Creare gli imprenditori europei di domani. Università, Open Innovation e Corporate Venture Capital

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L’Europa, consapevole del divario con Stati Uniti e Cina in termini di innovazione e crescita imprenditoriale, sta cercando di costruire un ecosistema più dinamico e favorevole alle startup. Tuttavia, persistono ostacoli significativi: frammentazione (non solo) normativa, difficoltà di accesso ai capitali e una cultura imprenditoriale purtroppo ancora poco diffusa.

L’educazione e la formazione giocano quindi un ruolo cruciale in questo scenario. Non basta fornire strumenti tecnici per avviare un’impresa: è necessario sviluppare un mindset imprenditoriale, capace di gestire il rischio, affrontare l’incertezza e creare valore. Secondo l’OCSE, le competenze imprenditoriali sono ormai centrali, non solo per chi vuole fondare un’azienda, ma per qualsiasi professionista che operi in ambienti complessi e in continua evoluzione.

Di fronte a queste sfide, quali strategie può adottare l’Europa (e l’Italia) per formare gli imprenditori del futuro? E quale ruolo devono assumere le Università per colmare il gap tra formazione accademica e mondo del lavoro? Quale sarà il coinvolgimento delle imprese di qualsiasi dimensione? E quali saranno i passi che dovrà compiere l’intero ecosistema? In questo (lungo) articolo, proviamo a dare un po’ di risposte a queste ampie domande.

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Lo scenario europeo: strategie e prospettive

L’Europa, nel tentativo di colmare il gap con Stati Uniti e Cina, sta provando a delineare un ecosistema favorevole all’innovazione, attraverso strategie mirate e investimenti significativi, anche se secondo diversi report autorevoli internazionali (come il The Future of Growth Report 2024 del World Economic Forum, il World Competitiveness Yearbook 2023 dell’IMD Business School, e il Global Innovation Index 2023 del WIPO) c’è ancora un divario competitivo considerevole nell’ambito dell’innovazione e dello sviluppo di nuove imprese europee.

Ovviamente, i principali ostacoli includono la frammentazione (in primis normativa, ma non solo) e la difficoltà di accesso ai finanziamenti. Nel mondo del lavoro sempre più dinamico e competitivo, caratterizzato da una trasformazione digitale senza precedenti, le competenze richieste ai professionisti stanno evolvendo rapidamente.

Tuttavia, il 2025 si prospetta come un anno cruciale per l’imprenditorialità in Europa. La Commissione Europea ha istituito un gruppo di progetto dedicato alle startup e scaleup con l’obiettivo di creare un ecosistema imprenditoriale più competitivo. Iniziative strategiche come lo Startup Europe mirano a connettere startup, investitori e acceleratori per favorire la crescita e la scalabilità. Altre misure chiave europee includono:

  • EU Startup Nation Standard (SNS): mobilita gli Stati membri per adottare pratiche innovative a sostegno delle startup.
  • Europe Startup Nations Alliance (ESNA): supporta i decisori politici nell’implementazione delle migliori pratiche per la crescita imprenditoriale.
  • Innovation Radar e Dealflow.eu: strumenti che identificano e promuovono le startup ad alto potenziale finanziate dall’UE.
  • StepUp Startups: un progetto che produrrà rapporti annuali per fornire raccomandazioni strategiche sulle sfide affrontate dalle startup.
  • EU Inc.: una petizione, stavolta partita direttamente dagli attori europei dell’ecosistema, che punta a creare una legal entity europea, una sorta di Srl di livello comunitario, in scia con quanto emerso anche nel rapporto di Letta e in quello di Draghi.

    Tutto questo si aggiunge all’ultimo annuncio fatto direttamente da Ursula von der Leyen, con l’intenzione di investire 200 miliardi di euro nell’Intelligenza Artificiale attraverso l’iniziativa InvestAI, che comprende un nuovo fondo di 20 miliardi di euro per gigafactory AI.

