Biodiversità, cittadina onoraria delle smart cities

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Osservandolo da lontano, è piuttosto immediato notare come i centri abitati si distribuiscano sulla superficie terrestre tondeggiante formando un’enorme opera d’arte, l’arte della sopravvivenza, quella che ha guidato le scelte di molte generazioni di nostri antenati. Oggi ne stiamo compiendo altre, con criteri completamente diversi, dimenticandoci che non siamo gli unici abitanti del pianeta. In una parola ci dimentichiamo della biodiversità.

Smart city antropocentriche

Tutto ciò è frutto di una suggestione regalata da Massimo Labra, direttore scientifico del National Biodiversity Future Center, che fa osservare come “la maggior parte delle smart city siano nate a dimensione di uomo, antropocentriche e fortemente permeabili e sempre più spesso ne stiamo vedendo le conseguenze. È necessario farle diventare a dimensione di ogni forma di vita” spiega. È il primo a riconoscere che si tratta di una conversione complessa da compiere, a livello di mindset, ma che non richiede ricette magiche particolari. Le soluzioni esistono già e sono anche numerose. Si chiamano “nature based solution” e sono interventi che puntano sulla natura, dandole spazio e voce, perché porti benefici ambientali e sociali nella vita delle persone.

L’idea di Labra e di una crescente parte della comunità scientifica è quella di seminarle in tutto lo spazio abitato, smart cities in primis, sfruttandole sia per la riqualificazione che per il ripristino, sia negli ambienti fortemente urbanizzati e centrali, sia per quelli periurbani. “Soprattutto nelle aree più costruite, questo tipo di soluzioni permette di realizzare piccoli interventi connessi, creando una rete funzionale alla biodiversità. Aiuole, strade fiorite, piccoli laghetti, muri verdi, aree umide – spiega Labra – unendo tante isole di natura si possono arrivare a garantire servizi ecosistemici equivalenti”.

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Città mosaico di biodiversità diverse

Un altro aspetto geniale e decisamente pratico di questo tipo di approccio è la modularità, che porta alla personalizzazione completa di ogni strategia immaginabile e applicabile. Un’opportunità preziosa e necessaria, perché come fa notare Giulia Capotorti, docente di biologia ambientale dell’Università La Sapienza di Roma: “In generale serve intensificare e rendere virtuosa l’integrazione tra elementi naturali e uomo, ma ogni città è un elemento complesso e diverso dalle altre – spiega –  le nostre smart cities oggi sorgono in ambienti molto differenti tra loro, come clima e posizione geografica, ma non solo. Quando si tratta di biodiversità, è fondamentale prendere in considerazione anche fattori locali, come la tipologia di suolo e come impatta sulla crescita della vegetazione, per esempio, e le diverse morfologie presenti”.

Con gli occhi di Capotorti, il tessuto delle nostre città, quel monotono incrociarsi di vie grigie, tetti, semafori e macchine, diventa un colorato mosaico di “unità ambientali” di tante tipologie diverse e con diversa potenzialità ecologica. Ecco quindi che, come lei stessa spiega, “le aree verdi urbane non sono e non devono essere uguali e serve conoscerle, per differenziare gli interventi”. Le nature based solutions, con la loro granularità e la possibilità di combinarne di diverse in modo ogni volta adeguato, si confermano un potente strumento per ricentrare le nostre smart city. Non su di noi, ma su tutta la natura, noi compresi ma non prioritari.

L’idea di città che esperti come Labra e Capotorti regalano sono coraggiose, sfidano le immagini stock che provano a imporre le smart cities come regni di tecnologia e innovazione, dove a brillare non è mai la rugiada del mattino ma la cromatura di dispositivi tecnologici avanzati. È una visione che a volte arriva anche a sembrare quasi contro-intuitiva, ma se vogliamo davvero lottare contro gli effetti della crisi climatica abbiamo forte bisogno anche di essere contraddetti in alcune delle nostre inossidabili convinzioni. Per esempio, quelle attorno all’urban sprawl, in italiano ‘città diffusa’, un fenomeno definito come la “rapida espansione dell’estensione geografica di città e centri abitati, spesso caratterizzati da abitazioni residenziali a bassa densità, zonizzazione monouso e maggiore dipendenza dall’automobile privata per il trasporto”.

