di Sara Cecchetti da Kinshasa
“Quante vite sprecate in questi tre decenni!”: diretto e tragicamente incisivo è G. A., imprenditore congolese che accetta di lasciarsi intervistare. Ci dà appuntamento a Place Royal; siamo al centro di Kinshasa, nella parte più benestante dove la città mostra tutte le sue contraddizioni. Mentre attendiamo di fare l’intervista lo sguardo cade su un gruppo di bambini di strada. Portano su di sé i segni della violenza. Uno di loro ci mostra la cicatrice di un’ustione lunga tutto il braccio; avrà circa dieci anni e la ferita fa intuire che quella violenza risalga a molto tempo prima. Col sennò di poi “vite sprecate” sono anche un po’ le loro, entusiasti per 500 franchi congolesi. Non sono neanche un dollaro, quello equivale a 1600 franchi. G. A., però, si riferiva ad un contesto diverso: l’Est della Repubblica Democratica del Congo, dilaniato da più di trent’anni di tensioni.
Con lui cerchiamo di fare un bilancio di colpe e responsabilità: “Il nostro governo ha fatto degli errori, ma io sono un patriota e non posso che stare da questa parte”. A differenza di altri più che la paura in lui alberga il risentimento, con la convinzione che le azioni ruandesi non rimarranno impunite: “Nemmeno in Ruanda ci sarà pace. Finché non ci sarà pace nell’Est faremo in modo che non ci sia più pace neanche tra i nostri nemici”. Ma Kinshasa può realmente minare la stabilità del Paese confinante? Probabilmente no. Sul campo lo squilibrio è evidente: l’esercito congolese ha armi meno sofisticate e moderne, di fronte alla forza economica e militare del Ruanda- sostenuto dai Paesi dell’Unione Europea- il governo Tshisekedi ha poche possibilità. Non è un caso che dalla comunità internazionale si pretenda un intervento deciso: non solo l’impegno per arrestare il conflitto in corso, ma anche per smantellare quel circuito illegale in cui il Ruanda- una volta aver derubato il Congo delle sue ricchezze minerarie- le rivende ai partner europei, colpevoli di continuare ad interfacciarsi con un Paese che commercia risorse che non gli appartengono.
In quest’ottica, nel bilancio delle responsabilità, il ruolo giocato dall’Europa nel perpetuare lo sfruttamento e la povertà congolese, viene visto come superiore anche rispetto alle ingerenze cinesi. “Almeno con loro abbiamo stretto degli accordi: infrastrutture in cambio di risorse” -dice l’imprenditore- riferendosi ai legami economici stretti principalmente sotto Kabila ma che, nonostante un apparente cambio di rotta, sono rimasti in essere anche con Tshisekedi. Quella di G. A. non è l’unica voce che abbiamo sentito che nutre meno astio nei confronti di Pechino rispetto a quello provato per noi europei. Del resto a concedere alle società cinesi il controllo di gran parte delle miniere di cobalto e di rame è stato lo stesso governo congolese.
Che questo sia stato realmente vantaggioso per la popolazione risulta comunque dubbio. I risultati in termini di nuove infrastrutture per il Paese sono praticamente nulli. Di fronte ad una densità della popolazione in continuo aumento, Kinshasa rimane sempre sprovvista di servizi: nel quartiere di Masina III, uno dei più distanti dal centro, non c’è luce da settembre. Mentre di sera percorriamo le sue vie, a squarciare il buio c’è solo la luce fioca di decine di candele. Suggestivo, se solo fosse l’atmosfera di una sera e non la condizione in cui le persone sono costrette a vivere da mesi. A ciò si aggiunge un sistema di raccolta rifiuti inesistente: le pile di metri di spazzatura vengono bruciate per le strade. Il problema maggiore rimane tuttavia quello della mancanza di un adeguato sistema fognario: la pioggia investe strade non asfaltate con colonne di mezzo metro d’acqua e molte vie diventano impercorribili.
Si vedono bambini che ci giocano per divertirsi e adulti che approfittano di quell’acqua mista a fango per lavarci i vestiti. Dunque dove finisce il denaro che dovrebbe rendere Kinshasa, capitale di uno dei Paesi più estesi al mondo, degnamente abilitabile? In costruzioni come il nuovo stadio, per altro realizzato accanto a quello già esistente, e circondato da baracche di chi lì dentro non avrà mai occasione di entrare. Dalla vista della povertà dilagante c’è chi ha trovato il modo di tenersi lontano; sta infatti prendendo sempre più campo una nuova forma di apartheid: all’interno della capitale vengono costruite micro-città, circondate da mura difensive e dotate di molteplici servizi, dove alcuni prendono la residenza e altri non possono neppure varcare la soglia.
In copertina una veduta del centro della capitale congolese
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