Il contesto italiano: opportunità e sfide

In Italia, la Legge Centemero entrata in vigore nel novembre 2024, introduce agevolazioni fiscali significative, tra cui la detrazione IRPEF del 65% per chi investe in startup e PMI innovative e un credito d’imposta per incubatori e acceleratori certificati.

Secondo il Rapporto GEM Italia 2023-2024, il Total Early Stage Entrepreneurial Activity (TEA) è aumentato dal 2% nel 2020 all’8% nel 2023, indicando una crescente propensione all’imprenditorialità post-pandemia. Mentre sempre secondo il rapporto GEM, l’Italia si colloca ancora al 36° posto su 46 economie per tasso di nuova imprenditorialità, evidenziando la necessità di un cambiamento profondo nel paradigma educativo e culturale del nostro Paese.

L’educazione imprenditoriale è ancora valutata come insufficiente anche dalla maggior parte degli esperti nazionali, sottolineando la necessità di migliorare i programmi formativi per supportare efficacemente gli imprenditori emergenti. O ancora, il rapporto Education at a Glance 2024 dell’OCSE evidenzia persistenti disuguaglianze nei sistemi educativi globali, sottolineando l’importanza di investire in un’educazione più equa e accessibile.

Il ruolo dell’accademia nell’imprenditorialità

L’Università non è solo un luogo di formazione, ma un catalizzatore per lo sviluppo di nuovi imprenditori. Per approfondire questo aspetto, ho avuto l’opportunità di parlare con diversi docenti italiani (in un confronto molto ampio, che per esigenze di spazio non ho potuto purtroppo riportare integralmente), che mi hanno condiviso anche esperienze dirette su come il mondo accademico stia già evolvendo per colmare il divario tra formazione e mercato del lavoro, in primis partendo dallo scenario italiano.

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C’è ad esempio il Laboratorio per l’Imprenditorialità, – promosso da Invitalia in collaborazione con AIDEA (Accademia Italiana di Economia Aziendale) – rivolto a tutte le studentesse e gli studenti delle Università italiane, il cui principale obiettivo è quello di lanciare una sfida diretta a mettere in gioco le potenzialità e le capacità dei partecipanti nella creazione e nella valorizzazione di una propria idea d’impresa, che potrà essere coniugata con le possibilità di finanziamento per la creazione di nuove imprese.

L’AIDEA è un prestigioso network che riunisce circa 2000 professori attivi nella quasi totalità degli Atenei italiani. Fin dalla sua fondazione nel 1813, si impegna a promuovere il progresso e la diffusione degli studi economico-aziendali, con la forte convinzione che, anche grazie alle nuove generazioni, sia possibile contribuire alla costruzione di un’economia e di una società più eque, sostenibili e inclusive. In questo contesto, AIDEA svolge un ruolo chiave nella sensibilizzazione degli studenti universitari sui temi dell’autoimprenditorialità e sulle opportunità di finanziamento per la creazione di nuove imprese nell’era della digital economy.

Gennaro Iasevoli, Presidente dell’Accademia Italiana Economia Aziendale (AIDEA), nonché Professore Ordinario di Management e Marketing e Prorettore alla Ricerca e all’Innovazione dell’Università LUMSA di Roma, a tal proposito ha dichiarato:

“L’Italia è una delle economie avanzate con il più alto tasso di densità imprenditoriale al mondo, soprattutto nel segmento delle micro-imprese. Tuttavia, mentre vi sono paesi che stanno investendo sulla creazione di una cultura d’impresa soprattutto tra i giovani, scopriamo che l’Italia è purtroppo in ritardo. Il potenziale espresso dalla vivacità e dalla creatività dei nostri giovani studenti è infinito, ma è anche compito di AIDEA sostenere la gioia della creatività, della possibilità di poter realizzare le proprie idee, valorizzando al massimo le persone e i loro talenti. E tutti i nostri professori concordano su un punto: l’università rappresenta la principale forza propulsiva per attivare questi fattori.”

