Secondo una recente rilevazione i tribunali migliorano l’efficienza nella gestione delle procedure di fallimento e di liquidazione giudiziale.
Buona notizia: iniziano a smaltire il lavoro arretrato. D’altronde il numero delle liquidazioni giudiziali, il «vecchio fallimento», aumenta del 15% nel 2024. Così complessivamente il «cleareance rate», il rapporto fra procedure chiuse e aperte, migliora ma si teme destinato a peggiorare per i nuovi ingressi.
Le cause esterne alle imprese sono note: riduzione del credito bancario alle piccole e micro, contrazione della domanda interna, crisi settoriali, crisi geopolitiche.
Altrettanto note le cause interne alle imprese: mancanza di controlli adeguati della gestione, soprattutto finanziaria, che portano sull’orlo del baratro le imprese meno attrezzate; le più piccole e le più numerose. Eppure il legislatore sembrava aver predisposto solidi argini per evitare tutto ciò con ripetuti interventi sul Nuovo Codice della Crisi. Nel giro di un ventennio si è progressivamente passati dalla tutela dei creditori a quella dell’azienda e dei dipendenti in nome dell’indubbio valore sociale riconosciuto alle attività produttive, comprimendo i diritti dei creditori in nome di una ristrutturazione preventiva auspicata dalla Unione Europea con la Direttiva Insolvency.
E tutto ciò senza l’imprenditore fosse necessariamente «onesto ma sfortunato», come richiesto dal Vecchio Codice del 1942, purché non fraudolento. Ma il limite fra sfortuna e frode appare spesso labile nella realtà . Così per farla franca è sufficiente una proposta ai creditori migliore rispetto all’alternativa liquidatoria. Gli strumenti per il cosiddetto «fresh start»: composizione negoziata, piano attestato, accordi di ristrutturazione, convenzioni di moratoria, piani di ristrutturazione soggetti ad omologa, concordati preventivi e semplificati.
Tutto giusto, eticamente corretto e addirittura auspicabile. Purtroppo non pochi imprenditori, «poco onesti ed evidentemente molto sfortunati», ma abili, si insinuano nelle falle del sistema. Tante imprese senza controllo, altro che adeguati assetti, arrivano ad un passo dallo schiantarsi contro il muro prima di usare gli strumenti di gestione della crisi, scelti spesso anche in modo improprio.
Cercano di salvare non tanto l’azienda, quanto la propria impresa, ponendo l’intero ceto creditorio davanti ad un esplicito ricatto camuffato da proposta: meglio pochi e subito, piuttosto che niente e alla fine del «fallimento». Purtroppo fin dall’inizio l’attività è gestita in modo «adeguato» al triste epilogo, beffando anche il sistema bancario sempre più attento all’analisi andamentale e meno a quella fondamentale, e proponendo mirabolanti piani di risanamento fattibili, almeno sulla carta. E ai creditori – imprese, banche, erario, enti previdenziali – non resta che decidere se «bere o affogare»; solo i diritti di credito dei dipendenti trovano tutela, prima o poi.
Ma qualcuno a Ferrara sembra essersi un po’ stancato di questo cattivo uso, chiamiamolo pure abuso, delle buone intenzioni del legislatore. Lì il Tribunale a fine 2024 non ha omologato un concordato minore con cui una piccola impresa aveva cercato di evitare la liquidazione giudiziale proponendo un’improbabile continuità aziendale. La «proposta indecente», non più di tante altre, offriva ai creditori, quasi tutti tributari e previdenziali, il pagamento di circa il 13%. Il «fresh start» veniva immaginato con il sacrificio quasi totale dei crediti erariali appartenenti alla collettività , a tutti noi; in barba alle imprese corrette che ogni giorno cercano, fra non poche difficoltà , di rispettare gli impegni presi per continuare ad aprire bottega e dare lavoro.
Un’impresa che non ha mai marginato e che si è finanziata accumulando da subito ingenti debiti fiscali, senza una vera ristrutturazione e in assenza di vendita di beni, non può fornire una seria affidabilità al piano di risanamento proposto; ha pensato il giudice. Peraltro con moglie, disoccupata, stranamente puntuale nel pagamento in contanti della rata del mutuo ipotecario con cui ha comprato l’abitazione. Una vera magia! Senza ristrutturazione dell’attività e vendite di beni, il giudice ha ritenuto inammissibile il ricorso perché il deficit finanziario si sarebbe certamente perpetuato, anche dopo il sacrificio dei creditori. E poi, punto e a capo.
Quante sono le imprese come quella oggetto del rigetto? Quanti sono gli imprenditori che ormai scientemente organizzano le proprie imprese sulle spalle dei creditori con l’alibi che il sistema bancario non fornisce adeguato sostegno? Quante sono le «strane start up» di figli appena maggiorenni con fatturati di tutto rispetto dal primo istante? E quante le imprese costrette a subire la concorrenza sleale di queste «imprese zombie» che rovinano interi settori con una guerra suicida di prezzi al ribasso? Quanti i dipendenti vittime di «capitani troppo coraggiosi» che pagano, loro si, con la perdita del lavoro? Il sistema pare non più sostenibile, nemmeno in punto di etica. È arrivato il momento di non cedere più ai ricatti, di far assumere le proprie responsabilità a chi fa impresa.
Ridateci l’imprenditore «più onesto e più organizzato» con gli adeguati assetti di controllo; servono a difendere il bene sociale azienda di tutti noi.
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