania è diversa, lì abbiamo attacchi dai coloni, che fanno scritte d’odio, a Gerusalemme est attaccano le chiese e le bruciano. Il problema è il governo che li supporta e non gli attribuisce responsabilità. Se un palestinese attaccasse una sinagoga verrebbe messo in prigione per anni.
Com’è la vita oggi in Cisgiordania, a Betlemme?
Betlemme è una prigione a cielo aperto, una nuova Gaza, Israele ha bloccato e chiuso tutte le strade che portano alla città con checkpoint, cancelli, blocchi di cemento, e controllano tutto il movimento fuori e dentro Betlemme. I coloni attaccano i villaggi, le aree rurali, il movimento è molto difficile. I checkpoint sono quasi sempre chiusi, chi deve passare aspetta finché i soldati decidono di aprirli, si può aspettare una quantità indefinita di tempo. Spesso chiedono di uscire dalle macchine e molestano, picchiano, torturano. In Cisgiordania hanno espulso forzatamente 45.000 palestinesi dalle proprie terre. Il messaggio è che vogliono che ce ne andiamo.
Che rapporto c’è tra le comunità palestinesi cristiane e quelle musulmane, con gli altri leader vi confrontate?
In Palestina siamo un solo popolo, cristiani e musulmani, non facciamo differenza. Israele ci opprime allo stesso modo. Abbiamo la stessa cultura, parliamo la stessa lingua, mangiamo lo stesso cibo, abbiamo la stessa storia. Anche la forma di resistenza è simile, la maggioranza dei palestinesi sceglie la resistenza non violenta a prescindere dal culto.
Nel Natale 2023 in un discorso ha affermato che «il mondo non ci vede come uguali, forse per il colore della nostra pelle, forse perché siamo nel lato sbagliato di un’equazione politica». Com’è composta quest’equazione?
Molti cristiani occidentali preferiscono supportare Israele piuttosto che i palestinesi cristiani: è perché non siamo bianchi? Perché non serviamo l’interesse degli Stati Uniti? Sono condiscendenti verso di noi, credono di sapere meglio di noi quale sia la soluzione per il popolo palestinese, e vorrebbero imporcela. Molti leader di Chiesa ci fanno lezioni sui diritti umani in quanto palestinesi e mediorientali cristiani, sui diritti delle donne ad esempio, ma quando i palestinesi sono massacrati stanno in silenzio. Per me l’unico modo per descriverlo è razzismo, double standard. Quando i loro alleati violano le leggi va bene, il messaggio è che il potente può violare i diritti umani. È l’opposto del credo cristiano, Gesù stava dalla parte di vulnerabili, oppressi, marginalizzati. Tutto ciò ha a che fare con la «teologia dell’impero», per cui la religione viene usata per giustificare l’oppressione. La colonizzazione della Palestina è giustificata come ritorno alla patria degli ebrei. In questo modo hanno permesso che qualsiasi ebreo in qualsiasi parte del mondo avesse più diritto a vivere in Palestina dei palestinesi stessi. È colonialismo, non ha a che fare con la religione.
Nel suo discorso ha detto: «Gaza oggi è la bussola morale del mondo, era un inferno prima del 7 ottobre e il mondo stava in silenzio». Quanto è disorientato il mondo dopo 16 mesi di genocidio?
È molto peggio di quando ho pronunciato queste parole, il genocidio continua, la complicità del mondo continua. L’umanità è in una vera crisi, i politici israeliani, che acquistano potere dalle parole di Trump, ci pongono di fronte al rischio di pulizia etnica di 2 milioni di palestinesi. Per me Gaza rimane la bussola morale del mondo, stanno permettendo che chi commette questi atroci crimini sfugga alla responsabilità. Il presidente di Israele, Isaac Herzog, è ora a Roma, il messaggio che ci arriva è che il genocidio e la pulizia etnica sono normalizzati e accettati.
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