Marco Ferretti, Professore Ordinario di Imprenditorialità e Innovazione all’Università degli Studi di Napoli ’Parthenope’​ ha puntualizzato:

“Partirei dicendo che educazione all’imprenditorialità non è implicitamente collegata all’obiettivo di creare nuove imprese, piuttosto punta a dotare i giovani di strumenti, capacità e visione interdisciplinare, che li rendano più competitivi nel mondo del lavoro in quanto capaci di portare un nuovo approccio – quello imprenditoriale appunto – nei contesti in cui si andranno a collocare.

Le Università dovrebbero introdurre nei corsi di laurea specialistica – alcune lo stanno già facendo – corsi di imprenditorialità interfacoltà (accessibili da studenti appartenenti a corsi di laurea differenti) in modo che studenti provenienti da percorsi differenti possano lavorare a progetti avvalendosi di compagni di studio che hanno competenze disciplinari eterogenee.

Università Parthenope, ad esempio, e per prima in Italia, ha lanciato il Master in Entrepreneurship and Innovation in collaborazione con il Massachusetts Institute of Technology. Il progetto di formazione prevede che gli studenti italiani lavorino a progetti di impresa e spendendo un periodo di formazione presso il MIT di Boston.”

Diego Matricano, Professore Associato di Imprenditorialità e Innovazione all’Università degli Studi della Campania ’Luigi Vanvitelli’, e già autore del libro “Interdisciplinarity in Enterpreneurship. Investigating issues and debates with new lenses” edito Palgrave Macmillan, ha ricordato:

“Ripensando alla rapida, ma significativa, evoluzione dell’educazione imprenditoriale appare evidente che il fenomeno ha sempre affrontato significative sfide. Nel contesto attuale, però, c’è una sfida che sembra essere di particolare rilievo: mantenere l’educazione imprenditoriale al passo con i tempi e con i cambiamenti che ne derivano.

La globalizzazione e lo sconfinamento verso altri ambiti del sapere contribuiscono a rafforzare l’educazione imprenditoriale (identificando nuovi aspetti, rivelando alternative utili e aprendo nuove strade), ma la rendono più difficile visto che nuove variabili, spesso aleatorie e difficili da valutare, entrano in gioco.

Se è vero che l’interdisciplinarità e la globalizzazione hanno arricchito e complicato l’educazione imprenditoriale, è anche vero che il focus di questo fenomeno rimane sempre lo stesso. Non si deve mai dimenticare che gli imprenditori si differenziano dagli altri agenti economici e dai non imprenditori per le loro soft skills, tra tutte è opportuno citare in primis la propensione al rischio.

Nel passaggio da un apprendimento informale e basato sull’esperienza pratica diretta ad un apprendimento formale, fino ad arrivare ad un apprendimento globale e interdisciplinare, non ci si deve dimenticare che l’educazione imprenditoriale deve riguardare principalmente le soft skills che fanno la differenza durante i processi imprenditoriali.’

Fabio Antoldi, Professore Ordinario di Strategia aziendale e di Imprenditorialità presso Università Cattolica del Sacro Cuore ha confermato:

“A me piace una definizione che ha sempre dato Jeff Timmons di imprenditorialità, cioè l’imprenditorialità è creare e costruire qualcosa di valore partendo praticamente dal nulla. Ovvero è il processo di creare o cogliere un’opportunità e perseguirla indipendentemente dalle risorse che abbiamo davvero. Ora è chiaro che con questo modo di interpretare l’imprenditorialità che va ben oltre la costituzione di nuove imprese.

È qualcosa su cui non solo le università devono lavorare ma che deve pervadere in qualche modo tutti i percorsi educativi dell’istruzione. Faccio un esempio, in Danimarca già da 20 anni esiste una fondazione guidata dal governo danese che ha dei programmi di educazione all’imprenditorialità fin dalla scuola primaria.

Come CERSI, il centro di ricerca per lo sviluppo imprenditoriale che io dirigo in Università Cattolica, abbiamo ormai da una decina d’anni esperienza di formazione all’imprenditorialità nelle scuole superiori. Come Università Cattolica, stiamo introducendo dei corsi di entrepreneurship, a patto che non siano dei corsi su come si fa il (solo) business plan.

