La rivista il Mulino: Un mese di Trump

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È trascorso un mese dal ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca e non si può dire che in questo lasso di tempo il nuovo presidente abbia oziato. Coloro che pensavano che il suo secondo mandato sarebbe stato simile al primo (annunci roboanti, ma politiche molto più caute) hanno dovuto ricredersi amaramente. Trump sarà un presidente dirompente, a livello sia interno sia internazionale, come è apparso chiaramente dal suo iperattivismo e dalle politiche radicali messe in atto nel primo mese della sua presidenza. 

In un articolo uscito su questa rivista subito dopo la sua elezione, descrivevo una serie di iniziative e misure annunciate dal neopresidente durante la campagna elettorale che avevano il potenziale di minare le basi della democrazia liberale statunitense. Tali iniziative e misure potevano essere raggruppate in sette categorie: 1) la politicizzazione della burocrazia federale; 2) la presa del controllo del sistema giudiziario a tutti i livelli; 3) l’utilizzazione degli apparati di sicurezza, della guardia nazionale ed eventualmente dell’esercito per reprimere i “nemici interni”; 4) la nomina dei posti apicali dell’amministrazione senza approvazione del Senato; 5) il perdono degli assalitori del Capitol Hill il 6 gennaio 2021; 6) l’ulteriore degrado della relazione malsana tra potere esecutivo e poteri economici; e 7) pressioni sui media per ottenere il loro addomesticamento. Che ne è stato di esse nei primi trenta giorni di Trump alla Casa Bianca? Come vedremo, per la gran parte sono in via di attuazione e avanzano a tappe forzate: una pessima notizia per la liberaldemocrazia americana e per il resto delle liberaldemocrazie.

Procedendo nell’ordine sopra indicato, per quel che riguarda la presa di controllo politico della burocrazia, Trump non ha lesinato mezzi e risorse. Innanzitutto ha subito emesso una serie di ordini esecutivi che consentono alla sua amministrazione di licenziare funzionari di carriera non sufficientemente fidati per sostituirli con funzionari nominati politicamente (il cosiddetto Schedule F, ridenominato per l’occasione Schedule Policy/Career). Inoltre, diversi funzionari di livello non-politico sono già stati licenziati e la purga sembra essere solo cominciata. A questo si aggiunge la creazione del Doge (Department of Government Efficiency), che ha il chiaro scopo di ridurre a colpi d’accetta le dimensioni del governo federale, distruggerne l’esprit de corps e dare la falsa impressione al pubblico che il governo federale possa funzionare come un’impresa privata, mentre in realtà diventa un dispensatore di favori a coloro che sono politicamente connessi, con tutti i fenomeni corruttivi che questo comporta. Se poi il livello tecnico passa direttamente sotto controllo politico, la burocrazia non è più in grado di suggerire al secondo le soluzioni più appropriate e questo crea enormi inefficienze nel funzionamento della macchina amministrativa e mina la fiducia nelle istituzioni. Come ha notato Bo Rothstein su “Social Europe”, “la ricerca in questo campo è insolitamente chiara: i Paesi che non hanno un’amministrazione pubblica imparziale, professionalizzata e basata sul merito sono molto più proni alla corruzione e molto meno capaci di aumentare il benessere dei loro cittadini”. Infine, come si è visto in altri Paesi, la weaponization della burocrazia viene quasi sempre utilizzata a scopi elettorali per garantire al partito al governo di restare al potere. E questo renderà le elezioni future meno libere.

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Non vi è stata invece, almeno per il momento, una sistematica presa di controllo del sistema giudiziario a tutti i livelli. Certo, la nuova procuratrice generale, Pam Bondi, è una fedele di Trump e ha già iniziato una purga all’interno del ministero della Giustizia che coinvolge tutti coloro che hanno investigato su Trump e l’assalto al Capitol Hill del 6 gennaio 2021. Tuttavia, una parte del sistema giudiziario ha mantenuto la sua indipendenza e diversi giudici federali sono intervenuti per rallentare o bloccare alcuni ordini esecutivi di dubbia costituzionalità o palesemente incostituzionali emanati dal presidente (dalla negazione dello ius soli previsto dal 13mo emendamento della Costituzione all’accesso da parte del Doge ai dati sensibili del Tesoro americano, ivi compresi i sistemi di pagamento). Se ne potrebbe concludere che nel campo della giustizia il sistema di checks and balances statunitense funzioni ancora. Tuttavia, lo scontro è appena iniziato. Quel che deve preoccupare a questo stadio è la reazione della nuova amministrazione, che ha attaccato pesantemente i giudici che hanno bloccato gli ordini esecutivi. Donald Trump ha accusato i giudici di voler bloccare l’amministrazione nella sua lotta contro la corruzione, minacciandoli velatamente di considerarli complici dei corruttori. Il vicepresidente Vance ha dichiarato che i giudici non possono interferire con le legittime decisioni del potere esecutivo e che tali interferenze sono illegali, mentre il capo del Doge (nonché uomo più ricco al mondo), Elon Musk, ha chiesto l’impeachment dei giudici che hanno ostacolato l’azione del Doge e il licenziamento ogni anno dell’1% dei giudici federali (in palese violazione dell’articolo 3 della Costituzione americana). In tutti e tre i casi siamo in presenza di una strategia volta a intimidire i giudici e a minare, attraverso dichiarazioni fuorvianti, la legittimità del potere giudiziario, con lo scopo di spostare i rapporti di forza in favore dell’esecutivo. 

