E la divina Oriana passò a fil di penna il mondo dorato dell’alta moda

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Oriana Fallaci: «Eccolo dunque a Montecitorio, marchese. Da sarto (creatore di Alta Moda, pardon) a deputato: il primo sarto deputato della nostra democrazia, ch’io sappia. Non le chiederò come è capitato in questa nuova avventura. Lei è un uomo così avventuroso: di esperienze, in quarantotto anni di vita, ne ha avute parecchie e tutto sommato non le mancava che quella di politico assiso su un seggio. Non le chiederò nemmeno se ciò la trova impreparato, smarrito. A parte la duplice laurea in Scienze politiche, ci è stato già detto che un suo antenato fu consigliere di Lorenzo il Magnifico e che una sua bisnonna era nipote di Caterina di Russia: buon sangue non mente. Le chiederò invece se esser chiamato onorevole le pone qualche problema, la costringe a difendersi. Gli italiani sono talmente maligni: trovan da ridire su tutto, si sa. Quanto ai fiorentini, anche lei è fiorentino e comprende, mi par di sentirli: Come?!? I’ marchese diventa onorevole?!? ‘Un ci mancava che questa!».

Onorevole Emilio Pucci: «A questo sono ormai abituato: succede da che sono al mondo. Quando ero al liceo Galilei e prendevo cinque in latino, quand’ero aviatore e ne combinavo qualcuna: Lei che si chiama come si chiama è più ciuco del figlio del macellaio che non ha i suoi vantaggi… Lei che si chiama come si chiama ha almeno il dovere… E quando mi davan le medaglie sul campo? Si capisce, è il marchese Pucci. Quando mi citavano sui bollettini di guerra per avere affondato… una nave? Si capisce, è il marchese Pucci. Quando conducevo una squadriglia di aerosiluranti all’attacco? Ma se quello non sa nemmeno pilotare l’aereo! Chiamarsi marchese Pucci era già una patente di bonannulla, come si dice a Firenze. Quando fui trasferito in Sardegna, ad esempio, malgrado le medaglie ed il resto, mi assegnarono l’aereo più vecchio e svergato che ci fosse sul campo e un equipaggio senza esperienza: per esser trattato un po’ meglio dovetti fare una bravata inutile: da cinquecento metri di quota mi buttai in picchiata sulla tenda del comandante e la sconquassai tutta. Poi diventai sarto: crede che mi incoraggiassero? Macché. Gli stessi colleghi mi guardavano con diffidenza, commiserazione, se addirittura non urlavano va’ a nasconderti, caro, questo è un mestiere troppo difficile per un disgraziato di nobile come te. Insomma, siccome mi chiamavo così dovevo essere bravo a scuola, siccome mi chiamavo così dovevo essere bravo in guerra, e questo rinfacciarmi di chiamarmi così e dover essere bravo per forza mi ha sempre ossessionato: insieme alla consapevolezza che proprio perché mi chiamavo così non potevo essere all’altezza degli altri. Non c’è via di scampo: qualsiasi cosa faccia, io sarò sempre guardato con diffidenza o sfiducia: benevolenza non me ne aspetto davvero e, ora che sono in Parlamento, me l’aspetto meno che mai. A tal punto che, se i miei nuovi colleghi si attendessero cose grandi da me, ne sarei terrorizzato. Meglio così, meglio che mi considerino un bonannulla: il marchese Pucci bonannulla».

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OF: «Via, non si lamenti, ché non le dispiace avere un bel nome. Se le dispiacesse, se le pesasse, proibirebbe di farsi chiamare marchese. Conosco tanta gente che va in bestia a sentirsi chiamare col titolo e lo nasconde con vergogna, imbarazzo».

EP: «Io credo fermamente nella selezione. La selezione avviene nei cavalli, nei fiori, nei cani, s’intende cavalli da corsa, fiori di serra, cani da caccia, e di conseguenza negli uomini. Chi proviene da una famiglia che bene o male è sopravvissuta per un migliaio di anni in una città come Firenze, tra intrighi, congiure, deve avere doti più forti di un altro: per esempio, doti di resistenza morale. Esiste, è indubbio, un privilegio genetico: Ribot è diverso da un ciuchino».

OF: «Mah! Veramente io conosco certi ciuchini col titolo che, al confronto, i ciuchini veri sembran Ribot. Direi anzi che, di ciuchini, ce n’è più col titolo che senza titolo. Certi ragli, mio Dio!».

EP: «Se tutti i figli di Ribot dovessero arrivare primi, addio corse. Si capisce che a forza di selezionare, qualche raglio vien fuori, ed assorda chi lo sta a sentire. Quel che non si capisce è il risentimento che circonda sempre chi ha un titolo. Io, per esempio, son sempre afflitto dal problema di spiegare agli altri che la ragione di quel risentimento non esiste».

OF: «Si risparmi quella fatica, onorevole. Per me potrebbe essere il figlio di un contadino e sarebbe proprio lo stesso. Io non son mica qui perché lei è un marchese: ci sono perché lei è un grande sarto e non mi pare un ciuchino».

EP: «Certo, uno degli elementi positivi del nostro secolo è che ognuno vien considerato per quello che è, non per quello che furono i suoi padri o i suoi nonni. Non vorrei esser frainteso con la storia dei Ribot. Io non mi sono mai chiesto come sarebbe stato se fossi nato figlio di un contadino: a scuola e altrove ho accettato d’essere preso pel naso perché ero il marchese Pucci e non mi son mai posto quell’altro problema. Però sono un toscano che viene dalla terra e non posso avere una visione classistica dell’umanità. Basta andare in Toscana, notare come un guardacaccia o un mezzadro tratta il padrone, per rendersi conto che da noi non esiste una vera differenza di classe: esiste semmai una differenza di ambiente. Comunque io non sento nemmeno di appartenere a un ambiente piuttosto che a un altro.

Quando studiavo al Reed College di Portland, nell’Oregon, ho avuto la fortuna di vivere due anni in America e lì ho fatto tutti i mestieri. Per cominciare, siccome anche lì ero il marchesino buono a nulla, il lavapiatti. E poi il cameriere, il cuoco…».

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