Soglia di fallibilità: dei crediti prescritti non si tiene conto ai fini del superamento

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La verifica del superamento della soglia dei limiti dimensionali, ai fini della sussistenza o meno dei requisiti di fallibilità dell’imprenditore, comporta un’attenta disamina delle singole voci previste dalla legge. Nel tempo, la giurisprudenza ha affrontato e risolto questioni attinenti alla rilevanza di eventuali poste non inserite in bilancio, ovvero, non correttamente apposte. I giudici di legittimità hanno da ultimo precisato che, ai fini della verifica del superamento della soglia dimensionale concernente l’ammontare dei debiti del fallendo, possono essere espunti i debiti ormai prescritti, onde evitare l’apertura di procedure sostanzialmente inutili perché con passivo modesto.

Con l’ordinanza n. 29008/2024, la Corte di Cassazione si è pronunciata sulla valutazione della complessiva esposizione debitoria dell’impresa, in caso di crediti prescritti, ai fini del superamento della soglia di fallibilità.

Va ricordato che l’articolo 1, comma 2, L.F., disponeva che non erano soggetti alle disposizioni sul fallimento e sul concordato preventivo gli imprenditori che dimostravano il possesso congiunto dei seguenti requisiti:

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a) aver avuto, nei 3 esercizi antecedenti la data di deposito dell’istanza di fallimento, o dall’inizio dell’attività, se di durata inferiore, ricavi lordi per un ammontare complessivo annuo non superiore a 200.000 euro;

b) aver realizzato, in qualunque modo risulti, nei 3 esercizi antecedenti la data di deposito dell’istanza di fallimento, o dall’inizio dell’attività, se di durata inferiore, un attivo patrimoniale di ammontare complessivo annuo non superiore a 300.000 euro;

c) avere un ammontare di debiti anche non scaduti non superiori a 500.000 euro.

L’articolo 1 della previgente Legge Fallimentare è stato modificato dapprima dal D.Lgs. 5/2006 e, successivamente, dal D.Lgs. 169/2007.

Sulle finalità del nuovo testo dell’articolo 1, la Relazione illustrativa al D.Lgs. 5/2006 precisava: “in ossequio al criterio di delega che richiede l’estensione dell’ambito dei soggetti esonerati dalla assoggettabilità al fallimento, con l’articolo 1 è stato novellato l’articolo 1 della Legge Fallimentare, ridefinendo l’ambito soggettivo di applicazione dell’istituto fallimentare. Al riguardo, l’ampliamento dei soggetti esonerati è stato inteso in senso quantitativo e non meramente qualitativo. In altri termini, benché vengano assoggettati a fallimento tutti gli imprenditori commerciali, qualunque sia l’attività esercitata. Restano quindi esclusi dall’assoggettabilità alle procedure concorsuali, oltre agli imprenditori agricoli ed agli enti pubblici che esercitano in via esclusiva o prevalente un’attività economica, anche tutti i piccoli imprenditori, siano essi imprenditori individuali che collettivi”.

Successivamente, il D.Lgs. 169/2007 ha sostituito il comma 2 dell’articolo 1, L.F., modificandolo nel testo sopra indicato, e rimasto vigente sino all’entrata in vigore del Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza.

Nella Relazione illustrativa al D.L.gs. 169/2007 è rappresentato: “Il primo comma sostituisce l’articolo 1 della legge fallimentare al fine di meglio definire l’area della fallibilità, attraverso la previsione di sostanziali novità in materia di presupposto soggettivo del fallimento.

Le modifiche tengono conto del fatto che, l’eccessiva riduzione dell’area della fallibilità venutasi a determinare a seguito della novella del 2006, spesso ha impedito di assoggettare alla procedura fallimentare ed alle conseguenti sanzioni penali imprenditori di rilevanti dimensioni in grado di raggiungere elevati livelli di indebitamento, con conseguente danno, sia per i numerosi creditori insoddisfatti, che per l’economia in generale.

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La necessità, quindi, di eliminare, pur nel rispetto della delega iniziale, gli eccessi della riduzione dell’area della fallibilità, ha consigliato l’introduzione del nuovo criterio riguardante il presupposto soggettivo dell’indebitamento complessivo.