Anche l’utilizzazione degli apparati di sicurezza, della guardia nazionale ed eventualmente dell’esercito per reprimere i “nemici interni” non si è per il momento concretizzata. Tuttavia, l’amministrazione Trump sta purgando gli apparati della sicurezza nazionale (dall’Fbi alla Nsa al Dipartimento della difesa) di tutti coloro che sono considerati non sufficientemente fedeli alla nuova amministrazione. Chiaramente queste mosse hanno un effetto dimostrativo su coloro che lavorano negli apparati di sicurezza e di difesa. Resta da vedere se questo sia solo l’inizio e se altre azioni contro i “nemici interni” seguiranno (come sembra probabile), o se invece l’effetto dimostrativo verrà considerato sufficiente. 

Il rischio della nomina dei posti apicali dell’amministrazione senza approvazione del Senato, riducendo le prerogative di quest’ultimo, non si è invece materializzato. Diverse nomine erano molto controverse (Matt Gaetz alla Giustizia, Peter Hagseth alla Difesa, Robert Kennedy alla Sanità, Tulsi Gabbard ai servizi segreti, Kash Patel alla direzione dell’Fbi) e c’era la possibilità di defezioni caso per caso da parte di diversi senatori repubblicani. Tuttavia, una volta fatta cadere la nomina più controversa (Matt Gaetz alla Giustizia), la maggioranza repubblicana al Senato si è ricompattata e ha dato il via libera al passaggio delle nomine restanti, rendendo così caduca l’opzione ventilata da Trump di scavalcamento del Senato.

Concedendo il perdono a tutti gli assalitori del Capitol Hill non solamente vengono condonati atti criminali gravissimi, ma si invia anche il chiaro segnale che, in futuro, sarà legittimo opporsi violentemente a un risultato elettorale diverso da quello desiderato

Il perdono di massa degli assalitori del Capitol Hill il 6 gennaio 2021, compresi coloro che hanno compiuto atti violenti contro gli agenti che lo difendevano, rappresenta un grave vulnus per il sistema liberaldemocratico americano. Concedendo il perdono a tutti gli assalitori non solamente vengono condonati atti criminali gravissimi, ma si invia anche il chiaro segnale che, in futuro, sarà legittimo opporsi violentemente a un risultato elettorale diverso da quello desiderato, anche solo sulla base di teorie complottiste prive di riscontro fattuale. Il segnale è ancora più forte se a questo si aggiunge la decisione di sanzionare i funzionari federali che hanno perseguito gli assalitori del Capitol Hill: se si sanziona chi applica la legge, questo significa che gli assalitori erano in realtà dei “patrioti”, che difendevano una giusta causa e che il loro status durante la detenzione era quello di “ostaggi”.  Così facendo, si instaura però un pericoloso precedente, nonché un clima di impunità che rischia di alimentare la violenza politica durante e dopo future campagne elettorali.

