La rapida sovrapposizione di politiche russe e statunitensi sulle sorti dell’Ucraina prende sempre più forma il giorno dopo l’affondo di Donald Trump contro il «dittatore» e ormai ex alleato Volodymyr Zelensky. A Kiev, l’incontro dell’emissario della Casa bianca, di fatto esautorato, Keith Kellogg, e quello del presidente ucraino sulla via dell’esautorazione non è stato seguito da una conferenza congiunta «su richiesta americana», ha detto alla Cnn un consigliere di Zelensky.
DAGLI USA, sia il segretario del Tesoro Scott Bessent che il consigliere per la sicurezza nazionale Michael Waltz hanno esortato Zelensky a «abbassare i toni» (Waltz), e «firmare l’accordo» che consentirebbe agli Usa lo sfruttamento delle risorse naturali e delle terre rare ucraine. Se solo Kiev avesse accettato questa ulteriore spoliazione, ha detto Bessent, «gli Stati uniti, con un interesse economico maggiore in Ucraina, provvederebbero uno scudo di sicurezza». Il segretario del Tesoro ha anche ventilato la possibilità di «alleviare» le sanzioni alla Russia per velocizzare i negoziati di pace.
MA LA MANIFESTAZIONE più concreta dell’allineamento Washington/Mosca è il rifiuto del governo Usa, anticipato dal Financial Times, di firmare la dichiarazione del G7 per il terzo anniversario (lunedì prossimo) dell’inizio della guerra in Ucraina: il motivo è che respinge l’appellativo di paese aggressore riservato alla Russia. Chissà che la Casa bianca non intenda anche cominciare a chiamare la guerra un’«operazione speciale». Allo stesso modo, delle fonti diplomatiche hanno rivelato a Reuters che gli Stati uniti si sono rifiutati di partecipare a una risoluzione dell’Assemblea generale delle Nazioni unite, prevista sempre il 24 febbraio, che condanna l’invasione russa e ribadisce l’impegno a garantire «la sovranità, l’indipendenza, l’unità e l’integrità territoriale dell’Ucraina all’interno dei suoi confini riconosciuti internazionalmente», si legge nella bozza.
Il repentino allontanamento Usa dall’Europa e dal suo “vicinato” è evidente anche nella politica interna statunitense degli ultimi giorni: già il 14 febbraio Bloomberg aveva dato notizia di un memo del segretario della Difesa Pete Hegseth – oscurato dal «massacro di San Valentino»: le dimissioni in massa dal dipartimento di Giustizia per non firmare il documento con cui si facevano cadere le accuse contro il sindaco di New York Eric Adams, e il licenziamento di migliaia di dipendenti della Sanità – in cui ordina ai vertici del Pentagono di sviluppare dei piani per tagliare il budget della Difesa dell’8% nei prossimi 5 anni. Per dare la misura dell’impatto: il budget approvato per il solo 2025 è di 850 miliardi di dollari.
IL MEMO INDICA le 17 categorie di spesa esentate dai tagli, fra cui la modernizzazione delle armi nucleari e della difesa missilistica – l’Iron Dome americano che Trump ha detto di voler realizzare – l’acquisizione di sottomarini, munizioni e altre strumentazioni, e naturalmente la sicurezza al confine e i piani per la deportazione di massa dei migranti. Molte testate Usa sostengono infatti che non si tratti di veri tagli ma di uno spostamento di risorse verso imprese care a Trump. L’alto funzionario del Pentagono Robert G. Salesses ha affermato non a caso in un comunicato che i soldi risparmiati serviranno a «riallineare» il dipartimento con le priorità della nuova amministrazione.
MENTRE – in chiave anticinese – si risparmiano i tagli anche all’Indo-Pacific Command, fra le eccezioni previste dall’ordine di Hegseth non rientra significativamente l’European Command, incaricato in questi ultimi anni della gestione della crisi Ucraina. Scaricato fra gli expendables (come anche il comando africano e quello mediorientale), proprio mentre Trump e lo stesso Hegseth chiedono agli alleati della Nato di portare la spesa per la difesa comune al 5% – trattabile, in pieno stile Trump – del Pil.
Il Cremlino è soddisfatto: ieri il portavoce Dmitri Peskov ha espresso l’assoluta «concordanza» di Mosca «con l’amministrazione americana» in merito alla «necessità di raggiungere la pace il prima possibile e di farlo attraverso i negoziati».
PROPRIO DURANTE l’espressione di questa corrispondenza di amorosi sensi, fonti dell’intelligence Usa e Ue hanno detto alla Cnn di non ritenere che Putin intenda davvero porre fine alle ostilità: il suo vero obiettivo sarebbe un’Ucraina interamente annessa a Mosca o che in alternativa torni sotto la sfera d’influenza della Russia. Il riferimento alle elezioni fatto il giorno prima da Trump pesa, in quest’ultimo scenario, come un macigno.
Il destinatario di quelle osservazioni, Volodymyr Zelensky, dopo il suo incontro con Kellogg rinuncia ad alzare la testa: il loro, dice in una dichiarazione che suona come una resa, è stato un «dialogo produttivo». «L’Ucraina è pronta a un investimento forte e effettivo e a un accordo di sicurezza con il presidente degli Stati uniti».
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