Ieri, 18 febbraio, a Bruxelles, davanti al Parlamento europeo, Mario Draghi è tornato a lungo sul suo Rapporto nel contesto della profonda transformazione provocata da Donald Trump.
Di fronte ai profondi sconvolgimenti geopolitici degli ultimi giorni, l’ex banchiere centrale ha insistito su una dimensione strutturante: il tempo stringe. «Ogni giorno di ritardo fa sì che la frontiera tecnologica si allontani ulteriormente da noi», ha avvertito, sottolineando come l’Europa sia in ritardo in settori strategici come l’intelligenza artificiale, dove « dei dieci principali large language models (LLM) attualmente disponibili, otto sono stati sviluppati negli Stati Uniti, mentre gli altri due hanno avuto origine in Cina.». Questo ritardo minaccia non solo la nostra competitività, ma anche la nostra sovranità, in un mondo in cui le dipendenze tecnologiche si trasformano in leve di influenza politica ed economica decisive.
Di fronte a questo divario, Draghi difende la possibilità di una rifondazione del modello economico ed energetico europeo. La risposta deve articolarsi attorno a una necessità: affinché l’Europa diventi « un luogo attraente per l’innovazione, [è necessario ridurre] i prezzi dell’energia », dato che il costo dell’elettricità nel continente resta « due o tre volte più alto che negli Stati Uniti ».
Lo sviluppo delle infrastrutture digitali, il finanziamento delle tecnologie di rottura e l’integrazione dei mercati finanziari europei sono condizioni essenziali per fermare l’emorragia di talenti e capitali verso l’estero. L’ex presidente del Consiglio italiano propone una semplificazione normativa, evidenziando come le barriere interne nell’Unione equivalgano a dazi del 45% sull’industria manifatturiera e del 110% sui servizi. Nell’era della guerra commerciale trumpiana, «spesso siamo noi stessi il nostro peggior nemico in questo senso».
Ma Draghi non si è limitato alle sole considerazioni economiche. Si è detto convinto che queste riforme non possano realizzarsi senza un’azione collettiva forte. In uno dei passaggi più incisivi del suo discorso, ha sottolineato la necessità di una trasformazione radicale del processo decisionale e della governance. L’Europa deve operare con un livello di coordinamento senza precedenti: «per far fronte a queste sfide, è ogni giorno più chiaro che dobbiamo agire sempre più come se fossimo un unico stato.»
Questo obiettivo implica una decisione storica: l’Europa deve superare i suoi blocchi istituzionali e abbandonare l’immobilismo. Draghi è molto chiaro: « Non si può dire no a tutto: se rifiutiamo il debito comune, il mercato unico, l’unione dei mercati dei capitali, dobbiamo ammettere che non siamo in grado di difendere i valori fondamentali dell’Unione europea. »
In una fase preoccupante, in cui una certa passività sembra aver contagiato parte delle élite politiche del continente, questo appello all’azione si fonda su un’osservazione essenziale: «la forza delle democrazie europee» nel suo legame con l’innovazione.
Ma Draghi non si limita a dipingere un quadro allarmante, il punto di partenza è chiaro: «dobbiamo essere ottimisti.»
«Se agiamo con decisione e rendiamo l’Europa un luogo attraente per l’innovazione, abbiamo l’opportunità di invertire la fuga di cervelli che ha spinto al di là dell’Atlantico i nostri migliori scienziati. Il rapporto individua diversi modi per espandere la nostra capacità di ricerca e, se lo faremo, la nostra tradizione di libertà accademica e assenza di orientamento culturale nei finanziamenti governativi potranno diventare il nostro vantaggio comparativo».
È un piacere tornare qui al Parlamento europeo per discutere il seguito del rapporto sulla competitività dell’Europa.
Il contributo dei rappresentanti eletti è stato cruciale nel processo di preparazione del rapporto, e molti membri del Parlamento europeo e dei parlamenti nazionali mi hanno contattato dopo la sua pubblicazione.
Le vostre reazioni sono state preziose per contribuire ad affinare le proposte e per dare impulso al cambiamento.
Il vostro impegno sottolinea la forza delle democrazie europee, così come la necessità che tutti gli attori lavorino insieme per trasformare l’Europa.
I cambiamenti cui abbiamo assistito dalla pubblicazione del rapporto a oggi sono ampiamente in linea con le tendenze in esso delineate. Ma il senso dell’urgenza di intraprendere il cambiamento radicale auspicato dal rapporto si è fatto ancora più forte.
In primo luogo, il ritmo dei progressi nell’intelligenza artificiale ha accelerato rapidamente.
Abbiamo visto modelli all’avanguardia raggiungere quasi il 90 per cento di accuratezza nei test di riferimento per il ragionamento scientifico, superando i punteggi degli esperti umani. E abbiamo visto i modelli diventare molto più efficienti: i costi di addestramento sono diminuiti di un fattore dieci e quelli di inferenza di un fattore superiore a venti.
