Nel 2005, in un celebre episodio dei Simpson, Marge decide di scrivere una lettera a Frank Gehry in persona per chiedergli di progettare il nuovo auditorium di Springfield.
Al pari di Lady Gaga o Richard Gere, la versione Simpson dell’architetto canadese, certificava, più di qualsiasi altro riconoscimento, la sua ascesa al rango di star planetaria.
Gehry però non fu l’unico. All’inizio di questo millennio, infatti, nomi come il suo o quelli di Norman Foster, Renzo Piano, Rem Koolhaas e Santiago Calatrava comparivano ogni giorno su giornali, negli spot tv e pure sui cartelloni pubblicitari. Fu proprio per descriverne l’ascesa che venne coniato il neologismo archistar. Con questa parola si indicava una nuova idea di professionista “la cui attività non è incentrata solo sulla progettazione di edifici, ma anche sulla divulgazione della propria immagine. Figura chiave dello star system architettonico”, così lo definiscono Gabriella Lo Ricco e Silvia Micheli nel saggio che ebbe il merito di inventare proprio questo termine oggi abusatissimo.
Era iniziato tutto nei primi anni ’90. In principio furono le Olimpiadi del 1992 a Barcellona, allora piuttosto mal ridotta e non esattamente alla moda. Un manipolo di architetti internazionali progettò per l’occasione nuovi, modernissimi, edifici con l’esplicito obiettivo di renderla un luogo cool. Meier, Foster, Calatrava e Gehry (sì proprio lui) realizzarono architetture scintillanti e Barcellona iniziò così un cambiamento che la rese una delle città più glamour d’Europa. Appena qualche anno e fu la volta di Bilbao, letteralmente messa sulla mappa globale dalla costruzione del Guggenheim, mitologico museo-scultura rivestito di titanio che rese il suo autore, Frank Gehry (sempre lui), il prototipo dell’archistar e al contempo rilanciò l’economia della cittadina basca. Il successo fu strabiliante, come ha evidenziato Rowan Moore “misurato in parametri come il numero di visitatori, espansione economica, riconoscibilità globale e copertura mediatica, ha prodotto ciò di cui oggi sono capaci i social media ma molto prima di Instagram”. Proprio questo fenomeno verrò descritto da allora con il termine Bilbao Effect.
E infatti, dopo il Guggenheim, Gehry e soci divennero il sogno di ogni capitale. Un museo d’arte, un auditorium, un ponte: ogni città voleva la propria icona contemporanea per essere al passo con i tempi. Come scrisse Francesco Dal Co queste architetture “si avvalgono di forme gratuite, instabili e continuamente rivoluzionarie che mirano a stupire e a prolungare lo shock attraverso l’esibizione di inattesi accoppiamenti. In questo modo l’architettura tende a mutare la propria natura sottraendosi all’uso e offrendosi come spettacolo”.
Mirabolanti sculture e landmark iconici sempre più simili a vere e proprie griffe in grado di essere identificabili con le archistar che le realizzavano; è così che si moltiplicano ponti di Calatrava in giro per il mondo e i musei firmati da Zaha Hadid o Daniel Libeskind. Alcuni di essi diventeranno location per film e pubblicità come nel caso proprio del Guggenheim sulla cui facciata vedremo sfrecciare un’Audi o Megan Gale sui pattini per Omnitel mentre le strutture di Calatrava faranno da sfondo a marchi come Mercedes o Seiko. Lo scopo dell’architettura, in un’epoca dominata dai mass media, non è più essere funzionale ma seducente: deve catturare l’attenzione dei visitatori ma soprattutto degli spettatori che finiscono per essere poi la stessa persona.
Ovviamente oltre agli edifici anche gli architetti stessi divennero celebrità globali; è così che sir Norman Foster è scelto come testimonial da Rolex, mentre il romano Massimiliano Fuksas sarà protagonista di un memorabile spot tv per Renault in cui l’architetto, al volante della sua Scenic, rimane affascinato alla vista delle nuvole in cielo tratteggiandone i contorni direttamente sul cruscotto e immaginando così il nuovo centro congressi di Roma, appunto la Nuvola. L’archistar diventa una vera e propria personificazione del successo; uno status symbol che Giorgio Muratore riassume descrivendole quasi come semi divinità che «volteggiano fra aeroporti, molti dei quali hanno progettato, saltano da Occidente a Oriente, dal Pacifico all’Atlantico. Ovunque la loro firma flessuosa e svolazzante». Così riconoscibili persino per coloro che di architettura non si occupano che ben presto diventeranno protagoniste anche della satira. Non bastano cinema e pubblicità e nemmeno più solo i Simpson, anche comici come Maurizio Crozza vestono ora i panni – preferibilmente total black – di “architetti-designer-art director-life stylist” ironizzando su un ego smisurato e progetti sempre più ambiziosi.
Un’epoca d’oro iniziata a metà degli anni ’90 che tuttavia si arresta improvvisamente dopo poco più di un decennio quando, nel 2008, il collasso dell’economia globale metterà fine, tra le tante cose, anche al proliferare di architetture scintillanti e iconiche. Con queste pure gli architetti, sebbene ancora star globali, decideranno di adottare uno storytelling completamente diverso in cui alla straordinarietà sostituiranno concetti come sostenibilità o partecipazione. Ma questa è un’altra storia.
Andrea Bentivegna si laurea all’università La Sapienza di Roma con una tesi sull’architettura di Bogotà nel ‘900 e ha quindi conseguito un dottorato di ricerca in storia dell’architettura al Politecnico di Torino. È membro del comitato scientifico del Centro Studi Giorgio Muratore e attualmente collabora anche con Il Foglio. Ha curato le mostre “Portinerie Romane” e “Milano 2: La Profezia del Berlusconismo” oltre ad aver fondato la pagina Il Contrafforte attraverso cui ha redatto un inedito atlante dell’architettura di Roma negli ultimi 150 anni e per il quale ha ricevuto il premio “Premio Bruno Zevi IN/ARCHITETTURA” della regione Lazio.
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