Più in dettaglio, va evidenziato il fatto che per delimitare l’area dei soggetti esonerati dal fallimento, non venga più utilizzata la nozione di piccolo imprenditore commerciale, ma vengano indicati una serie di requisiti dimensionali massimi che gli imprenditori commerciali (resta quindi ferma l’esonero dalle procedure concorsuali di tutti gli imprenditori agricoli, piccoli e medio grandi) devono possedere congiuntamente per non essere assoggettati alle disposizioni sul fallimento e sul concordato preventivo. … La non fallibilità dell’imprenditore commerciale viene condizionata, oltre che alla sussistenza congiunta dei due requisiti attualmente previsti (che comunque vengono meglio precisati), anche alla sussistenza del nuovo parametro della esposizione debitoria complessiva – comprensiva, sia dei debiti scaduti, che di quelli non scaduti – non superiore a cinquecentomila euro.

Il parametro dell’ammontare degli “investimenti”, alquanto vago e di incerta definizione, viene sostituito con quello dell’”attivo patrimoniale”, il quale consente di far riferimento alla precisa elencazione contenuta nell’art. 2424 c.c.

Riguardo a tale parametro, si precisa che l’attivo patrimoniale complessivo annuo (non superiore ad euro trecentomila) da prendere in considerazione è solamente quello relativo agli ultimi tre esercizi antecedenti la data di deposito dell’istanza di fallimento.

L’indicazione degli ultimi tre esercizi anteriori alla presentazione del ricorso o della richiesta di fallimento serve a delimitare nel tempo il campo di indagine del tribunale evitando difformità di prassi applicative, in coerenza con la disposizione dell’articolo 14, che fa obbligo al debitore, che chiede il proprio fallimento, di depositare presso la cancelleria “le scritture contabili e fiscali obbligatorie concernenti i tre esercizi precedenti”.

Anche il criterio dei ricavi lordi viene meglio precisato e reso più rigido, in quanto, eliminato il concetto di media dei ricavi degli ultimi tre esercizi, si richiede che, in nessuno dei tre esercizi precedenti la data di deposito dell’istanza di fallimento, l’imprenditore abbia realizzato ricavi lordi annui superiore ad euro duecentomila.

Di notevole importanza, poiché supera i problemi interpretativi emersi in materia di distribuzione dell’onere della prova circa il presupposto soggettivo del fallimento, è poi la disposizione che precisa il fatto che grava sul debitore l’onere di fornire la prova dei requisiti di non fallibilità, intesi come fatti impeditivi della dichiarazione di fallimento. È quindi onere dell’imprenditore fallendo dimostrare di non aver superato (nel periodo di riferimento) alcuno dei tre parametri dimensionali previsti dalla norma in commento. Si evita, così, di “premiare” con la non fallibilità quegli imprenditori che scelgono di non difendersi in sede di istruttoria prefallimentare o che non deposito la documentazione contabile dalla quale sarebbe possibile rilevare i dati necessari per verificare la sussistenza dei parametri dimensionali.

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In tal modo, qualora gli elementi probatori dedotti dalle parti o quelli acquisiti d’ufficio non siano sufficienti a fornire la prova della sussistenza dei requisiti di non fallibilità, permanendo l’incertezza sulla sussistenza o meno dei requisiti soggettivi di esenzione dal fallimento, l’imprenditore resta assoggettato alla procedura fallimentare”.

I limiti dimensionali sopra esaminati sono stati riportatati in seno al nuovo Codice, all’articolo 2, comma 1, lettera d), il quale definisce “impresa minore”:

l’impresa che presenta congiuntamente i seguenti requisiti:

1) un attivo patrimoniale di ammontare complessivo annuo non superiore ad euro trecentomila nei tre esercizi antecedenti la data di deposito della istanza di apertura della liquidazione giudiziale o dall’inizio dell’attività se di durata inferiore;

2) ricavi, in qualunque modo essi risultino, per un ammontare complessivo annuo non superiore ad euro duecentomila nei tre esercizi antecedenti la data di deposito dell’istanza di apertura della liquidazione giudiziale o dall’inizio dell’attività se di durata inferiore;

3) un ammontare di debiti anche non scaduti non superiore ad euro cinquecentomila”.

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L’articolo appena citato va letto in combinato disposto con l’articolo 121, Codice, che dispone: “Le disposizioni sulla liquidazione giudiziale si applicano agli imprenditori commerciali che non dimostrino il possesso congiunto dei requisiti di cui all’articolo 2, comma 1, lettera d), e che siano in stato di insolvenza”.

È di tutta evidenza, pertanto, l’attualità e l’importanza della pronuncia in commento della Suprema Corte.

 

Esami dei fatti di causa oggetto della pronuncia della Corte di Cassazione

Un imprenditore, dichiarato fallito dal Tribunale di Nola, ha proposto reclamo avverso la sentenza dichiarativa di fallimento, ex articolo 18, L.F., presso la Corte d’Appello di Napoli.

