A scuola la classe è una micro-società di progetti e dialogo

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Pubblichiamo l’intervista con Gian Paolo Caprettini, Professore ordinario di Semiotica all’Università di Torino, realizzata nell’àmbito del secondo Rapporto Eurispes su Scuola e Università.

Prof. Caprettini, come valuta la spesa pubblica destinata all’istruzione in Italia? Perché, secondo lei, proprio quello della scuola è stato uno dei settori maggiormente colpiti, negli anni, da tagli?

Non so valutare in cifre assolute ma eloquente è il raffronto che si può fare rispetto alle risorse messe a disposizione nell’ambito della difesa e della sanità, raffronto che vede la scuola penalizzata. Quanto ai tagli in senso generale, un esempio: si è rivelato del tutto inutile e controproducente l’acquisto dei banchi mobili, ormai accantonati, ma penso che il capitolo di spesa fosse relativo alle misure per il Covid, a dimostrazione tuttavia che, rispetto alla scuola, si rivela complessa da gestire anche l’emergenza.

Rivolgendo lo sguardo alle passate riforme dell’istruzione, quali sono stati a suo avviso i passaggi più rilevanti? L’autonomia scolastica è stata un bene o un male?

Il dato più significativo del percorso formativo è la durata dell’obbligo scolastico, con il passaggio fondamentale alla scuola media unificata nel 1962-63. Ma le riforme – ricordo soprattutto quella, meritoria ma anche contraddittoria, del ministro Berlinguer – hanno in generale enfatizzato, soprattutto dalla fine degli anni Novanta, il rapporto con gli orientamenti rispetto al lavoro e poi alle aspettative del mercato. Un errore fondamentale, anche se allora ci appariva necessario, a qualcuno addirittura rivoluzionario, armonizzare la scuola con la realtà produttiva. L’equivoco di base consiste sempre nel riconoscere alla scuola un ruolo preparatorio o peggio un ruolo supplente o integrato rispetto alla famiglia. Di qui l’altra forzatura rispetto all’autonomia scolastica, che sicuramente era ed è un grande idea se si fosse ancorata a generare specificità, a produrre varietà effettive di offerte formative, a fissare orizzonti condivisi. Ma averla concepita facendo diventare la scuola un’assemblea aperta alle famiglie, alle imprese, agli Enti locali allo scopo di radicarla meglio si è rivelata una visione fallace perché ha generato una massa ingestibile di adempimenti burocratici. Ci sarebbero voluti princìpi organizzativi adeguati al cambiamento, senza generare il solito senso di inadeguatezza e di frustrazione che nella scuola rappresenta quasi un incubo istituzionalizzato.

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Quali sono, a suo avviso, i fattori che influiscono maggiormente sull’apprendimento e, in generale, sui risultati positivi e negativi degli alunni?

Sono convinto che il fulcro di ogni scuola è la classe, una micro-società da gestire con senso dell’equilibrio e del feedback; in ogni classe si deve formare una circolarità di discussioni, progettualità, valutazioni in cui i docenti fungono da guida e orientamento, e deve essere un organismo in cui si evidenziano i talenti che però vanno sia valorizzati individualmente sia messi al servizio del gruppo.

Uno dei punti cruciali del dibattito sul sistema dell’istruzione nel nostro Paese è quello relativo alla formazione dei docenti scolastici ed universitari. Si può immaginare un modello che non affidi la qualità dell’istruzione alle capacità ed alla buona volontà del singolo docente?

Anche in questo caso la qualità principe di chi insegna è quella di essere preparato, ovviamente, generoso anche ma di lasciarsi mettere in discussione. Affinare competenze di base nel campo pedagogico ma saper costruire una teatralità in campo formativo, a cominciare da quella prestazione che una volta si chiamava “lezione”: generare situazioni ipotetiche, simulazioni, presa in carico di punti di vista che non sono i tuoi, saper prendere le parti di chi non è allineato con te, produrre insomma dubbi, discontinuità ma anche amore, passione. Condivisione sì ma non in senso debole, coraggio – anticonformismo se occorre – piacere della scoperta condivisa, ma poi amore, cioé generosità intellettuale, senso di una comune corsa ad ostacoli.

Si parla spesso della necessità di ridurre i divari tra Nord e Sud anche nel campo della formazione. A suo avviso, è corretto parlare di divario geografico o, anche all’interno dello stesso territorio, i maggiori divari sono quelli tra centro e periferia, tra quartieri, tra realtà urbane ed extraurbane, tra pubblico e privato?

La scuola, sin dai suoi esordi nell’infanzia, l’Università, la formazione in generale non esisterebbero senza divari. Anzi, uno dei loro scopi primari è amministrare la varietà delle provenienze dei soggetti, dei loro vissuti e dei loro potenziali intellettuali e relazionali. Penso che perfino una accademia militare, che ha necessari e inevitabili orizzonti di conformità, debba valorizzare le diversità, non oscurarle. La stessa disciplina può riuscire a non essere rinuncia ma scoperta di doti inespresse e addestramento a produrre sincronie. Un altro esempio può provenire appunto dall’armonizzazione dei componenti di una orchestra o dei giocatori di una squadra. Paradossalmente, ci sono calciatori che valgono di più negli spogliatoi che sul campo di gioco.

