L’ombra del conflitto nella Rd Congo ha aleggiato nei giorni del voto, vinto dal ministro degli esteri di Gibuti Mahmoud Ali Youssouf. Battuto il candidato favorito, il keniota Raila Odinga. L’Algeria si porta a casa la vicepresidenza ai danni del Marocco
17 Febbraio 2025
Articolo di Roberto Valussi
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Il neo-eletto presidente della Commissione dell’Unione Africana, Ali Mahamoud Youssouf – Credit: UN Photo/Loey Felipe
La fumata bianca è arrivata sabato scorso, alla settima votazione. Ali Mahamoud Youssouf, 60 anni, di cui gli ultimi 20 spesi come Ministro degli esteri di Gibuti, è stato eletto nuovo presidente della Commissione dell’Unione Africana (UA).
Rimpiazza il ciadiano Moussa Faki Mahamat, dopo due mandati alla testa dell’organizzazione.
Youssouf ha avuto la meglio su due avversari: Raila Odinga, ex-Primo ministro e figura centrale della politica keniana; e Richard Randriamandratoil, ex-ministro degli esteri del Madagascar.
Il Kenya a bocca asciutta
Il favorito era Odinga, che godeva dell’appoggio della Organizzazione dell’Africa dell’Est (EAC). Era anche l’unico dei tre candidati con alle spalle un gigante regionale come lo stato keniano.
Ma dopo essere stato in vantaggio nei primi due turni, dal terzo in poi, è stato sempre sotto a Youssouf.
A spostare l’ago della bilancia sarebbero stati almeno un paio di fattori. Il primo: l’età di Odinga, che a gennaio ha festeggiato 80 anni. Il continente africano non disdegna affatto leader ultra-ottantenni (vedi Paul Biya in Camerun o Alassane Ouattara in Costa d’Avorio); tuttavia l’età avanzata è stata vista come un handicap.
Il secondo fattore sarebbe imputabile non tanto ad Odinga, quanto alle posizioni del governo keniano. Nairobi appoggia nettamente sia Israele nel conflitto a Gaza, sia il Rwanda (abbigliata da M23) nell’invasione della Rd Congo. Sono posizioni sgradite a molti stati nel continente.
A partire dal Sudafrica, il paese più attivo nel supporto alla causa palestinese. Secondo quanto riportato da Jeune Afrique, Pretoria sarebbe riuscita far convergere i voti su Youssouf, da parte di vari paesi della Comunità di sviluppo dell’Africa australe (SADC).
Le stesse fonti parlano di una pressione più indiretta da parte della Rd Congo. Kinshasa non avrebbe esplicitamente fatto leva sulla denuncia del comportamento rwandese. Si sarebbe limitata a ricordare ai paesi membri dell’Organizzazione Internazionale della francofonia (OIF) – di cui fa parte – a votare per un paese francofono come Gibuti (francese e arabo sono le sue lingue ufficiali).
A tutto ciò va aggiunto il supporto per Youssouf venuto da stati membri di organizzazioni arabofone, come l’Organizzazione della cooperazione islamica (OCI) e della Lega Araba.
L’elefante rwandese nella stanza
La crisi nel nord-est della Rd Congo è stato l’aspetto più delicato da gestire. In contemporanea ai giorni del voto, dal 14 al 16 febbraio, si è riunito il Consiglio delle Pace e Sicurezza (CPS), l’organo della UA per la risoluzione dei conflitti tra paesi membri.
Paul Kagame e il suo omologo congolese Felix Tshisekedi erano entrambi attesi. Si è presentato solo il primo, ribadendo l’estraneità del suo paese nell’operato delle truppe del M23. Il secondo ha inviato il primo ministro al suo posto, motivando il cambio di programma con il doversi occuparsi dell’aggravarsi della crisi (nel fine settimana l’M23 ha preso la città di Bakavu, nel Sud Kivu).
Nel corso delle sedute, il Sudafrica ha denunciato apertamente il ruolo del Rwanda nel conflitto in corso.
La posizione di sintesi del CPS, espressa alla conferenza stampa di domenica 16 febbraio, è stata prevedibilmente vaga. Si invocava il ritiro del M23 e di tutte le sue forze d’appoggio dalla Rd Congo. Nessuna menzione del Rwanda.
Nuovo match Algeria-Marocco sulla vicepresidenza
La nomina a Vicepresidente ha offerto un altro siparietto rappresentativo delle linee di frattura interne. A contendersi la posizione si sono ritrovate le rappresentanti di Algeria e Marocco. Scintille assicurate tra due potenze regionali da decenni in disputa sullo status del Sahara Occidentale.
Quest’ultimo è considerato da Algeri e dall’Unione Africana come uno stato indipendente.
Di tutt’altro avviso Rabat, che lo vede come un suo territorio. E che ha fatto di tale convinzione una direttrice della sua politica estera. Al punto che nel 1984, è uscita dall’Organizzazione dell’Unità Africana (antenata della UA), rea ai suoi occhi di riconoscere una statualità al popolo saharawi. Il rientro è avvenuto solo nel 2017.
Da allora non ha ancora ottenuto posti di rilievo al suo interno; con questa vicepresidenza si voleva offrire una prima volta. Per farlo, ha puntato su Latifa Akharbach, Vice-ministra degli affari esteri ed ex-capa dell’Alta autorità della comunicazione audiovisiva (HACA) del Marocco.
Alla fine l’ha spuntata la candidata algerina, Selma Malika Haddadi. Non sono trapelati retroscena sulla sua vittoria. Di certo, Haddadi vantava un profilo più aderente al ruolo: è ambasciatrice in Etiopia e rappresentante permanente all’Unione Africana.
Tante sfide e meno soldi in vista
Youssouf eredità un’Unione Africana divisa su dossier pesanti. Ai già citati Gaza e Rd Congo, si aggiungono anche il Sudan in guerra e il rapporto nel Sahel con le giunte militari di AES. Tutti fronti in cui, in questi anni, la capacità di mediazione della UA è apparsa più evanescente che mai.
La sua debolezza è strutturale. Sin dal 2002, data di nascita della sua attuale incarnazione, sconta il limite di un parlamento interno privo di poteri vincolanti per i suoi 55 stati membri.
In più, da qualche settimana deve fare i conti con l’eventualità di pesanti tagli di budget. La nuova amministrazione Trump sembra pronta ad andare avanti con la linea di riduzione degli aiuti allo sviluppo.
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