La Corte territoriale adita ha rigettato il reclamo ritenendo:

  1. che la prescrizione di una parte dei debiti dell’imprenditore fallendo determina solo la sopravvenuta estinzione del diritto del titolare ad agire in giudizio per il recupero, ma non assume rilevanza ai fini della prova del mancato raggiungimento della soglia di fallibilità di cui all’articolo 1, comma 2, lettera c), L.F., in quanto il credito, certo e incontestato nella sua originaria, giuridica esistenza, incide sull’accertamento delle oggettive dimensioni dell’impresa;
  2. che nella specie, pertanto, non era necessario verificare se, secondo quanto dedotto dal reclamante, si fossero eventualmente prescritti parte dei crediti vantati nei suoi confronti, atteso che tale importo doveva essere comunque computato nell’ammontare complessivo dei debiti ai fini dell’accertamento della ricorrenza o meno del relativo requisito dimensionale;
  3. che pertanto, sommando il credito del creditore istante a quello complessivo, risultava superato l’importo di 500.000 euro al di sotto del quale non si fa luogo alla dichiarazione di fallimento.

Avverso la pronuncia della Corte d’Appello, l’imprenditore fallito ha proposto ricorso in Cassazione, denunciando violazione e falsa applicazione dell’articolo 2934, cod. civ., e dei principi enunciati dalla Suprema Corte in materia di prescrizione dei crediti erariali e contributivi, nonché l’omesso esame di documenti decisivi (primo motivo) e violazione dell’articolo 1, comma 2, lettera c), L.F., e degli articoli 2034 e 2940, cod. civ. (secondo motivo). In particolare, il ricorrente ha contestato che, ai fini della verifica del superamento della soglia dimensionale concernente l’ammontare dei debiti del fallendo, debba tenersi conto anche dei crediti ormai prescritti.

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La decisione della Corte di Cassazione

La Corte di Cassazione ha ritenuto fondati i motivi del ricorso proposto dall’imprenditore ricorrente e ha cassato la sentenza impugnata rinviando alla Corte d’Appello di Napoli, in diversa composizione, per un nuovo esame di merito.

Nelle ragioni della decisione, gli Ermellini hanno affermato che l’assunto della Corte del merito, secondo cui i crediti prescritti vanno comunque conteggiati ai sensi dell’articolo 1, comma 2, lettera c), L.F., risulta in primo luogo in contrasto con la finalità connessa alla Riforma di cui al D.Lgs. 5/2006, che, secondo quanto può leggersi nella premessa alla Relazione illustrativa, era volta, fra l’altro, ad ampliare in senso quantitativo il novero degli imprenditori esonerati dal fallimento, onde evitare l’apertura di procedure sostanzialmente inutili perché prive di attivo o con scarso passivo.

E ancora, si legge nelle motivazioni della decisione: “si tratta, inoltre, di un assunto che non considera che, così come il pagamento o la compensazione, la prescrizione è fatto sostanzialmente estintivo del debito, che rende il credito non più esigibile e che ben può essere eccepito dal curatore: ritenere che l’intervenuta prescrizione di un credito (ovviamente di importo tale da essere determinante per il superamento della soglia di cui alla lett. c) dell’art. 1 comma 2 L. Fall., e sempre che, come nella specie, sia pacifico il mancato raggiungimento delle altre due soglie) non sia fatto impeditivo della dichiarazione di fallimento e che pertanto non sia compito del giudice del procedimento ex artt. 15 e 18 L. Fall. verificare, incidenter tantum, se sia o meno fondata la deduzione difensiva svolta in tal senso dal debitore, pur nella consapevolezza che quel credito (quand’anche oggetto di una domanda ex art. 93 L. Fall.) non sarà ammesso al passivo, appare allora frutto di una logica in qualche misura “punitiva” dell’imprenditore fallendo, totalmente estranea allo spirito della legge di riforma”.

La Corte ha pertanto ritenuto che il giudice della c.d. istruttoria prefallimentare o del reclamo, ove l’intervenuta prescrizione del credito non costituisca fatto pacifico (perché, ad esempio, ammessa dal creditore) ha il dovere di accertare la fondatezza dell’eccezione sulla base non solo delle prove acquisite, ma anche di quelle acquisibili d’ufficio (a norma degli articoli 15, comma 4, o 18, comma 10, L.F.).

