Le conseguenze della guerra sui bambini palestinesi

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da Il Cairo
Marine Henriot

In una Terra Santa martoriata — segnata da una quotidianità dolorosa e complessa per via della guerra — le scuole cristiane, custodi della convivenza, sono le vittime collaterali. Anche i rappresentanti degli istituti scolastici della Palestina stanno partecipando al convegno delle scuole cristiane del Medio Oriente che si tiene a Il Cairo. «Fa bene sentirsi sostenute, in rete», osserva Samia Alama, insegnante di matematica nella scuola femminile delle suore di San Giuseppe, a Betlemme, esausta ma con una forza mentale incrollabile nel sostenere le sue allieve in questo periodo di guerra.

La guerra scoppiata il 7 ottobre 2023 non ha risparmiato il sistema educativo palestinese. «Ci vuole molta pazienza», spiega suor Silouane, che coordina l’insegnamento del francese nelle 10 scuole latine dei Territori palestinesi. A seconda dei combattimenti o delle incursioni e del numero delle vittime, le scuole in Cisgiordania possono essere chiuse. Inoltre, se durante la notte le forze di occupazione israeliane istituiscono posti di blocco, alcuni studenti non possono più recarsi a scuola: «Un giorno c’è scuola, un giorno no, a volte all’appello mancano gli studenti, altre volte i professori», osserva suor Silouane.

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Alle 65 scuole cristiane dei territori palestinesi sono iscritti 22.000 allievi, di cui 8.000 cristiani. Prima dell’offensiva israeliana, nella striscia di Gaza c’erano quattro scuole cristiane, di cui due del patriarcato latino di Gerusalemme. Quella della Sacra Famiglia è stata parzialmente distrutta durante la guerra, tanti professori e genitori degli studenti sono stati uccisi, «anche alcuni studenti cristiani», dice sospirando la religiosa francese.

Nonostante il cessate il fuoco in vigore dal 15 gennaio, la guerra non è scomparsa dalla quotidianità. Lontano dai radar dei media, le incursioni israeliane e la chiusura di strade in Cisgiordania si sono addirittura moltiplicate. «La guerra non finirà mai, i missili non ci cadono addosso grazie alla Iron dome, ma comunque ci sono i detriti, che sono pericolosi e ci colpiscono, c’è il boato dei missili, ci sono la paura e l’angoscia», racconta suor Silouane.

La guerra ha inevitabili conseguenze sulla salute mentale degli studenti. «Stiamo vivendo una situazione critica per gli allievi e le loro famiglie», spiega Naela Rabah, direttrice della scuola greco-cattolica di Ramallah, un istituto misto del patriarcato melchita di Gerusalemme. «Non si tratta solo di fare lezione, noi cerchiamo di prenderci cura degli studenti anche a livello psicologico». L’immensa stanchezza del vivere quotidiano è palpabile in Naela Rabah: «La depressione non colpisce solo gli studenti e le loro famiglie, ma anche i professori», confessa. Eppure l’energica direttrice non si risparmia per garantire il benessere dei suoi allievi. «Nelle loro menti ci sono così tante contraddizioni. A scuola insegniamo loro a sentirsi ascoltati, a esprimere i propri sentimenti».

Stessa considerazione per le due insegnanti e amiche della scuola delle suore di San Giuseppe a Betlemme: «Le ragazze ci chiedono: “perché imparare quando non c’è futuro?”», dicono, commosse ma battagliere. «Bisogna fare in modo che i bambini abbiano voglia di restare in Palestina», affermano. Perciò Tina Hazboun, docente dell’università di Betlemme, ha creato un programma speciale per le donne nella filiera tecnologica, una garanzia di motivazione e di emancipazione nella loro terra.

Secondo l’Unicef, i bambini scolarizzati in Cisgiordania e a Gerusalemme Est sono 782.000. Ma secondo il ministero dell’Istruzione locale, da ottobre 2023, tra l’8 e il 20% delle scuole del territorio palestinese occupato sono state chiuse. «Lavoriamo molto su come capire gli altri, su come comunicare con le persone che hanno opinioni diverse dalle nostre», spiega Naela Rabah, direttrice dell’istituto di Ramallah che accoglie, come tutte le scuole cristiane, bambini di tutte le confessioni. «In tutto il Medio Oriente, bisogna imparare a praticare la non violenza, cioè come reagire nei conflitti, a non cedere alla rabbia, a trovare soluzioni di pace, a dialogare», aggiunge suor Silouane.

A Betlemme, l’istituto San Giuseppe accoglie 800 allieve, di cui 50% musulmane, e «non c’è nessun problema», spiega semplicemente Samia Alama, «i musulmani sono abituati a parlare con noi». Le scuole non sono “zone protette” e non vengono quindi risparmiate dalle difficoltà economiche generate dalla guerra. Soprattutto a Betlemme, da un giorno all’altro i pellegrini non sono più arrivati, e la maggior parte dei genitori degli alunni lavorava proprio nel settore del turismo o dei pellegrinaggi. Alcuni non riescono più a pagare le rette scolastiche, già ridotte al minimo. Questo clima economico sfavorevole grava sul morale delle persone. I bambini hanno tante aspirazioni, ma «sono realisti, vedono bene che molte porte sono chiuse», osserva rattristata suor Silouane.



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