Porta anche a dei vantaggi, secondo Capotorti, “nuove opportunità di valorizzare gli spazi verdi, riqualificarli o pensarli by default e in modo diverso, proponendo interventi realmente in grado di rispondere alla crisi climatica e all’inquinamento perché composti da nature based solutions” spiega. E poi cita un tasto dolente comune a molte smart cities non solo italiane: le isole di calore urbano.  “Per mitigarne gli effetti serve una copertura arborea maggiore ed efficiente, studiata valutando quali alberi inserire, dove e perché” racconta. E il suo suggerimento è di non condannare a priori le modificazioni antropiche del territorio, perché, spiega, “alterano l’ecosistema ma non sempre lo peggiorano, anzi, a volte aumentano la biodiversità”. Anche l’urbanizzazione e gli habitat artificiali possono dare spazio a nuove miniere di nuova biodiversità, come già accade a nostra insaputa in alcune aree archeologiche o negli ex scali ferroviari.

Impollinare la città per farla rifiorire

Due luoghi, quelli citati da Capotorti, che pochi avrebbero associato al concetto di “rifugi di biodiversità”, e invece lo sono. Una biodiversità cittadina che non risponde ai cliché, ma da esplorare, meritevole di attenzione e di protezione. Altra se ne nasconde anche tra l’erba, motivo per non dedicarsi a sfalci senza ritegno, anche in piena città. Anche stavolta bisogna osare disubbidire al comune pensare che nelle zone abitate si debba tenere in ordine minimizzando la presenza di verde indomabile. Perché una strategia di sfalci studiata, anche assieme a chi di natura si occupa, può regalare alla città vita e sollievo. A spiegarlo è Paolo Biella, ricercatore presso l’Università degli Studi di Milano Bicocca specializzato nelle interazioni tra le specie, nell’ecologia dell’impollinazione e nell’ecologia e conservazione delle api selvatiche.

Lui parla, nello specifico, di sfalci differenziati, quelli in cui varia la frequenza e l’intensità del taglio della vegetazione in base alle caratteristiche ecologiche, topografiche e funzionali di ciascuna area. Quelli che hanno mostrato dare spazio a specie biodiverse con aumenti del 20%, ma anche del 50% in più di insetti. Biella studia quelli, e tutto ciò che influenza la loro presenza in città. “Sono poco studiati e quasi sempre associati alla componente cattiva della biodiversità. Cambia per gli impollinatori, perché si pensa subito alle api, anche se nella stessa categoria ve ne sono altri, come le vespe, per esempio, e tanti generi di bombi, ciascuno con esigenze molto diverse” racconta.

Il ruolo principale degli impollinatori è quello che regala loro il nome, che li rende uno dei maggiori “contributori alla coltivazione delle aree agricole e al verde urbani”, ma alcuni sono anche predatori di altri insetti fastidiosi. Molti sono vittime della crisi climatica, capace di far sentire i propri effetti anche su questi apparentemente instancabili esseri viventi. Prendiamo per esempio l’effetto che possono fare su di loro le già citate isole di calore.

Biella rivela che in condizioni di alte temperature questi insetti hanno meno risorse nutritive “Il nettare cambia con la temperatura, diventa più denso e quindi più difficile da risucchiare, impattando sulla capacità di riproduzione – spiega – anche il polline, ad alte temperature, perde vitalità e risulta meno potente. E poi ci sono anche casi di insetti deformi, con ali asimmetriche, meno efficienti nel volo. Probabilmente le alte temperature durante lo sviluppo delle larve hanno influito sulla crescita. Tutto ciò non è causato solo dalla crisi climatica, però, e distinguere è complesso perché solitamente la città riassume vari stress legati anche alla mancanza di aree verdi e all’inquinamento”.