Primo perché le imprese soprattutto quelle innovative, fanno sempre meno il business plan, cioè ne ritardano sempre di più la stesura, e comunque non lo fanno più con le logiche da manuali di pianificazione strategica.

Ma soprattutto perché corsi che vogliono fare imprenditorialità, cioè fare addestrare imprenditori e non insegnare l’imprenditorialità, devono essere corsi universitari con non più di 100 studenti in aula, e questo già è una limitazione per l’università italiana.”

Enrico Bonetti, Professore Ordinario di Marketing all’Università degli Studi della Campania ’Luigi Vanvitelli’ ha aggiunto:

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“Così come l’università forma figure manageriali, può formare anche figure imprenditoriali. Per farlo, è necessario un mix di metodo e competenze tecniche, che le università e le facoltà economiche già offrono.

Tuttavia, soprattutto per le figure imprenditoriali, è fondamentale lavorare anche sulle soft skills, spesso trascurate o relegate in secondo piano e non ancora ben integrate nei piani. Creatività, lavoro di squadra e public speaking sono solo alcuni degli elementi essenziali per la creazione d’impresa, ma non sempre adeguatamente valorizzati.”

Marco Romano, Professore Ordinario di Management all’Università di Catania (insieme con i colleghi Melita Nicotra, Alessia Munnia e Francesco Russo) ha poi specificato:

“In un nostro recente articolo (NdR: accademico) abbiamo messo in evidenza l’evoluzione dell’educazione imprenditoriale, nel suo passaggio dal “teaching knowledge” al “teaching skills” ed infine al “teaching attitude”. “Teaching knowledge” fa riferimento a una pura trasmissione di conoscenze sull’avvio e la gestione di una impresa, facili da trasferire e da valutare.

Col “Teaching skills” il focus si sposta sulle competenze che un potenziale imprenditore deve acquisire, come la capacità di analizzare il mercato, di determinare i prezzi, di gestire le risorse a disposizione, di definire degli efficaci KPI. Ma l’educazione all’imprenditorialità è di più: significa insegnare “l’attitude”, stimolando lo sviluppo di un mindset imprenditoriale, inteso come inclinazione a scoprire, valutare e sfruttare le opportunità, a mitigare i rischi, ad apprendere dal fallimento, ad essere resilienti.

Questo tipo di insegnamento induce l’individuo ad adottare un comportamento imprenditoriale in tutte le sue attività. La tecnologia oggi aiuta a supportare questi “metodi attivi”. All’interno del progetto GRINS, finanziato dal PNRR, abbiamo negli ultimi mesi realizzato un Centro Phygital, che unisce la realtà fisica tradizionale e quella digitale, creando un contesto di apprendimento innovativo, che stimola le idee, la motivazione, l’attitudine.”

Lara Penco, Professoressa Ordinaria di Economia e Gestione delle Imprese dell’Università degli Studi di Genova ha concluso:

“Il modo più “naturale” per stimolare le competenze imprenditoriali è comunque quello di avvicinare gli studenti alle aziende: nelle aule universitarie attraverso seminari e testimonianze, interviste agli imprenditori/manager; al di fuori attraverso stage e tirocini. Il progetto mentoring, per esempio, promosso da Confindustria Genova in partnership con il Dipartimento di Economia, permette agli studenti di capire e sperimentare la vita in azienda a contatto con l’imprenditore e con il manager trasformando le competenze acquisite attraverso appunti e libri in un’esperienza formativa coinvolgente e applicata.

La creatività viene stimolata attraverso l’applicazione di strumenti quali il business model innovation, il design thinking, le simulazioni di scenari diversi, ecc. ecc. Questo dovrebbe poi portare alla stesura di un vero e proprio business plan (fondamentale competenza da insegnare nel corsi universitari) che consenta di verificare la fattibilità economico-finanziaria del progetto.

La possibilità di fare interagire i ragazzi con competizioni promosse da società scientifiche (si pensi al Make IT a Case della Società Italiana di Management) o da altri soggetti (per es. il Think Thank di GDO WEEK) sollecita ulteriormente l’apprendimento e stimola il confronto.”