Per il momento, la maggior parte dei progressi sta avendo luogo fuori dall’Europa. Dei dieci principali large language models attualmente disponibili, otto sono stati sviluppati negli Stati Uniti, mentre gli altri due hanno avuto origine in Cina.
Ogni giorno di ritardo fa sì che la frontiera tecnologica si allontani ulteriormente da noi. La diminuzione dei costi, tuttavia, è anche un’opportunità per recuperare terreno più velocemente.
In secondo luogo, i prezzi del gas naturale rimangono altamente volatili, con un aumento di circa il 40% da settembre, e i margini sulle importazioni di gas naturale liquefatto dagli Stati Uniti sono aumentati in misura significativa rispetto allo scorso anno.
Anche i prezzi dell’energia elettrica sono generalmente aumentati in tutti i paesi, e continuano a essere due o tre volte superiori rispetto a quelli degli Stati Uniti. E abbiamo visto il tipo di tensioni interne cui potremmo andare incontro se non agissimo con urgenza per affrontare le sfide create dalla transizione energetica.
Durante la grave Dunkelflaute del dicembre dello scorso anno, per esempio – quando l’energia solare ed eolica è scesa quasi a zero – i prezzi dell’energia in Germania sono cresciuti di oltre dieci volte rispetto alla media annuale. Questo, a sua volta, ha causato forti aumenti di prezzo in Scandinavia, con paesi costretti a esportare energia per colmare il divario, il che a sua volta ha indotto alcuni di essi a prendere in considerazione la possibilità di rinviare i progetti di interconnessione.
Parallelamente, le minacce crescenti alle infrastrutture critiche sottomarine sottolineano come sia imperativo, dal punto di vista della sicurezza, sviluppare e proteggere le nostre reti.
In terzo luogo, quando è stato redatto il rapporto, il principale tema geopolitico era l’ascesa della Cina. Ora, invece, l’Ue si trova a dover affrontare, nei prossimi mesi, i dazi imposti dalla nuova amministrazione USA, che ostacoleranno l’accesso al nostro principale mercato di esportazione.
L’aumento dei dazi statunitensi verso la Cina, inoltre, reindirizzerà verso l’Europa l’eccesso di capacità produttiva cinese, colpendo ulteriormente le imprese europee. Ed effettivamente le grandi aziende dell’Ue sono più preoccupate di questo effetto che della perdita di accesso al mercato USA.
Potremmo anche trovarci di fronte a politiche congegnate in modo da attrarre le aziende europee e spingerle a produrre di più negli Stati Uniti, attraverso tasse più basse, energia più economica e deregolamentazione. Ampliare la capacità industriale negli Stati Uniti è una parte fondamentale del piano del governo per far sì che i dazi non generino effetti inflazionistici.
E se davvero le dichiarazioni recenti ci dicono qualcosa del nostro futuro, possiamo aspettarci di essere lasciati sostanzialmente soli a garantire la sicurezza in Ucraina e nella stessa Europa.
Per far fronte a queste sfide, è ogni giorno più chiaro che dobbiamo agire sempre più come se fossimo un unico stato. La complessità di una risposta di policy che coinvolge la ricerca, l’industria, il commercio e la finanza richiederà un livello di coordinamento senza precedenti fra tutti gli attori: i governi e i parlamenti nazionali, la Commissione, il Parlamento europeo.
La risposta dev’essere rapida perché il tempo non è dalla nostra parte, con l’economia europea che ristagna mentre gran parte del mondo cresce. La risposta dev’essere commisurata all’entità delle sfide. E dev’essere focalizzata in maniera chirurgica sui settori che potranno in futuro trainare ulteriormente la crescita.
Velocità, scala e intensità saranno essenziali.
Dobbiamo creare le condizioni affinché le aziende innovative possano crescere in Europa, anziché rimanere piccole o trasferirsi negli Stati Uniti. Ciò significa abbattere le barriere interne, standardizzare, armonizzare e semplificare le normative nazionali e spingere per un mercato dei capitali più basato sull’equity.
Spesso siamo noi stessi il nostro peggior nemico in questo senso.
Abbiamo un mercato interno di dimensioni analoghe a quello degli Stati Uniti. Abbiamo il potenziale per agire su vasta scala. Ma il Fondo monetario internazionale stima che le nostre barriere interne equivalgano a un dazio di circa il 45% per il settore manifatturiero e del 110% per i servizi.
E abbiamo scelto un approccio normativo che ha privilegiato la cautela rispetto all’innovazione, specialmente nel settore digitale. Ad esempio, si stima che il GDPR abbia accresciuto del 20% il costo dei dati per le aziende dell’Ue.