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Parco Nord, da 40 anni ha sempre voglia di crescere

Un progetto che vede protagonisti sempre gli impollinatori studiati da Biella è l’Apistrada. Per imboccarla bisogna andare al Parco Nord di Milano. Lì è stata da poco inaugurata una strada fiorita di 3 chilometri, per nutrire queste creature fondamentali per la sopravvivenza stessa dell’uomo. È una delle più estese in Italia ed è anche una delle più ricche nella composizione delle specie floreali, vuole diventare un esempio di fonte di sostentamento alternativa, aggiuntiva, salvifica, per le api che frequentano le smart cities.

È un progetto estremamente innovativo, uno dei tanti legati a questo Parco, tra quelli realizzati e quelli in corso, o in arrivo. Il direttore Riccardo Gini ne ha tanti da raccontare, ma prima regala una panoramica dell’area verde incastonata nel fitto territorio del capoluogo lombardo. Messo a dimora il primo albero nel 1983, Parco Nord ora è arrivato al suo quarantesimo lotto di rimboschimento, superando i 110 ettari di bosco e sfiorando 1000 ettari di superficie complessiva. “Ogni anno si trasforma aggiungendone di nuovi, per innescare processi naturali in aree diverse – spiega Gini – esiste un piano di massima per il suo sviluppo, quello realizzato in origine. Man mano lo si adatta secondo le esigenze e le eventuali urgenze”.

Nel 2022, per esempio, il Parco ha sofferto molto la siccità e nel 2023 gli effetti di tempeste estreme che lo hanno duramente colpito. Nei mesi si sono fatti interventi di recupero o di innovazione e Gini afferma che “oggi il Parco sta bene. Noi costruiamo natura e processi perché sia rigenerativa: per chi progetta parchi, al contrario di chi progetta edifici, il bello inizia quando il progetto è concluso e prosegue lo sviluppo della natura“. Attualmente, quella del Parco Nord Milano è composta da alcune specie dominanti come la quercia e il carpino, e da alcune accessorie come tiglio, frassino e acero, a cui vanno sommati i tanti arbusti, tra cui il nocciolo, il biancospino e il sambuco.

Un’associazione variegata e in continua evoluzione, anche a causa della crisi climatica. Un fenomeno che colpisce tutto e tutti, ma che non tutti stanno a guardare restando fermi. Gini e il suo gruppo stanno infatti implementando diverse sperimentazioni scientifiche in collaborazione con il mondo della ricerca, “per trovare nuove ricette e studiare l’efficacia e l’evoluzione di ciascuna – spiega – ma la risposta può arrivare in tempi lunghi ed è necessario valutare i risultati considerando tutti gli altri fattori che interagiscono con la natura, inquinamento in primis”.

Natura, ricerca e tecnologia: tris di qualità

Parco Nord Milano si sta trasformando in un piccolo grande laboratorio anche per la biodiversità ai tempi della crisi climatica. Si sperimentano specie originarie di zone più calde, per esempio, per vedere se si trovano bene nel nuovo clima della smart city che le ospita. L’albero della nebbia (Cotinus coggygria) sembra apprezzare l’aria che tira a Milano, confessa Gini, pur non essendo una specie autoctona, nonostante il nome. L’impegno e le iniziative in quest’area verde non riguardano solo strettamente il verde ma anche gli specchi d’acqua, utili per gli anfibi come il rospo smeraldino, ma anche per i tanti uccelli che popolano il Parco. “Più di quelli che si immaginano”, afferma Gini con una voce entusiasta che poi si incrina spiegando che “si conoscono ancora troppo poco, è necessario valorizzarli e permettere alle persone di saperli apprezzare”.