La realtà, tuttavia, resta complessa. La cultura imprenditoriale italiana continua a scontrarsi con barriere burocratiche e un accesso limitato ai capitali di rischio, ostacolando il pieno sviluppo del potenziale delle nuove imprese.

Formazione e cambiamento culturale




Nicola Cucari
Ricercatore presso Sapienza Roma




Un ecosistema imprenditoriale dinamico richiede un nuovo approccio alla formazione, capace di superare i modelli tradizionali e di integrare competenze trasversali nel percorso educativo. Nicola Cucari, Ricercatore e Titolare di Startup e Creazione di Impresa presso il Dipartimento di Management della Sapienza Università di Roma, e recentemente inserito nella lista dei ricercatori più citati al mondo secondo la Stanford University, ha dichiarato:

“L’educazione all’imprenditorialità è un elemento chiave per la formazione delle nuove generazioni e, a mio avviso, può essere affrontata con tre approcci fondamentali: teorico, pratico ed esperienziale. Il primo approccio si focalizza sulla comprensione generale del fenomeno imprenditoriale, fornendo un quadro teorico utile ma spesso insufficiente per sviluppare una reale mentalità imprenditoriale.

Il secondo metodo si concentra sull’acquisizione di competenze operative come business plan, gestione finanziaria e strategie di marketing, strumenti essenziali per avviare e gestire un’impresa. Tuttavia, il terzo approccio, il più immersivo, è quello che reputo più efficace: permette agli studenti di partecipare attivamente a progetti reali, sviluppando competenze come problem solving, lavoro di squadra e resilienza. In ambito universitario, ritengo fondamentale l’adozione di un approccio esperienziale che trasformi l’apprendimento in un percorso concreto e applicato.

Per questo motivo, sempre più iniziative si stanno sviluppando per avvicinare gli studenti alla realtà imprenditoriale, attraverso hackathon, laboratori e progetti co-organizzati con attori esterni. Credo fermamente in questa visione e, per contribuire in modo significativo, ho proposto un progetto “diffuso” che ha portato alla realizzazione di un manuale didattico (Essere Startupper, edito da McGraw-Hill e scritto con Michele Franzese, già fondatore della Rome Future Week) che ha visto la collaborazione di 78 esperti tra accademici, startupper e consulenti.

Il manuale non si limita a fornire nozioni teoriche, ma guida i lettori attraverso esperienze e casi reali, offrendo strumenti concreti per affrontare le sfide del mondo startup. Tuttavia se analizziamo i dati del progetto GUESSS (Report 2023), emerge che rimane ancora molto da fare.

Il 56,9% degli studenti universitari non ha mai frequentato un corso di imprenditorialità, un dato in linea con la media internazionale (58,8%). Tra gli studenti di Business ed Economia, il 26,9% ha seguito almeno un corso obbligatorio, mentre tra quelli di Scienze Sociali e Scienze Naturali e Applicate la percentuale si riduce rispettivamente al 15,2% e al 13,4%.

Sul fronte delle prospettive occupazionali, il 66,3% degli studenti prevede di lavorare come dipendente subito dopo la laurea, ma questa percentuale scende al 50,1% cinque anni dopo. Solo il 16,1% dei laureandi vuole avviare un’attività subito dopo la laurea, un dato leggermente inferiore alla media internazionale (18,9%).

Questi dati non fanno che rafforzare la mia convinzione: è essenziale diffondere un’educazione imprenditoriale più orientata alla pratica, affinché gli studenti non solo acquisiscano competenze, ma sviluppino anche il mindset necessario per affrontare con sicurezza le sfide del mercato del lavoro e dell’innovazione.

Personalmente, mi sento profondamente coinvolto in questa missione e continuo a lavorare per promuovere un cambiamento concreto nel modo in cui viene insegnata l’imprenditorialità.