Va, infatti, ricordato che l’articolo 15, L.F., consente al Tribunale, nel procedimento volto all’accertamento dei presupposti per la dichiarazione di fallimenti, di poter richiedere eventuali informazioni urgenti, così come in sede di reclamo, ai sensi dell’articolo 18, L.F., il collegio può assumere, anche d’ufficio, nel rispetto del contraddittorio, tutti i mezzi di prova che ritiene necessari.

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La Suprema Corte ha sottolineato che in un caso quale quello in esame è possibile richiedere all’ente impositore (creditore per il quale è stata eccepita la prescrizione del credito), che non è parte del giudizio, informazioni urgenti, anche in ordine all’esistenza di eventuali atti interruttivi.

Infine, la Corte, ha concluso rappresentando di aver già affermato che nel procedimento per la dichiarazione di fallimento, l’articolo 1, comma 2, L.F., pone a carico del debitore l’onere di provare di essere esente dal fallimento, così gravandolo della dimostrazione del mancato superamento congiunto dei parametri ivi prescritti, mentre residua in capo al Tribunale (e in capo al giudice del reclamo), limitatamente ai fatti dedotti dalle parti quali allegazioni difensive, un potere d’indagine ufficiosa finalizzato a evitare la pronuncia di fallimenti ingiustificati, che si esplica, tra l’altro, nell’acquisizione delle informazioni urgenti rilevanti ai fini della decisione (Cassazione n. 8965/2019 e n. 24721/2015).

In linea con la sentenza in commento, vale la pena di ricordare 2 recenti pronunce della Corte di Cassazione, che hanno confermato la necessità che il Tribunale o il giudice del reclamo acquisiscano e valutino tutte le informazioni rilevanti ai fini della decisione.

Con l’ordinanza n. 29472/2022, la Corte di Cassazione si è pronunciata in merito alla verifica della sussistenza del requisito di fallibilità di cui all’articolo 1, comma 2, lettera c), L.F., costituito da un indebitamento complessivo almeno pari a 500.000 euro. I giudici di legittimità, richiamando un proprio precedente (cfr. Cassazione n. 3158/2018), hanno affermato che l’ammontare dei debiti della società, in fase di verifica dei requisiti di fallibilità, deve essere valutato con riferimento al momento della dichiarazione di fallimento.

Nelle motivazioni si legge che la ricorrenza dei requisiti di fallibilità di cui all’articolo 1, comma 2, L.F.: “deve essere invece valutata con riferimento alla situazione esistente alla data del fallimento, ma la relativa prova ben può essere tratta, in sede di reclamo (nel corso del quale il collegio dell’impugnazione può assumere “anche d’ufficio, nel rispetto del contraddittorio, tutti i mezzi istruttori che ritiene necessari”, nel senso stabilito dall’art. 18, comma 10, l. fall.) da fatti anteriormente verificatisi ma emersi posteriormente all’emissione della sentenza dichiarativa”.

Conseguentemente, stabilisce la Corte, i giudici di merito possono legittimamente accertare l’ammontare dell’indebitamento della società fallita alla data di dichiarazione d’insolvenza, sulla scorta della relazione ex articolo 33, L.F., e delle risultanze dello stato passivo.

Ne deriva, pertanto, che, ai fini della verifica del superamento della soglia di indebitamento di cui all’articolo 1, comma 2, lettera c), L.F., rilevano, i debiti sorti anteriormente alla data di fallimento, ancorché accertati successivamente a tale data.

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E ancora, con l’ordinanza n. 20671/2024, la Corte si è pronunciata sulla valutazione della complessiva esposizione debitoria dell’impresa, in caso di credito contestato, ai fini del superamento della soglia di fallibilità.

In particolare, i giudici di legittimità hanno sancito il principio per cui: “la contestazione del debito, come non impedisce, di per sé, la sua inclusione nel complessivo indebitamento, così non risulta del tutto irrilevante ai fini del computo dello stesso ove la ragioni addotte dal debitore appaiono giustificarle. Pertanto, in assenza di un definitivo accertamento del credito in sede giudiziale, è affidato al giudice investito dell’istanza di fallimento un accertamento incidentale che non pregiudica l’esito della controversia di merito, all’esclusivo scopo di verificare se il credito contestato vada o meno considerato, e (in caso di risposta affermativa) in quale misura, al fine della quantificazione dell’indebitamento complessivo del fallendo. Nel caso in specie, pertanto, la corte distrettuale non poteva limitarsi ad escludere che il debito … si fosse estinto prima della dichiarazione di fallimento, ma doveva anche valutare se lo stesso si fosse ridotto al momento della dichiarazione di insolvenza … stabilendone la misura da considerare al fine del computo del complessivo indebitamento”.



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