Nel deserto del Sahara vive un popolo senza patria, coraggioso e indomito, che da anni si batte per riavere la terra che gli è stata usurpata e preservare la propria storia: è il popolo Saharawi, fuggito dopo l’occupazione da parte del Marocco dell’ex Sahara spagnolo e diviso tra Algeria e Sahara occidentale. Un muro lungo più di 2000 chilometri divide il Paese da nord a sud e separa le famiglie, le persone, alcune delle quali non si vedono da decenni.
A fuggire sono state soprattutto le donne, con i bambini in spalla, lasciando i mariti a combattere al fronte e affrontando da sole un clima e un territorio difficile persino per chi vi è nato. Nelle aeree in cui si sono fermate, nei campi profughi prima, nei villaggi dopo, hanno creato una straordinaria società matriarcale, che conserva la storia del popolo con mille accorgimenti.
Quando era necessario, hanno nascosto, ad esempio, i bambini in buche scavate nella terra del deserto, hanno portato dentro le tende gli anziani e gli animali; in seguito, con gli aiuti dell’Algeria, della Spagna, di Cuba e dell’Onu, hanno realizzato dei villaggi di case basse fatte di sabbia e poco cemento, dove non manca nulla, solo perchè queste donne e i loro figli si accontentano dell’essenziale. Agli occhi di un occidentale hanno pochissimo, manca spesso l’elettricità, eppure non si sentono povere. Anzi, sono riuscite a creare una società egualitaria, cui provvede il Fronte Polisario, nato nel Sahara occidentale per l’affermazione del diritto all’autodeterminazione.
L’incontro con l’associazione Ban Slout Larbi
A darci informazioni di prima mano è stata la torinese Mirca; con alcune amiche, si è aggregata alle attiviste dell’associazione Ban Slout Larbi, che ha sede a Sesto Fiorentino e da circa trenta anni è a sostegno della causa del popolo Saharawi, in una viaggio a La Guera, dove hanno portato fondi, quaderni e penne, medicine. Qui hanno conosciuto una realtà in verità poco nota in Occidente, sorprendente sotto molti punti di vista.
Innanzi tutto, per la presenza di donne fiere e impegnate, che hanno condotto un’opera di alfabetizzazione con pochissimi mezzi a disposizione, ingegnandosi, ad esempio, a scrivere sulla sabbia del deserto. L’obiettivo è portare avanti la memoria del loro popolo. Adesso hanno scuole, un centro per disabili gestito dal dott. “Castro”, ospedali dove si curano anche le vittime delle mine antiuomo e una particolare forma di celiachia, molto diffusa nella regione. Hanno un Museo della resistenza e una casa dei desaparecidos. Hanno un centro per i giovani, la parte prevalente della popolazione.
Le donne governatrici
Su sei province presenti, cinque sono governate da donne. Una donna, Jira Boulahi, è la loro governatrice. Donna è la loro eroina, Sultana Khaya, vittima di violenze e aggressioni per la sua attività. Donne sono presenti nelle diverse commissioni, quelle per l’acqua, l’istruzione, la giustizia, i trasporti, l’educazione alla tolleranza, la promozione di genere. In particolare, l’istruzione fino a 12 anni è gratuita, per le scuole superiori ci si sposta in Algeria e per l’università a Cuba, anche queste gratuite. Una volta istruiti all’estero, i giovani tornano, hanno un solo obiettivo ben fisso anche nel loro slogan: Resist to win. Resistere per vincere.
“Anche le scuole, come le case, sono costruite con sabbia e cemento, decorate come le nostre, piene di bambinə, con il grembiulino rosa e blu: i banchi sono di legno. – ci ha raccontato Mirca – Le maestre sono pagate mediamente, fanno un corso di formazione in Algeria, a volte fanno doppi turni, ma come sempre ci rispondono che lavorano per passione, per il loro popolo. Guardo quelle aule con le lavagne nere, col gesso e i banchi di legno, penso che anch’io ho iniziato a scrivere in un ambiente simile. In fin dei conti, per fare una scuola ci vuole un’ insegnante motivata e una bambina felice d’imparare; le lavagne luminose qui non arriveranno e non credo che se ne sentirà mai il bisogno”.
“Qui fioriscono persone”
I mariti, i fratelli, i padri, i figli di queste donne combattono nella resistenza, oppure sono in carcere perchè dissidenti; se lavorano, costituiscono bassa manovalanza senza alcun diritto. Tocca, quindi, alle mogli, alle sorelle, alle madri, alle figlie difendere con altre armi la dignità del popolo Saharawi.
Non è un caso se su un legno alla sommità della porta azzurra del centro del dott. “Castro”campeggia una scritta: Aqui no crecen plantas ni alboles, pero florecen personas. Qui non crescono né piante né alberi, ma fioriscono le persone.
“Aspettando il ritorno, proprio come i palestinesi, sono passati 50 anni. Le tende sono diventate case di sabbia e cemento e sono nate scuole e ospedali. – aggiunge Mirca – Mi guardo attorno e penso che è tutto un miracolo…. e mi sento tanto onorata per aver avuto la possibilità di essere qui”.
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