È un tema che ho avuto modo di approfondire anche in un recente TEDx, dove ho ribadito la necessità di reinterpretare l’imprenditorialità come un mindset, un approccio mentale che vada oltre la semplice creazione di impresa. Essere imprenditori significa sviluppare capacità di adattamento, pensiero critico e proattività, elementi fondamentali per affrontare un mondo del lavoro in continua evoluzione e per diventare protagonisti del proprio futuro.”

Verso un ecosistema imprenditoriale resiliente

Il rafforzamento dell’ecosistema imprenditoriale europeo e italiano richiede un impegno congiunto da parte di istituzioni, imprese e mondo accademico. Solo attraverso un’educazione mirata, un quadro normativo semplificato e un maggiore accesso ai capitali sarà possibile trasformare le sfide attuali in opportunità concrete per le generazioni future.

C’è da dire che Cassa Depositi e Prestiti sta svolgendo un ruolo cruciale nel sostegno alle startup e alle PMI innovative. Con un piano industriale ambizioso, CDP Venture Capital gestisce 13 fondi di investimento, con oltre 3,5 miliardi di euro di risorse e un portafoglio di 500 startup. L’obiettivo è portare il volume di investimenti nelle startup italiane a 9 miliardi di euro entro il 2025, quadruplicando il dato del 2022.

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L’adozione di tecnologie avanzate come l’intelligenza artificiale sta già trasformando l’ecosistema delle startup. Un esempio significativo è la collaborazione tra OpenAI e CDP Venture Capital, che hanno firmato un memorandum d’intesa per promuovere l’adozione dell’IA da parte delle startup italiane. Questo accordo prevede investimenti diretti e indiretti in startup che sviluppano prodotti o servizi basati sull’IA, offrendo accesso a tecnologie avanzate e finanziamenti da parte di investitori internazionali.

Inoltre, sempre CDP Venture Capital, ha lanciato un fondo dedicato all’intelligenza artificiale, diretto da Vincenzo Di Nicola (che si era già distinto per capacità e competenza all’INPS), con un impegno di 1 miliardo di euro nei prossimi cinque anni, sempre al fine di sostenere lo sviluppo di soluzioni innovative in questi settori strategici.



Mattia Voltaggio
Mattia Voltaggio
Head of Joule




Mattia Voltaggio, Head of Joule, la Scuola di Eni per l’Impresa e PMO di ROAD – Rome Advanced District in merito allo stato dell’innovazione italiana ha dichiarato:

“Ritengo che la frammentazione sia una tipicità culturale dell’ecosistema italiano che deriva dalla storia del Paese. Probabilmente più che superare la frammentazione – che non riguarda solo il settore dell’innovazione – bisognerebbe provare ad adottare schemi ad “hub & spoke”, dove alcuni grandi cluster strategici guidati a livello nazionale (in primis da CDP Venture Capital) possano essere affiancati da iniziative locali, con l’obiettivo di tenere insieme domanda e offerta di innovazione a prescindere dalla collocazione geografica.

L’attrattività di un ecosistema, soprattutto per gli investitori esteri, riguarda la possibilità di scalare le soluzioni tecnologiche rapidamente e, per farlo, è necessario mettere in filiera tutti gli attori: università, startup, PMI e grandi aziende. Ogni anello di questa catena è essenziale. Se vi sono tutte queste componenti la frammentazione geografica può paradossalmente diventare un valore.

In Eni con Joule abbiamo sviluppato programmi di accelerazione locale che si connettono a doppia presa con le iniziative del Fondo Nazionale Innovazione così da mettere in relazione investimenti e sviluppo del territorio. In questi anni, soprattutto in Italia per le caratteristiche sopra descritte, ci siamo accorti che non si possono escludere dai programmi di open innovation le PMI, che da sole rappresentano il 63% del PIL e il 76% dell’occupazione. Non basta più la relazione tra grande azienda e startup: è necessario coinvolgere nelle sperimentazioni anche i fornitori delle corporate, che sono per la maggior parte dei casi piccole o medie imprese.