Laddove la presidenza Trump già nel primo mese è andata ben oltre le aspettative è stato il degrado della relazione malsana tra potere esecutivo e poteri economici. La nomina di Elon Musk alla testa del Doge, con la possibilità di eliminare, ridurre, trasformare ministeri e organi di supervisione che monitorano e, in alcuni casi, hanno investigazioni aperte con le sue imprese, nonché la possibilità di accedere a dati sensibili e visionare (e cambiare) il sistema di pagamenti di cui le sue imprese sono beneficiarie, presenta un conflitto d’interessi visto raramente in una moderna liberaldemocrazia. Inoltre Musk (con Peter Thiel, J.D. Vance, Mark Zuckerberg ecc.) è uno dei membri di quella tecno-oligarchia economicamente libertaria e politicamente autoritaria che è molto influente nell’entourage di Trump e che ha imposto alcuni dei suoi membri in posizioni chiave all’interno della nuova amministrazione (per esempio David Sachs come “AI e crypto czar”). Che dire poi del penoso (per chi l’osserva dall’esterno) pellegrinaggio dei grandi imprenditori statunitensi (e non solo) a Mar-a-Lago per ingraziarsi, anche attraverso donazioni, il nuovo presidente e abbracciare le sue politiche e la sua ideologia? Siamo dunque in presenza della rapida ascesa di un capitalismo clientelare e – in alcuni settori – monopolistico, che non solo avrà ripercussioni negative sulla crescita di medio-lungo periodo dell’economia, ma che è anche sempre più incompatibile con la liberaldemocrazia, che ha tra le sue prerogative il controllo sugli eccessi del capitalismo e la difesa dei suoi cittadini dalle prevaricazioni del potere economico. 

Siamo in presenza della rapida ascesa di un capitalismo clientelare e – in alcuni settori – monopolistico, che non solo avrà ripercussioni negative sulla crescita di medio-lungo periodo dell’economia, ma che è anche sempre più incompatibile con la liberaldemocrazia

Infine, le pressioni sui media per ottenere il loro addomesticamento sono continuate. Dopo l’elezione di Trump, diversi media hanno deciso di raggiungere accordi per chiudere vertenze giudiziarie con il neoeletto presidente accettando di sborsare cifre ingenti. Trump ha anche fatto cancellare abbonamenti e servizi d’informazione che il governo federale aveva con giornali e altri media (e la prossima mossa, più devastante, potrebbe essere la decisione di eliminare la pubblicità in certi media considerati ostili all’amministrazione). Inoltre, ha ristretto l’accesso dei media tradizionali ai press briefing della Casa Bianca, del Pentagono, del Dipartimento di Stato e di altri dipartimenti del governo federale, introducendo una rotazione dei media tradizionali con social media e bloggers, molti dei quali espressione del mondo Maga e dell’estrema destra. In questo modo l’amministrazione nelle conferenze stampa può ormai contare su dei media molto più benevoli nei suoi confronti, nonché limitare il numero di domande scomode. 

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Dopo un solo mese alla Casa Bianca, Donald Trump e la sua amministrazione hanno dunque picconato violentemente alcuni dei pilastri della liberaldemocrazia americana. Tre delle possibili sette misure illiberali indicate prima del ritorno alla Casa Bianca sono ora in pieno svolgimento – e alcune di esse stanno andando ben al di là di quanto si temeva inizialmente –, mentre altre tre sono in fieri. Solo la nomina dei posti apicali dell’amministrazione senza approvazione del Senato sembra destinata a non materializzarsi. Vi sono dunque buone ragioni per temere un’involuzione degli Stati Uniti verso la forma di una democrazia illiberale. Ciò non significa però che l’edificio della liberaldemocrazia statunitense sia già crollato o sia già sul punto di crollare. Per il momento vi sono ancora sufficienti checks and balances che lo sorreggono. È però anche vero che le cose stanno evolvendo molto rapidamente e non vi sono tante ragioni per essere ottimisti.

Anzi, guardando alle recenti dichiarazioni e interferenze di Trump, Vance e Musk nella politica europea, c’è da temere che le cose non andranno in una buona direzione per la liberaldemocrazia. Come nella fiaba di Lafontaine Il lupo e l’agnello, coloro che hanno negato i risultati indiscutibili di un’elezione e hanno condonato le azioni di coloro che hanno assalito il Congresso, definendoli anzi “patrioti” e “ostaggi”, diventano ora i donneurs de lessons e accusano l’Europa di abbandonare “i suoi valori più fondamentali, valori che sono condivisi con gli Stati Uniti d’America” (J.D. Vance). E questo perché si rifiutano di collaborare con forze estremiste che proprio questi valori vorrebbero affossare. “La raison du plus fort est toujours la meilleure”, scriveva sempre Lafontaine. Tuttavia questa volta non può e non deve essere così, perché ne va della democrazia in Europa. È dunque più che mai necessario che i leader europei, anche se si trovano in una posizione di debolezza, rispondano con estrema fermezza, se vogliono evitare di seguire gli Stati Uniti nella slippery slope che hanno intrapreso.



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