Israele: negoziato su Gaza senza i palestinesi

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Sono stati resi noti ieri pomeriggio i nomi dei sei ostaggi israeliani vivi che Hamas rilascerà sabato, dopo l’accordo raggiunto tra le delegazioni di Israele e del movimento islamico al Cairo: Eliya Cohen, Tal Shoham, Omer Shem Tov, Omer Wenkert, Hisham al-Sayed e Avera Mengistu.

Sullo scambio di domani, invece, Tel Aviv non dà conferme. Per la prima volta dall’entrata in vigore della tregua, il 19 gennaio, torneranno alle famiglie quattro ostaggi deceduti, che Hamas indica in Shiri Bibas e i suoi due bambini Ariel (4 anni al momento del rapimento) e Kfri (nove mesi). Il padre Yarden è libero dal primo febbraio. Non è stato reso noto il nome del quarto.

La riconsegna dei resti dei piccoli Bibas provocherà effetti nella società israeliana, su cui pesa il silenzio del governo sul loro destino: da mesi Hamas ha dato conto della loro uccisione, dicono suoi funzionari, nel novembre 2023 in un raid aereo israeliano su Gaza, eventualità che Tel Aviv non ha mai voluto confermare. Ieri la famiglia Bibas, in un estremo atto di speranza, si diceva ancora fiduciosa in un ritorno a casa dei propri cari ancora in vita perché «non ci sono giunte conferme ufficiali».

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I DUE SCAMBI giungono in un momento decisivo per la tenuta della tregua oltre la prima fase che scade il primo marzo. Della seconda fase Hamas e Israele avrebbero dovuto iniziare a discutere all’inizio di questo mese, ma ai mediatori israeliani è stato tirato il freno su ordine del primo ministro Netanyahu. Più di una fonte interna ha spiegato il ritardo con la chiara intenzione del premier di non proseguire nel negoziato: riprendere l’offensiva su Gaza, l’obiettivo.

Ieri il ministro degli esteri Saar (dopo un gabinetto di sicurezza durato fino alla tarda notte di lunedì) ha detto che Tel Aviv avvierà i negoziati sulla seconda fase «questa settimana» sulla base di pesanti condizioni, «la completa demilitarizzazione di Gaza e nessuna presenza dell’Autorità palestinese». Precondizioni che affossano il dialogo ed escludono ancora i palestinesi, chiunque essi siano, dal presente e dal futuro della Striscia e che va di pari passo con la negazione storica della loro autodeterminazione.

Sbatte anche con i piani arabi di alternativa alla pulizia etnica invocata da Trump e Netanyahu, che dovrebbero essere discussi nel vertice che Giordania ed Egitto continuano a posporre. La nuova data del summit della Lega araba è il 4 marzo, qualche giorno dopo la fine della prima fase. Chissà se ci sarà ancora da discutere di ricostruzione e governance o se le bombe israeliane riprenderanno a massacrare Gaza.

Raid ne vengono compiuti comunque, come gli attacchi via terra: ieri sono stati uccisi un bambino a Rafah e una donna in una comunità vicino alla città meridionale (con i sei cadaveri recuperati ieri dalle macerie, il bilancio ufficiale dal 7 ottobre 2023 sale a 48.291 uccisi, circa 14mila i dispersi). Secondo i dati raccolti da al-Jazeera, dal 19 gennaio Israele ha violato la tregua 266 volte, ucciso 132 persone e ferito oltre 900.

Nelle 266 violazioni rientrano anche gli impedimenti posti al rientro a nord degli sfollati, la distruzione di bulldozer per la rimozione delle macerie, la demolizione di case ancora in piedi nella zona di Rafah e il blocco degli aiuti. Ancora non si vedono le 200mila tende e le 60mila case mobili promesse nell’accordo, ferme nella fila senza fine apparente di camion umanitari al valico di Rafah.

SONO STATI FATTI entrare due bulldozer, una goccia nel mare delle necessità di una terra che nasconde migliaia di morti e ordigni. Negli ultimi due giorni i camion di medicinali e cibo si sono drasticamente ridotti: 200 in 48 ore, contro i 600 previsti ogni 24.

La situazione è infernale, i dati pubblicati ieri da Oxfam ne sono lo specchio: «A Rafah e a Gaza nord il conflitto ha ridotto la disponibilità idrica del 93%…I bombardamenti hanno distrutto 1.700 chilometri di reti idriche e igienico-sanitarie, ma Israele continua a bloccare l’ingresso dei materiali necessari alle riparazioni», si legge nel comunicato dell’ong.

«Nelle aree di Gaza nord e Rafah le persone devono sopravvivere con 5,7 litri di acqua a testa – dice Paolo Pezzati di Oxfam Italia – Quanto noi ne consumiamo in meno di un minuto facendo la doccia o tirando una sola volta lo scarico del bagno. In tale condizione il rischio di epidemie è altissimo». Quasi un milione di persone non ha accesso ad acqua pulita. Per rendere di nuovo Gaza vivibile servono almeno 53 miliardi di dollari in dieci anni, ha detto ieri la Banca mondiale.

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