In Europa abbiamo anche molti risparmi che potremmo utilizzare per finanziare l’innovazione. Ma i nostri paesi, con poche significative eccezioni, si affidano per lo più ai prestiti bancari, che generalmente non sono adatti a questo scopo. Questo ci porta ogni anno a investire oltre 300 miliardi di euro di risparmi all’estero, perché qui le opportunità di investimento mancano.
Dobbiamo aiutare le nostre aziende leader a recuperare il ritardo accumulato nella corsa all’IA, convogliando maggiori investimenti verso le infrastrutture informatiche e le reti digitali. L’Iniziativa sugli “EU AI Champions”, recentemente annunciata, è un buon esempio di come il settore pubblico e quello privato possano lavorare insieme per contribuire a colmare più rapidamente il divario di innovazione.
Se agiamo con decisione e rendiamo l’Europa un luogo attraente per l’innovazione, abbiamo l’opportunità di invertire la fuga di cervelli che ha spinto al di là dell’Atlantico i nostri migliori scienziati. Il rapporto individua diversi modi per espandere la nostra capacità di ricerca e, se lo faremo, la nostra tradizione di libertà accademica e assenza di orientamento culturale nei finanziamenti governativi potranno diventare il nostro vantaggio comparativo.
Dopodiché, dobbiamo ridurre i prezzi dell’energia.
Questo è diventato un imperativo non solo per le industrie tradizionali, ma anche per le tecnologie avanzate. Si stima che il consumo energetico dei data center in Europa sarà più che triplicato entro la fine di questo decennio.
Ma allo stesso tempo è sempre più chiaro che la decarbonizzazione stessa può essere sostenibile solo se se ne anticipano i benefici.
Il rapporto individua una lunga serie di motivazioni per gli alti prezzi dell’energia in Europa, anche al di là del fatto che l’Ue non sia un grande produttore di gas naturale: il limitato coordinamento nell’approvvigionamento di gas naturale, il funzionamento del mercato dell’energia, i ritardi nell’installazione di capacità rinnovabile, le reti poco sviluppate, l’elevata tassazione e i margini finanziari.
Questi e altri fattori dipendono interamente da noi e quindi possono essere cambiati se abbiamo la volontà di farlo.
Il rapporto propone diverse misure al riguardo: la riforma del mercato dell’energia, una maggiore trasparenza nel commercio dell’energia, un ricorso più diffuso ai contratti a lungo termine per la fornitura di energia e agli acquisti a lungo termine di gas naturale, nonché investimenti massicci nelle reti e nelle interconnessioni.
Auspica, inoltre, non solo una maggiore velocità nell’installazione di rinnovabili, ma anche investimenti nella generazione di _baseload_ pulito e in soluzioni di flessibilità cui poter attingere quando le fonti rinnovabili non generano energia.
Allo stesso tempo, dobbiamo garantire condizioni di parità per il nostro settore delle tecnologie pulite innovative, in modo che possa beneficiare delle opportunità della transizione. La decarbonizzazione non può voler dire che si perdano posti di lavoro nel settore green perché le imprese dei paesi con maggiori sovvenzioni statali possono conquistare quote di mercato.
Il rapporto, infine, affronta varie vulnerabilità dell’economia europea, una delle quali è il nostro sistema di difesa, dove la frammentazione della capacità industriale lungo linee nazionali impedisce di raggiungere la scala necessaria.
Anche se collettivamente siamo il terzo maggiore investitore in difesa al mondo, la nostra capacità produttiva non ci consentirebbe di soddisfare un’impennata della spesa per la difesa. I nostri sistemi di difesa nazionali non sono né interoperabili né standardizzati in alcune parti chiave della catena di approvvigionamento.
Questo è uno dei tanti esempi in cui l’UE è meno della somma delle sue parti.
Oltre ad agire per modernizzare l’economia europea, dobbiamo gestire la transizione per le nostre industrie tradizionali.
Queste industrie rimangono importanti per l’Europa. Dal 2012, i dieci settori che hanno registrato la crescita di produttività più rapida sono quasi esclusivamente i cosiddetti settori mid-tech, come l’industria automobilistica e la meccanica.
Il settore manifatturiero impiega inoltre circa 30 milioni di persone, contro i 13 milioni degli Stati Uniti. E in questo mondo in cui le relazioni geopolitiche si evolvono e il protezionismo è in ascesa, è diventato strategico mantenere industrie come quella siderurgica e quella chimica, che forniscono input all’intera economia e sono fondamentali per la difesa.
Il sostegno all’industria tradizionale viene spesso rappresentato come una scelta binaria. O scegliamo di lasciare che scompaiano e permettiamo alle risorse di spostarsi verso nuovi settori; oppure sacrifichiamo lo sviluppo di nuove tecnologie e, in ultima analisi, ci rassegniamo a una crescita permanentemente bassa.
