Il nuovo colpo alla mafia rurale è stato sferrato a Camporeale, nel Palermitano, dove i carabinieri del Nucleo Investigativo di Monreale, coordinati dalla DDA di Palermo, hanno eseguito sei arresti per associazione mafiosa rivela un sistema criminale radicato nel controllo di attività economiche, pascoli e istituzioni locali, gestito persino dal carcere da boss storici come Antonino Sciortino. Tra gli indagati anche il sindaco Luigi Cino, accusato di favorire il clan, mentre emerge il ruolo cruciale della cantina Rapitalà, definita “asservita” a Cosa Nostra. E spunta nell’operazioe anche il possibile acquisto di un appezzamento di terreno il cui acquirente sarebbe stato Matteo Messina Denaro.
La Cantina Rapitalà
La Cantina Rapitalà, nata nel 1968 come simbolo di innovazione enologica grazie alla famiglia franco-siciliana Guarrasi, è oggi al centro di uno dei capitoli più oscuri dell’infiltrazione mafiosa nel settore agroalimentare siciliano. Con un fatturato di 5 milioni di euro nel 2021 e una produzione di 2,6 milioni di bottiglie annue, l’azienda rappresentava un gioiello dell’imprenditoria isolana, esportato in oltre 40 Paesi. Tuttavia, le indagini rivelano come questa realtà sia stata progressivamente “asservita” al clan di Camporeale, trasformandosi in un vero e proprio bancomat per Cosa Nostra. Secondo i carabinieri, il legame tra la cantina e la mafia risale agli anni ’90, quando il boss Antonino Sciortino iniziò a imporre dipendenti fidati all’interno dell’organico. Tra questi spiccavano Alfio Tomarchio ed Epazio Arena, figure chiave nel garantire il flusso mensile di denaro e prodotti alla cosca. Tomarchio, deceduto nel 2023, organizzava incontri segreti con Antonino Scardino, reggente del mandamento, per consegnare contanti e casse di vino pregiato alla moglie di Sciortino, Anna Maria Colletti. Quest’ultima utilizzava le risorse non solo per le spese legali del marito detenuto, ma anche per mantenere il controllo su attività illecite, come l’usura e la gestione dei pascoli. L’infiltrazione non si limitava ai vertici. Nell’organigramma della Rapitalà figuravano decine di dipendenti stagionali legati alla “famiglia” di Camporeale da vincoli di parentela, creando una rete di controllo capillare. «La cantina era permeabile come una spugna», spiega un procuratore della DDA. «Ogni reparto, dalla vigna alla distribuzione, aveva uomini di fiducia del clan, pronti a segnalare movimenti sospetti o a deviare risorse». Un esempio emblematico è la tenuta di 200 ettari a Camporeale, dove il clan imponeva coltivazioni “dedicate” a Sciortino, utilizzando manodopera sottopagata e minacciando concorrenti con ritorsioni.
Tenuta Rapitalà: estranei a contesti mafiosi
«In relazione all’operazione giudiziaria che ha portato all’esecuzione di misure cautelari nel comprensorio di Camporeale, Tenuta Rapitalà afferma la propria estraneità a contesti mafiosi e dichiara di essere a disposizione degli investigatori ed inquirenti per ogni accertamento opportuno e necessario». E’ quanto si legge in una nota dell’azienda vinicola firmata dal Presidente e Amministratore Delegato di Tenute Rapitalà Spa Laurent Bernard de la Gatinais. Uno dei capitoli dell’indagine della Dda di Palermo che ieri ha portato all’arresto di sei persone riguarda presunti rapporti tra l’azienda e alcuni esponenti mafiosi.
Il sistema parastatale
A Camporeale, la mafia non si limita a estorcere o intimidire: si trasforma in un governo ombra, capace di regolare ogni aspetto della vita economica e sociale. Le indagini descrivono un clan che fungeva da arbitro per controversie tra privati, autorizzava acquisti di terreni e riscuoteva crediti con metodi violenti. «Se un agricoltore voleva comprare un fondo, doveva chiedere il “permesso” ai Bologna», riferisce un collaboratore di giustizia. «In caso di rifiuto, si rischiava il rogo dei campi o il furto del bestiame». Il controllo sui pascoli era particolarmente ferreo. I fratelli Pietro e Giuseppe Bologna, arrestati nell’operazione, gestivano un sistema di appalti forzosi per la mietitura e la vendita di foraggio, imponendo prezzi maggiorati del 30% rispetto al mercato. Chi osava acquistare da fornitori esterni subiva pestaggi o sabotaggi, come il caso di un allevatore picchiato a sangue per aver comprato fieno da un’azienda di Agrigento. Il bestiame, poi, veniva destinato a macelli controllati dal clan, dove i tagli pregiati erano rivenduti a ristoranti e supermercati con il marchio “garantito da Cosa Nostra”. Ma il potere del clan andava oltre l’economia. Antonino Scardino, reggente del mandamento, aveva istituito una tassa sul silenzio per chi denunciava reati ambientali, come lo smaltimento illegale di rifiuti tossici nei terreni agricoli. «Era una giustizia parallela», racconta un testimone protetto. «Se avevi un problema, andavi da loro, non in questura».