In che misura ed in che modo, a suo avviso, le prospettive demografiche incideranno sul sistema scolastico del nostro Paese? E in che modo sarebbe opportuno prepararsi a questi cambiamenti?

Quando i cambiamenti si impongono, le soluzioni sono difficili. Gli aspetti multietnici, ad esempio, di per sé non sono insormontabili, se pensiamo a questioni linguistiche o sociali. Diventano enormi perché non c’è, non ci può subito essere una visione condivisa del ruolo della scuola, perché la risposta alla domanda “perché sono qui?” è piena di oscurità, alienazione, disagio, conflitto. Questo avviene molto di meno nell’Università dove in fondo, nonostante l’orizzonte omologante, la conoscenza dell’inglese e degli strumenti informatici garantiscono linguaggi comuni, almeno in senso operativo.

A suo giudizio, la scuola primaria e secondaria di primo grado si dimostra efficace nel fornire basi solide nelle diverse discipline e preparare gli alunni alle scuole superiori? E le superiori all’Università?

Nella scuola secondaria di primo grado manca l’idea di prepararsi a diventare società. Ci vuole un “ballo dei debuttanti e delle debuttanti” che consista nell’addestramento alle pratiche (non tanto ai princìpi) che governano il vivere comune e che ti fanno riconoscere come membro di una realtà, pubblica e privata. Un insegnamento induttivo non deduttivo che mostri le abilità necessarie per la convivenza e per l’espressione delle proprie capacità anche al servizio degli altri. Ma una convivenza non ripetitiva e fatta semplicemente di comportamenti corretti. Una convivenza socializzata, espressiva, artistica dove imparare canto, danza, sport, arti, giochi, palestra, teatro e uso dei media porti a valorizzare risorse personali e di squadra

L’Italia si segnala per elevati tassi di abbandono e dispersione scolastica. A suo giudizio, quali sono le principali cause del fenomeno, quali le strategie più urgenti da adottare?

In qualche modo, abbiamo affrontato la questione nella prima parte della nostra conversazione. Aggiungerei che ci sono soluzioni anche per i singoli casi ma il problema è generale, mi piace ricordare la passione con cui Paolo Crepet parla spesso della “passione”: il famoso “dàimon” dei Greci. Come si fa a pensare ogni mattina di andare a finire in un posto dove le mie passioni non contano niente, anzi dove non hanno fatto il minimo sforzo per farmi capire quali potrebbero essere?

Qual è e quale sarà nell’immediato futuro l’impatto delle tecnologie sul sistema scolastico, tenendo conto del metodo di insegnamento diffuso in Italia – spesso accusato di essere nozionistico, mnemonico, poco interattivo, specie se confrontato con i modelli di insegnamento stranieri – e degli insegnamenti che si possono ricavare dall’esperienza della Dad?

Se le tecnologie, quelle della scuola, del lavoro, della vita quotidiana, dello svago non portano alla solitudine, allora non sono cattive tecnologie. Ma c’è anche il rischio della socializzazione imbastardita: quella dei social e di chi li gestisce spesso facendo entrare in competizione gli utenti, anche se non ce ne sarebbe alcuna necessità. La critica dei media, quella che accompagna chi come me si occupa di comunicazione da oltre mezzo secolo, è innegabilmente sempre importante, offre occasioni di confronto e di svelamento decisive.

A suo giudizio, l’offerta universitaria in Italia è adeguata alle richieste del mercato del lavoro? In particolare, i dati fanno pensare che le nuove generazioni stiano disinvestendo nella formazione universitaria. È una lettura corretta del fenomeno?

Vorrei rispondere paradossalmente alla maniera della Scuola di Palo Alto. E direi allora: le richieste del mercato del lavoro sono all’altezza delle nostre offerte universitarie e formative?

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Nell’istruzione superiore la classica dicotomia fra pubblico e privato si è arricchita di nuovi soggetti (academy aziendali, società di consulenza, business school, start up digitali, piattaforme educative globali, ecc.) animando uno scenario di offerta educativa superiore che, in prospettiva, potrebbe spiazzare le tradizionali organizzazioni formative, Università pubblica in primis. Come valuta questa diversificazione dell’offerta?

Bene, benissimo che esista tale varietà. Ma senza scorciatoie. Benissimo ad esempio anche le Università telematiche, che siano però originali, stimolanti, arricchenti, sperimentali. Il concetto di “liofilizzato” in campo comunicativo è disarmante, fa parte di una malintesa educazione permanente, di facciata, di stampo anglosassone.

Qual è, a suo avviso, la principale sfida che la scuola italiana si trova ad affrontare con riferimento ai prossimi cinque anni?

Lavorare per la pace, smontare i conflitti di interesse, aprire gli orizzonti di vera interconnessione e cooperazione tra le varie civiltà, valorizzare le diversità, operare per un umanesimo multidimensionale che apra alle capacità, alle iniziative ma anche a una intramontabile intelligenza dello spirito.

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