di Enzo Beretta
Patteggia la pena a due anni di reclusione la presidente di un’associazione animalista finita quattro anni fa agli arresti domiciliari per coltivazione di marijuana. Il 27 aprile 2021 la polizia sequestrò a Città di Castello «17 piante aventi uno sviluppo quanto mai avanzato nell’ambito di una serra munita di impianto di illuminazione ed areazione elettricamente alimentato». Dagli accertamenti tecnici è emerso che la sostanza sequestrata aveva «un peso netto di 1.222 grammi e 1.194 grammi di Thc puro dal quale era possibile ricavare 7.783 dosi medie da 25 milligrammi e 389 soglie massime da 500 milligrammi». All’imputata, che oggi ha definito la propria posizione processuale davanti al giudice per l’udienza preliminare Valerio D’Andria, veniva inoltre contestata la detenzione di marijuana «con la finalità di cessione a terzi». Quanta? «Dal totale era possibile ricavare 573 dosi medie singole da 25 milligrammi ciascuna e 28,7 soglie massime da 500 milligrammi ciascuna».
Perquisizione L’indagine è iniziata quando gli agenti del commissariato di Città di Castello hanno avuto notizia che «nella sede della associazione vi era una coltivazione di piante di marijuana»: quando la polizia è arrivata lì la presidente dell’associazione, oggi 59enne, «si mostrava titubante e chiedeva che venisse mostrato un mandato». Voleva anche sapere «chi fosse stato ad avere indirizzato la polizia presso di lei». Una volta dentro l’abitazione, gli investigatori hanno notato «un cavo di prolunga per l’energia elettrica che attraversava tutto l’immobile, finendo dietro una porta chiusa con un lucchetto» all’interno della quale sarebbe stata successivamente «rinvenuta una serra con l’impianto di illuminazione ed areazione, con 17 piante di marijuana in piena fiorescenza». Si legge ancora nelle carte: «All’interno di un sacco di plastica di immondizia di colore azzurro, venivano trovate foglie di marijuana del peso complessivo di circa 1,4 chili, mentre già nella prima stanza era stata notata una scatola di cartone con dei fiori di marijuana messi ad essiccare e una vaschetta di plastica contenente foglie di marijuana».
La versione della difesa Nell’immediatezza l’indagata (difesa dall’avvocato Salvatore Cavuoti) ha dichiarato di «non sapere nulla della presenza della serra e della marijuana, né di chi fossero coloro che avevano la disponibilità dei locali»: «Sono estranea ai fatti contestati – aveva detto – l’immobile è la sede dell’associazione di cui sono presidente e presso il quale sono ricoverati molti cani. Il luogo è frequentato da molti volontari che vengono ad aiutarmi ad occuparmi dei cani. Il luogo dove sono state rinvenute le piante era chiuso con un lucchetto di cui non posseggo la chiave. Non mi sono mai accorta di nulla, anche il cavo della corrente elettrica non l’ho messo io, non lo avevo nemmeno notato, probabilmente era lì da pochi giorni, gli ultimi giorni non sono stata molto presente. In questi mesi sono venute decine di persone, il posto è frequentato da volontari e da persone che vengono a prendere i cani. Non ho idea di chi abbia potuto coltivare le piante. La droga non è mia, io non fumo e non faccio uso di stupefacenti».
Parla il giudice Versione alla quale il giudice per le indagini preliminari Natalia Giubilei non aveva creduto: «Si ritiene allo stato che l’asserita totale estraneità ai fatti dichiarata dall’indagata non sia credibile, tenuto conto della circostanza che il cavo per l’energia elettrica che alimentava la serra partiva dai luoghi dalla stessa occupati e che pertanto, anche ammettendo che della coltivazione non si occupasse lei in prima persona, in ogni caso è da escludere una mancata conoscenza di quanto avvenisse in locali dei quali, in definitiva, aveva la disponibilità e la responsabilità. Si deve concludere come la predetta attività illecita sia stata posta in essere quantomeno con la sua condiscendenza».
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