Con gli uccelli, come anche con le piante, gli insetti e ogni altra forma di biodiversità, chi può entrare in gioco e cambiare l’esito della partita è la tecnologia. Non un’avversaria, quindi, ma una preziosa alleata se ben utilizzata, per proteggere, ripristinare e dare pregio al verde e a chi lo abita. Non lo si direbbe, forse, passeggiando distratti per i suoi viali, ma Parco Nord Milano ne ospita tanta, anzi, l’ha integrata, di volta in volta, con attenzione e cura, con misura ed equilibrio, e dando priorità sempre alle esigenze della natura. “Cerchiamo di avere un approccio aperto al dialogo e costruttivo, utilizzando la tecnologia in modo virtuoso e funzionale” spiega Gini.

Telecamere per monitorare e proteggere, QR code per permettere di consultare la storia del parco ai 3 milioni e mezzo di persone che lo frequentano ogni anno, e poi fibra ottica e pannelli fotovoltaici, e anche l’idea di creare una comunità energetica. Per non parlare dei sensori innovativi protagonisti di nuovi progetti di monitoraggio della biodiversità, sperimentati grazie a nuovi progetti di ricerca in programma. Altri saranno dedicati alla comprensione degli effetti del “bagno nella foresta” sulla salute fisica e psicologica delle persone.

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“Un vero e proprio studio scientifico che ne metta in luce i benefici attraverso dati, perché per amministrare con polso, coraggio e senso, bisogna essere credibili”. Per Gini è un principio fondamentale, è alla base del suo approccio e lo porta avanti in ogni occasione. Anche quando si tratta di accogliere un concerto “rumoroso” come quello di Jovanotti, o una visita “sacra” come quella del Papa. “Non abbiamo detto no, abbiamo fatto in modo che queste iniziative potessero integrarsi con i bisogni e le priorità del Parco nel miglior modo possibile” commenta.

Pa e cittadini ambasciatori di biodiversità

Un Parco come Parco Nord Milano è chiamato a convivere con la smart city in cui sta crescendo da anni e ha trovato il modo di farlo senza sottolineare la falsa contrapposizione tra spazi urbani e naturali. Ha scelto la via del dialogo e dell’integrazione. Diversa da quella della convivenza, perché in questo spazio si affronta assieme la sfida del provare a costruire un nuovo approccio, che non blocca o limita una Milano che fa business, ma che non permette che lo faccia a spese della biodiversità. Una mission possibile solo se condivisa da tutti i partecipanti, e dalla PA: soprattutto l’amministrazione locale, infatti, è il principale attore, il primo, forse, chiamato a dare un segno di voglia di cambiamento. Di voglia di crescere bene, e non solo di crescere.

È con Massimo Labra del NBFC che si torna, per ragionare di pianificazione urbana e della forte necessità di “un approccio ecosistemico che guidi la scelta verso una prioritizzazione della diversità ma anche della coerenza, con l’aiuto di esperti ecologi, oggi quasi mai interpellati, purtroppo”. Che si tratti di grandi parchi cittadini, o di una mappa punteggiata di piccole aiuole, ciò che potrà salvare le smart city sarà “la creazione di reti coerenti e ampie, perché solo così gli ecosistemi di biodiversità potranno sopravvivere” spiega Labra. E poi pensa a chi sembra costretto solo a subire la pianificazione urbana, e invece non lo è: il cittadino.

Ogni abitante può infatti essere educato e educarsi per capire come prendersi cura della natura dei suoi paraggi, e anche del proprio balcone. “Non bisognerebbe affidarsi solo ad azioni spontanee, magari con buone intenzioni ma non sempre scientificamente corrette. Servono reali strategie di partecipazione per un diretto ed efficace coinvolgimento – aggiunge – modelli di gestione che vedano i cittadini protagonisti del verde e della biodiversità urbana. Anche partendo da semplici orti urbani e rendendoli orti sociali, spazi da abitare in armonia con la natura e con gli altri cittadini. Solo se ciascuno riuscirà a percepire come proprio, uno spazio verde comune, inizierà a desiderare di prendersene cura e proteggerlo. Il bene comune, oggi percepito da nessuno, dovrebbe diventare patrimonio di tutti”.



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