L’Ue giuridica e burocratica. Si voleva perfetta e ha fatto male a sé stessa

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Nel bel mezzo di un difficilissimo e storico passaggio che vede l’Europa chiamata a fronteggiare la nuova politica degli Usa, non passano di certo inosservate le considerazioni di Mario Draghi sull’Unione europea pubblicate dal Financial Times. I dazi l’Europa se li sarebbe imposti da sé e l’indice è puntato contro l’imponente regolazione europea. Così la versione di Supermario.

Come esempio egli prende il Gdpr (la normativa sulla tutela dei dati personali), che avrebbe imposto pesantissimi sovracosti alle nostre imprese. Altri esempi potrebbero esser fatti, come quello dell’azione antitrust europea, che ha inseguito per decenni disegni indubbiamente raffinati dal punto di vista delle teorie economiche, ma che purtroppo hanno condannato al “nanismo” le imprese europee in grado di crescere ai massimi livelli, impedito o amputato le concentrazioni che sarebbero servite e paralizzato progetti di sviluppo possibili con una rigida applicazione del divieto degli aiuti di Stato. Oggi ci lamentiamo dell’altrui dominio tecnologico e del nostro deficit di innovazione, ma dovremmo ricordarci che 20-30 anni orsono i telefoni mobili erano in prevalenza Nokia o Ericsson e chiederci che cosa sia potuto accadere nel frattempo. Certo, siamo stati i primi a produrre regole sull’Intelligenza Artificiale, ma adesso scopriamo che sarebbe il caso di farcene una nostra di intelligenza artificiale e che quel set di regole rende il nostro ambiente, pensa un po’, poco attrattivo.

Il j’accuse di Draghi merita un’attenzione aggiuntiva perché proviene da un’illustre personalità che nell’Unione europea ebbe un ruolo primario e ci mette davanti a quel che questa Unione europea ha finito per rappresentare: un’enorme impalcatura giuridica, fatta di Carte, regolamenti, direttive, comunicazioni, linee guida e sentenze, di lunghissimo contenuto e di inevitabile impatto sulla vita di imprese e cittadini. Il burocrate europeo, in realtà, non c’è, se per burocrazia intendiamo anche un apparato pubblico in grado di prendere decisioni concrete che soddisfino in via amministrativa i bisogni di cittadini e imprese con l’assunzione di responsabilità politica. Dietro il perfezionismo del Gdpr, la geometria apparentemente perfetta dell’antitrust europeo, la passionale vocazione green e la pianificazione delle gare pubbliche per ogni campo in cui è in gioco l’amministrazione (spiagge incluse, s’intende) si cela un’ambizione nobile: inseguire l’utopia di una società perfetta e con un continuo incremento, ininterrotto, dei diritti individuali dei nuovi cittadini europei. E della scelta amministrativa libera, solo politica, si deve sempre diffidare, in nome della cultura del sospetto, e così meglio la strada della legalità, anche se ingombrante.  L’agenda Lisbona 2000 a questo mirava, in definitiva. 

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Ma una comunità sociale non può essere solo una palestra giuridica e non si può pensare seriamente, ad esempio, di sostituire una politica industriale con una policy antitrust affidata a poteri tecnocratici. E poi sappiamo che questo infinito volume di norme ha generato inevitabili contraddizioni, difetti di coordinamento, incertezza e imprevedibilità, insomma quello che per lo sviluppo dell’impresa è vero e proprio terreno minato.

Non si tratta solo di rilanciare la vecchia preoccupazione circa il deficit democratico dell’Unione europea (diffusa al tempo in cui il ruolo del Parlamento era minore) e neppure di tornare alla frase di Kissinger che si doleva di non trovare il numero di telefono dell’Europa accanto a quello dei leader degli Stati membri continentali, ma di osservare qualcosa d’altro. L’edificio europeo è intrinsecamente giuridico, ragiona giuridicamente, è fatto di regole su regole e di interpretazioni delle regole secondo tecniche che tentano di coordinare le varie tradizioni degli Stati membri e qualsiasi percorso riformatore non potrà che partire da questo dato. È un sistema che non lascia spazio alla politica anche perché l’approccio precettivo è tipico del giuridico, che punta vigorosamente a tutelare diritti e così non lascia spazio alla decisione pragmatica, alla soluzione di compromesso, a quella cosa che nel linguaggio giuridico è invece il “merito” amministrativo: ossia la capacità di chi amministra e deve assumere scelte nel pubblico interesse di muoversi al confine e non “dentro” i vincoli giuridici, secondo valutazioni di opportunità e convenienza per il pubblico bene. O meglio, questa messe di precetti e procedimenti troverà sì un punto finale di sbocco, producendo una “regola del caso concreto”: e questo sarà la voce di un giudice, una Corte europea o nazionale che chiuderà il cerchio tecnocratico e darà la soluzione, pressoché estranea ai fili della politica.

Credo che a questo tipo di dazi interni, insomma si riferisse Draghi nel suo intervento. Il dilemma si traduce allora nel consueto interrogativo: che fare? Questo è un capitolo troppo difficile da esaminare qui. Possiamo solo dire che, intanto, sarebbe un gran passo avanti avere consapevolezza di questo stato di cose, perché altrimenti non sarà mai possibile migliorarle; e constatare che, se le strategie di semplificazione del sistema e di alleggerimento del peso tecnocratico sinora hanno fallito, forse vale la pena di tentarne altre.



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