È auspicabile che i leader europei abbandonino in fretta lo sconcerto indispettito per le durissime parole del vice-presidente Vance, e prendano finalmente coscienza che il mondo – anche il loro – è cambiato. E che la sacrosanta battaglia per la difesa dei nostri valori non si combatte con le parole, e tanto meno con le armi degli altri. Ancor più quando i mutamenti che stanno ridisegnando gli equilibri geopolitici multipolari vedono l’Europa ai margini, e gli Stati Uniti all’offensiva. Su almeno tre fronti che sono – e resteranno a lungo – quelli dove si sta giocando il futuro del pianeta.
Il primo fronte è strettamente politico, riguarda il trend – ormai più che ventennale – della personalizzazione del comando. Chiunque abbia voluto aprire gli occhi sa bene quanto sia forte la spinta autocratica nello scenario politico globale. È l’argomento di decine di libri, dibattiti e convegni e – da ultimo – il tema del prossimo congresso mondiale degli scienziati politici, che si terrà a luglio a Seoul: «Resisting autocratization in polarized societies». Programmato più di due anni fa, si svolgerà nel paese che sembrava un baluardo della democrazia in Asia, e che oggi, invece, sta cercando di riprendersi da un recente tentativo di colpo di stato. Mai previsione politologica più azzeccata.
L’America di Trump non ha fatto altro che adeguarsi alla spinta che concentra il potere in un capo forte. Che si tratti di regimi autoritari – come la Cina e la Russia – o di democrazie in cui la crescente polarizzazione sociale fa emergere i leader capaci di conquistarsi il consenso delle masse con una comunicazione aggressiva. Chiamatelo, se volete, pure populismo. Ma quando il populismo spalanca le porte dello studio ovale, significa che il potere esecutivo ha preso il sopravvento sul giudiziario e sul parlamento. Con buona pace dei check and balances che sono stati per due secoli il sale della democrazia americana.
Lo tsunami costituzionale
Di fronte a questo tsunami costituzionale i leader europei sono rimasti prigionieri del proprio immobilismo. Stanno ancora sfogliando le loro margherite su quanti spiccioli mettere in più nella borsetta del bilancio comune, e se provare a far passare la norma per prendere decisioni a maggioranza. Il tutto con ventisette stati che tirano chi di là e chi di qua, mentre gli Usa di Trump vanno avanti con decreti esecutivi a raffica. È sperabile che la requisitoria di Vance sia servita almeno a dare una sveglia. E che nell’incontro convocato per oggi all’Eliseo non ci si limiti alle lamentele, ma venga fuori una risposta operativa. Diventi finalmente adulta.
Non sarà facile. Al di là di una macchina decisionale litigiosa e farraginosa, l’Europa, infatti, è ostacolata da un altro handicap non meno importante: l’impressionante ritardo nella corsa alla intelligenza artificiale, la chiave del dominio globale. I giornali hanno plaudito alla notizia che, nel recente vertice sul tema, i governi dell’Unione avrebbero convenuto di investire un po’ di miliardi. Ma le cifre di cui si è parlato sono ridicole di fronte a quelle stanziate da americani e cinesi. E, soprattutto, non è stato sciolto il nodo che sta venendo a galla in questi giorni. Gli Usa non sono disposti a sottostare alla kafkiana ragnatela di norme con cui l’Unione taglieggia le grandi e piccole multinazionali che sono all’avanguardia del settore. Ai vertici dell’Unione prevale la convinzione che – per sopperire ai ritardi nella competizione alla innovazione – lo strumento migliore è propinare multe gigantesche a tutto spiano. Peccato che i colossi Ict Usa si siano stancati di pagarle, e che Trump se ne sia fatto portavoce. Chi non l’ha ancora capito si ripassi il suo teleintervento al World Economic Forum di Davos.
Col che veniamo al terzo fronte della discordia, quello bellico. Qui, la partita è solo agli inizi. Ed è probabile che le prossime mosse riequilibreranno almeno un po’ la mano spericolata di apertura con cui Trump sembra avere ribaltato le alleanze in campo fino a ieri. Anche qui, però, un bagno di realismo aiuterebbe i leader europei a ricordare che con le spalle al muro un po’ ci si sono messi loro stessi. Saranno gli storici a spiegare in che misura la guerra maledetta che sta falcidiando ucraini e russi sia nata dal delirio di potenza di un capo dall’ambizione smisurata; o quanto anche abbia contribuito la spinta incalzante degli Usa a fare entrare l’Ucraina nella Nato, costruendo una trappola in cui Putin si è improvvidamente infilato. Resta comunque il fatto che questa guerra ha rappresentato per l’Europa una disfatta strategica di portata ancora incalcolabile. Costringendola a recidere la tela di rapporti – commerciali, energetici, economici – che per vent’anni aveva tessuto con l’ingombrante inquilino che corre lungo gran parte delle nostre frontiere. Finendo col ritrovarsi in una condizione di totale dipendenza dagli Usa. Che oggi vogliono passare all’incasso.
Certo, non sarà facile fare i conti senza gli Ucraini, che dispongono oggi di un esercito molto bene armato e motivato. Agli Usa, sulla carta, conviene assestare un colpo all’Europa, cui sembrerebbe preludere il durissimo linguaggio di Vance a Monaco. E, al tempo stesso, cercare di sganciare la Russia dal suo asse di ferro con la Cina, che resta il principale e più insidioso competitor degli americani. Ma si tratta, per il momento, ancora di una partita a tavolino. Se l’Unione si dà una sveglia, le restano molte carte da giocare.
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