Il Sindaco Cino e la politica asservita
L’inchiesta svela un intreccio pericoloso tra mafia e istituzioni, culminato nel coinvolgimento del sindaco di Camporeale, Luigi Cino. Secondo gli investigatori, Cino avrebbe garantito protezione al clan in cambio di sostegno elettorale durante le comunali del 2022 e le regionali del 2023. Le prove includono intercettazioni in cui Raimondo Santinelli, ora arrestato, prometteva al primo cittadino «un pacchetto di voti» in cambio della revoca di multe ai fratelli Bologna. Uno degli episodi più gravi riguarda la falsificazione dei registri della “messa alla prova” per due pregiudicati condannati per furto. I due, invece di svolgere lavori sociali al cimitero comunale, erano assenti per mesi, ma un dipendente del Comune, su pressioni del sindaco, ne attestava falsamente la presenza. «Cino sapeva che quei registri erano manipolati», accusa un pm della DDA. «Serviva a mantenere il clan tranquillo, evitando che i Bologna finissero di nuovo in carcere». Nonostante il GIP Lirio Conti abbia escluso lo scambio elettorale per mancanza di prove dirette, emergono contatti sospetti tra Cino e Anna Maria Colletti, che avrebbe chiesto al sindaco di agevolare l’apertura di una partita IVA per un allevatore vicino al clan. Un sistema di favori reciproci che mostra come la politica locale sia ancora un terreno di conquista per Cosa Nostra.
Il terreno da due milioni di euro, l’acquirente “Matteo Messina Deanro” L’inchiesta di Camporeale ha svelato un’operazione immobiliare da due milioni di euro, legata all’acquisto di un terreno di 300 ettari. Secondo le intercettazioni, l’acquirente sarebbe stato Matteo Messina Denaro, come dichiarato da Melchiorre Saladino nel 2021 a Pietro Bologna, uno degli arrestati nel blitz coordinato dalla DDA di Palermo. Saladino avrebbe affermato: “Io ho l’acquirente direttamente Messina Denaro… lui mi deve dire solo il prezzo”, sottolineando che il pagamento sarebbe avvenuto in contanti e senza intermediari. L’affare avrebbe garantito ai boss locali la “sensaleria”, ovvero i diritti sulla mediazione. Saladino, noto alle forze dell’ordine e già assolto da accuse di corruzione aggravata, aveva subito il sequestro di beni, tra cui un’impresa di costruzioni. Inoltre, si sarebbe presentato a Giuseppe Bologna, fratello di Pietro, come “l’amico di Nino”, identificato dagli inquirenti nel boss Antonino Sciortino. Resta da chiarire se Messina Denaro fosse davvero dietro l’operazione o se il suo nome fosse stato usato per dare credibilità all’affare. In ogni caso, il suo presunto coinvolgimento conferma la vasta rete di interessi e legami della mafia anche fuori dai suoi territori tradizionali.
Mafia 4.0: tecnologia e comando a distanza
L’operazione di Camporeale evidenzia un salto evolutivo nella gestione del potere mafioso: i boss usano strumenti tecnologici per comandare dal carcere. Antonino Sciortino, detenuto dal 1999 nel carcere di Saluzzo (Piemonte), dirigeva il clan attraverso videochiamate criptate e messaggi inviati tramite parenti durante i colloqui. «Usava codici in dialetto per indicare somme di denaro o nomi di affiliati», spiega un investigatore. «Ad esempio, “u trigghiru” (il grano) significava 1.000 euro». La moglie Anna Maria Colletti fungeva da ponte logistico, ricevendo ordini e trasferendoli a Scardino e ai Bologna. In un’intercettazione, Colletti esorta Santinelli a «far rispettare le regole» a un commerciante riluttante a pagare il pizzo, minacciando: «Se non capisce a parole, fallo capire a botte». Questo sistema ha permesso al clan di mantenere il controllo nonostante i ripetuti arresti, sfruttando la complicità di professionisti come avvocati e commercialisti, incaricati di riciclare denaro attraverso conti offshore e falsi investimenti in agricoltura.
Impatto economico e sociale: il prezzo del controllo mafioso
Il dominio della mafia su Camporeale ha conseguenze devastanti per l’economia legale. Gli allevatori sono costretti a vendere il bestiame a prezzi stracciati al clan, che poi lo rivende a mercati e ristoranti con margini del 200%. «Un vitello che vale 800 euro ci viene pagato 300», denuncia un agricoltore sotto scorta. «Se protesti, ti bruciano il fienile». Il settore vitivinicolo, fiore all’occhiello del territorio, è in caduta libera. Dopo lo scandalo Rapitalà, le esportazioni della cantina sono crollate del 40%, con danni stimati in 2 milioni di euro. «La mafia non uccide solo le persone, uccide il futuro», commenta un enologo locale. «Nessun investitore vuole rischiare in una zona marchiata dal crimine». Anche il turismo rurale, potenziale volano per Camporeale, è soffocato dalla reputazione mafiosa. Agriturismi e cantine indipendenti subiscono atti intimidatori, come il ritrovamento di capi di bestiame decapitati all’ingresso delle strutture.
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