Passare da una collaborazione “a due” a una collaborazione “a tre” genera molti più vantaggi: per la startup, perché lo sviluppo delle soluzioni tecnologiche all’interno di una PMI sono molto più rapide; per la grande azienda perché la scalabilità di alcune soluzioni (soprattutto di tipo hardware) è generalmente molto complessa, mentre un binomio startup-PMI assicura non solo alto tasso di innovazione ma anche la capacità di passare in poco tempo dal prototipo al prodotto implementabile in grandi volumi; infine per la PMI che beneficia della collaborazione con la startup innovando la propria offerta tecnologica e de-rischiando una possibile perdita di competitività.”



Alberto Onetti
Alberto Onetti
Chairman di Mind the Bridge Foundation




Alberto Onetti, Chairman di Mind the Bridge Foundation e Professore Ordinario di Economia all’Università degli Studi dell’Insubria ha aggiunto:

“Il quadro delineato vale sia per l’Italia che per L’Europa. Il problema è che il mondo delle startup non è piatto, riecheggiando Friedman. L’innovazione si concentra in una dozzina di hub a livello mondiale (Silicon Valley in primis). Se guardiamo alla Curva del Ciclo di Vita degli Ecosistemi che tracciamo a Mind the Bridge si vede bene come Milano (che è il nostro hub più grande) sia circa a metà, distante quattro livelli dalla cima, e Roma sia due livelli più indietro. Il problema è che i tempi medi di attraversamento di ogni stage sono in media 3 anni.

Quindi è facile calcolare il ritardo, tenendo anche conto che gli ecosistemi che ci precedono non stanno fermi (anzi). Il lato positivo è che alcuni ecosistemi che hanno messo in essere politiche serie e strutturate di supporto alle startup e all’innovazione crescono più rapidamente della media. Penso a New York, Seoul, o Barcellona in Europa. Quindi c’è tanto spazio di intervento, ma il tempo scorre e non sta dalla parte di chi è in ritardo.”







Onetti ha anche affermato che:

“L’Open Innovation da buzzword è diventata una pratica ormai ampiamente diffusa ove i modelli di collaborazione si stanno consolidando e perfezionando. Quello più diffuso è il Venture Client che consente alle aziende di fare onboarding di innovazione testando prima le soluzione proposte dalle startup (attraverso progetti pilota, i POCs) e successivamente implementandole.

Ciò consente alle startup di ricevere validazione industriale, accesso al mercato e revenue, fondamentali per la crescita. Le aziende stanno anche lavorando sul fronte della cultura dell’innovazione (i programmi di intrapreneurship sono sempre più diffusi e stanno diventando fonti interessanti di deal flow).

In Italia in particolare resta un gap sul fronte degli investimenti (poche aziende hanno fondi di Corporate Venture Capital – CVC) – anche perché abbiamo non molte grandi aziende con la dimensione tale da avere un competitve play. Ancora meno sviluppato il fronte delle acquisizioni. Le nostre aziende (qui il tema è europeo) sono infatti poco acquisitive. E se le aziende non comprano, le startup non fanno exit. E se le startup non fanno exit, i fondi rimangono bloccati, trasformandosi così in zoombies. No Exit, No Party, siamo soliti dire.”

L’Europa e l’Italia si trovano di fronte quindi a una sfida cruciale: trasformare la loro cultura imprenditoriale in un motore di crescita e competitività globale, o restare definitivamente indietro. Le iniziative avviate finora rappresentano un passo nella giusta direzione, ma serve un cambio di passo deciso.

Solo attraverso una strategia integrata, che semplifichi il quadro normativo, favorisca l’accesso ai capitali e riformi l’educazione imprenditoriale con un approccio più pratico e interdisciplinare, sarà possibile costruire un ecosistema fertile per le imprese italiane ed europee del futuro.

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Non si tratta solo di sostenere le startup, ma di diffondere una mentalità imprenditoriale in grado di affrontare la complessità, valorizzare il talento e generare innovazione. Il tempo per agire è ora: l’Europa (e l’Italia) non può più permettersi di restare indietro. Investire nelle nuove generazioni significa non solo garantire crescita economica, ma anche plasmare il futuro del nostro Paese e dell’intero continente.



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