Abruzzo, colonia mafiosa: trent’anni di infiltrazioni. E ora è caccia agli appalti

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PESCARA. Prima era Cosa nostra, relegata a una Sicilia assetata; ora si chiama criminalità finanziaria, va a caccia di appalti e fa affari anche nell’Abruzzo forte e gentile. Si chiama “Colonia mafiosa” un’altra puntata di “31 minuti”, settimanale di approfondimento giornalistico di Rete8 in collaborazione con il Centro che va in onda questa sera alle ore 21.50 (regia Danilo Cinquino e Antonio D’Ottavio, coordinamento tecnico Andrea Di Fabio, riprese Luigi Cinquino). Quasi trent’anni di infiltrazioni, dalla presenza sporadica della criminalità organizzata a fine anni Novanta fino al riciclaggio in bar, ristoranti, negozi e grandi appalti scoperchiato dalle ultime inchieste giudiziarie. Ma c’è anche chi resiste. Come gli organizzatori del Premio nazionale Paolo Borsellino che, da poco, ha un nuovo presidente: è il prefetto Renato Cortese, il poliziotto simbolo della lotta alla mafia che, nella sua carriera, ha arrestato il capo di Cosa nostra, Bernardo Provenzano dopo 43 anni di latitanza e poi mafiosi del calibro di Giovanni Brusca, Enzo Brusca, Pietro Aglieri, Salvatore Grigoli e Gaspare Spatuzza. «La mafia si vuole impossessare non di un oggetto ma dei sentimenti dell’uomo e della coscienza civile del cittadino, vuole il potere fine a se stesso, è qualcosa che è nello Stato e non fuori dallo Stato», dice Cortese a “31 minuti”. «Non è facile convivere, in certi territori, con la presenza opprimente della mafia». È un’organizzazione che vuole dettare legge anche negli affari privati: «In capoluoghi di regione del nostro sud», dice Cortese, «una famiglia non è libera neanche a ristrutturare un appartamento se non chiama un’impresa vicina alla mafia del quartiere e se non lo fa viene bruciata la macchina».

ISOLA FELICE ADDIO

L’Abruzzo, la stessa terra in cui il 25 settembre 2023 è morto il boss Matteo Messina Denaro dopo trent’anni di latitanza, non è più un’isola felice: fino agli anni Novanta, l’Abruzzo era una terra di mezzo, tra mare e montagna al riparo dalle cosche spietate. Ma poi, anche l’Abruzzo si è fatto appetibile ed è diventato una terra di conquista: le tracce della mafia e del tesoro di don Vito Ciancimino, l’ex sindaco di Palermo colluso con la mafia, hanno portato fino ai bungalow e agli hotel di Tagliacozzo e quella definizione di isola felice è caduta una volta per sempre. Da allora, nei rapporti della Direzione investigativa Antimafia, l’Abruzzo si è ritagliato sempre più spazio perché questa regione è la naturale cassa di espansione per i clan, soprattutto della Campania e della Puglia. L’ultimo rapporto della Dia contiene un allarme riguardante la presenza della ’ndrangheta: «Il fenomeno criminale rilevato più di recente che ha destato maggiore allarme è costituito dalla presenza della ndrangheta, impegnata in un’espansione silente ma progressiva, che insidia il circuito economico produttivo abruzzese surrogando il potere intimidatorio con quello economico-finanziario per attrarre tra l’unione imprenditori e professionisti locali disponibili a ripulire le ingenti ricchezze illecite».

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QUEI PERICOLI IGNORATI

Ma i rischi c’erano già dal 2006, quando un rapporto della Dia parlava di una presenza massiccia e ingiustificata di banche in Abruzzo, di investimenti che non restavano mai sul territorio ma prendevano altre vie e di una catena sospetta di fallimenti: «Un numero di istituti bancari e società finanziarie assolutamente abnorme rispetto alla densità della popolazione, al reddito pro capite e al volume economico delle imprese attive, nonché alla tipologia delle forme di investimento che restano caratterizzate dalla tendenza a non investire sul territorio di appartenenza; attività di indagine della polizia giudiziaria hanno accertato una decina di bancarotte fraudolente e truffe con conseguenti indebiti arricchimenti per almeno 5 milioni di euro con notevoli pregiudizi economico patrimoniale per almeno un centinaio di imprenditori».

L’UOMO DEL POOL

A intuire quel rischio infiltrazioni, già nel 2007, l’ex magistrato Giuseppe Di Lello, abruzzese di Villa Santa Maria, un uomo del pool con Falcone e Borsellino, aveva intravisto già nel 2007 quando, da senatore di Rifondazione comunista, appoggiò un’interrogazione parlamentare insieme all’allora deputato Maurizio Acerbo sul caso Ciancimino e sui possibili tentativi di riciclaggio: «Nella politica c’era un silenzio di tomba, non ne parlava nessuno. Poi», dice Acerbo, oggi segretario di Rifondazione comunista, «facemmo l’interrogazione e una serie di convegni e il Gico si mosse fino allo sbocco giudiziario: le infiltrazioni possono essere combattute solo se c’è un’attività della politica e della società; bisogna tenere gli occhi aperti quando accadono processi economici». Ma nel 2007 la politica poteva fare qualcosa di più? «Certo, hanno fatto tutti finta di non entrarci niente. C’era un clima di omertà e disinteresse. E anche dopo la nostra interrogazione non è che ci sia stato chissà quale allarme nella politica abruzzese. E oggi il problema delle infiltrazioni è diffusissimo».

ITALIA SENZA MAFIA?

Ma, un giorno, esisterà un’Italia senza mafia? A rispondere «no» è Pippo Giordano, ex ispettore della Dia, un palermitano che ha lavorato al fianco di Borsellino: il giudice ucciso il 19 luglio in via D’Amelio aveva passato il precedente venerdì proprio con Giordano per interrogare Mutolo. «No, no e no», dice Giordano, «il potere politico dovrebbe prendere un paio di forbici ben affilate per tagliare il cordone ombelicale che lo lega ai mafiosi. Non è la politica che comanda la mafia, è il contrario: è un problema soltanto politico e non di polizia giudiziaria. È dal 1876 che si parla di mafia. Adesso, siamo nel 2025: la mafia ce la dovremo tenere fin quando i politici non decideranno di rompere l’accordo con i mafiosi».

AGENDA ROSSA

Tra i contenuti della puntata anche un’intervista di Erika Gambino con Massimiliano Di Pillo, consigliere comunale di Pescara, su un mistero italiano lungo 33 anni: l’agenda rossa (sparita) di Borsellino.

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IL PROF DELLA LEGALITA’

In un quadro desolante, c’è anche chi si batte per spargere il valore della legalità tra i giovani: tra i contenuti della puntata anche un’intervista a Graziano Fabrizi, referente nazionale del Premio Borsellino, docente di disegno e storia dell’arte, artista. Porta proprio la firma di Fabrizi l’installazione “Il piccolo Paolo” nella zona della stazione ferroviaria di Montesilvano: un’immagine che sta lì a ricordare che l’indifferenza è un peccato.



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