Ma la scelta non dev’essere necessariamente così netta. Se realizziamo le riforme necessarie per rendere l’Europa più innovativa, molti dei compromessi tra questi obiettivi si attenueranno.
Ad esempio, se sfruttiamo le economie di scala del nostro mercato UE e integriamo il nostro mercato dell’energia, i costi di produzione si abbasseranno ovunque. Saremo quindi in una posizione migliore per gestire gli eventuali effetti collaterali, ad esempio, della fornitura di energia a basso costo alle industrie ad alta intensità energetica.
Se offriamo in Europa un tasso di rendimento più competitivo e mercati dei capitali più efficienti, i nostri risparmi resteranno naturalmente qui da noi. Avremo così un bacino di capitali privati più ampio per finanziare sia le nuove tecnologie sia le industrie consolidate che mantengono un vantaggio competitivo.
E se eliminiamo le nostre barriere interne e innalziamo la crescita della produttività, questo ci aiuterà ad ampliare il nostro effettivo spazio fiscale. Così facendo avremo una maggiore capacità di finanziare progetti con finalità di interesse pubblico ma che il settore privato difficilmente toccherebbe, come la decarbonizzazione dell’industria pesante.
Per fare un esempio, il rapporto stimava che un aumento della produttività totale dei fattori di appena il 2% nei prossimi dieci anni ridurrebbe di un terzo per i governi i costi fiscali connessi al finanziamento degli investimenti necessari.
Allo stesso tempo, l’eliminazione delle barriere interne aumenterà i moltiplicatori fiscali di questi investimenti.
Vi sono solide evidenze del fatto che i moltiplicatori fiscali si riducono con l’apertura commerciale, perché parte dell’impulso fiscale sarà soddisfatta da un aumento delle importazioni. E l’economia europea è molto aperta al commercio – più del doppio rispetto al livello degli Stati Uniti – il che è un sintomo delle nostre elevate tariffe interne.
Considerato che l’espansione nel nostro mercato interno è di fatto limitata, le imprese dell’Ue hanno cercato opportunità di crescita all’estero, mentre le importazioni sono diventate relativamente più attraenti con la riduzione delle tariffe esterne.
Ma se abbassassimo queste barriere interne, assisteremmo a un forte riorientamento della domanda verso il nostro mercato. A quel punto l’apertura commerciale diminuirebbe naturalmente e la politica fiscale diventerebbe proporzionalmente più potente.
La Commissione ha recentemente lanciato la sua “bussola della competitività”, che abbraccia questa agenda. Gli obiettivi della Bussola sono pienamente in linea con le raccomandazioni del rapporto e segnalano un necessario riorientamento delle principali politiche europee.
Ora è importante che la Commissione riceva tutto il sostegno necessario sia nel l’attuazione del programma che nel suo finanziamento. Il fabbisogno finanziario è enorme: una stima prudente si aggira tra i 750 e gli 800 miliardi di euro all’anno.
Per accrescere la capacità di finanziamento, la Commissione propone un’apprezzabile razionalizzazione degli strumenti di finanziamento dell’Ue. Ma non sono in programma nuovi fondi europei. Il metodo proposto è quello di combinare gli strumenti europei con un uso più flessibile degli aiuti di stato coordinati da un nuovo strumento europeo.
Se da un lato ci auguriamo che questa struttura riesca a fornire il necessario sostegno finanziario, dall’altro il successo dipenderà dal fatto che gli stati membri utilizzino lo spazio fiscale a loro disposizione e siano disposti ad agire nell’ambito di un quadro europeo.
La Commissione è solo uno degli attori. Può fare molto nelle sue aree di competenza esclusiva, come il commercio e le politiche di concorrenza. Ma non può agire da sola. Il Parlamento europeo, i parlamenti nazionali e i governi nazionali devono essere al suo fianco.
Il Parlamento ha un ruolo fondamentale nel rendere più rapide le decisioni dell’Ue. Se seguiamo le nostre procedure legislative consuete – che spesso richiedono fino a venti mesi – le nostre risposte di policy potrebbero risultare già obsolete non appena verranno prodotte.
Contiamo anche sul fatto che il Parlamento agisca da protagonista: per costruire unità politica, per dare impulso al cambiamento, per chiedere conto ai _policymaker_ delle loro esitazioni e per dare attuazione a un programma d’azione ambizioso.
Possiamo rinvigorire lo spirito innovativo del nostro continente. Possiamo riacquistare la nostra capacità di difendere i nostri interessi. E possiamo dare speranza ai nostri cittadini.
I governi e i parlamenti nazionali del nostro continente, la Commissione e il Parlamento europeo sono chiamati a essere i custodi di questa speranza in un momento di svolta nella storia dell’Europa.
Se saremo uniti, saremo all’altezza della sfida e la vinceremo.
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