In Serbia «il nostro ‘68»

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Il Teatro Nazionale di Belgrado, situato in piazza della Repubblica, il palcoscenico della città, dove un monumento equestre realizzato dallo scultore toscano Enrico Pazzi ricorda Mihailo III Obrenovic, noto come “il liberatore dai turchi”, mercoledì sera era chiuso. Non era mai successo nella sua lunga storia, neanche nel ’99 sotto i bombardamenti della Nato, quando si decise che era meglio regalare i biglietti a 1 dinaro piuttosto che vedere quello spazio abbandonato. «In un momento in cui gli studenti ci ricordano ogni giorno la nostra responsabilità – spiega il sindacato dei ballerini di danza classica – la nostra decisione di sospendere il lavoro rappresenta una chiara posizione di noi ballerini, lavoratori della cultura, sul collasso a lungo termine di tutte le istituzioni, comprese quelle culturali».

LA MAGGIOR PARTE dei teatri istituzionali di Belgrado, quasi tutto il settore teatrale di Novi Sad e i teatri di Sombor e Zrenjanin questa settimana ha accolto l’invito degli studenti a scioperare. Non sono stati gli unici. L’Associazione Scena Culturale Indipendente della Serbia (Nkss), che riunisce più di 100 organizzazioni e collettivi culturali, ha sospeso tutti gli eventi pubblici. «Invitiamo gli artisti ad azioni attive di lotta e di protesta che possano contribuire alla realizzazione delle richieste degli studenti e ai cambiamenti generali della società», racconta Luka Strika, uno dei coordinatori dell’associazione, mentre mi accompagna allo Student Cultural Center, importante spazio della città bianca dedicato all’arte contemporanea, che negli anni Settanta svolse una funzione sociale di avanguardia per la cultura giovanile. Appena due giorni fa è stato occupato dagli studenti. Peccato che ai giornalisti non sia consentito entrare. «Only students», ripetono in coro, con una certa beatitudine.

Qualcosa di sorprendente e assai poco prevedibile sta accadendo in Serbia. A quattro mesi dalla tragedia di Novi Sad, quando il crollo di una tettoia di cemento della stazione ferroviaria causò la morte di quindici persone, va in scena la più grande protesta studentesca che si ricordi in Europa negli ultimi due decenni. Forse anche oltre. Cominciata come una contestazione contro l’ennesimo caso di corruzione governativa, la stazione ferroviaria era stata ristrutturata due volte negli ultimi tre anni, con costi elevatissimi, oltre 60 milioni di euro, si è via via trasformata in qualcosa di più grande, in un diffuso movimento popolare che esprime un’insoddisfazione profonda verso un intero sistema considerato incapace di cambiare. Finora ne hanno fatto le spese il primo ministro, Miloš Vucevic, il sindaco di Novi Sad e altri due ministri, ma questo non ha favorito un allentamento delle tensioni sociali o placato la protesta. Al contrario, ogni giorno che passa il movimento sembra conquistare nuovi tifosi, a volte inaspettati.

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LE SCUOLE, SOPRATTUTTO i licei, seguono l’esempio delle università e stanno iniziando a scioperare, con il supporto non solo degli insegnanti ma anche dei genitori, favorevoli a tenere i figli a casa. I tassisti forniscono passaggi gratis agli studenti e gli agricoltori con i loro trattori fanno da scudo quando si tratta di bloccare ponti o strade, così da evitare potenziali attacchi da parte di qualche simpatizzante governativo. Le richieste continuano a essere le stesse, sin da primo giorno: pubblicazione integrale della documentazione relativa alla ristrutturazione della stazione di Novi Sad, archiviazione delle accuse contro studenti e manifestanti arrestati, incriminazione dei responsabili degli attacchi nei loro confronti e aumento del venti per cento degli stanziamenti per l’istruzione.

«La protesta è politica nei contenuti, ma non nelle richieste», specifica Igor Novakovic, analista di politica internazionale. «Immagino che molti studenti auspichino un cambio di governo ma non è di questo che stiamo parlando. Non credo tra l’altro che ci sia un desiderio cosi forte di tornare a votare. Qui il tema è lo stato di diritto, le riforme e la responsabilità per le persone che sono morte. Per come si sta diffondendo questo movimento l’unico paragone che mi viene in mente è quello con il Sessantotto».

EPPURE, NONOSTANTE gli studenti non abbiano ufficialmente chiesto la testa di Aleksandar Vucic, il presidente serbo, sotto accusa da anni per le sue storture autoritarie – Freedom house nel suo rapporto dello scorso anno ha inserito la Serbia nella categoria dei regimi ibridi potenzialmente liberi -, non si era mai trovato prima in una situazione di tale debolezza. La sensazione è quella di una tempesta che potrebbe presto diventare perfetta.

Una delle caratteristiche che rendono unica la protesta degli studenti, che non coinvolge in nessun modo sindacati o partiti, dei quali non si fidano, sta nelle sue modalità organizzative. Non esistono leader, il portavoce cambia ogni giorno e le decisioni vengono prese durante le assemblee plenarie, a maggioranza, dopo che tutti hanno votato. Ogni facoltà ha una sua plenaria dove, quasi ogni giorno, si stabilisce come e quando organizzare le proteste, e alla fine le decisioni di ogni facoltà vengono portate alla plenaria dell’università di Novi Sad, dove tutto è cominciato. «È straordinario – sostiene Savo Manojlovic, dell’associazione Kreni-Promeni, che si occupa di supportare gli studenti, anche legalmente. «Democrazia diretta nella sua forma più pura. Nessun intermediario, nessuna élite, nessun leader autoproclamato. Ricorda l’agorà ateniese».

DAVANTI AL RETTORATO della facoltà di filosofia di Belgrado, occupata come quasi tutte le università pubbliche della città, tutti i giorni alle 11,52 centinaia di persone rimangono in silenzio in piedi in mezzo alla strada per quindici minuti, in memoria delle vittime. Anche gli autobus che stazionano sulla piazza si fermano in segno di solidarietà. Mentre altri ragazzi poco più avanti lasciano cadere quindici rose bianche nel fiume Sava, che qualcuno nei giorni scorsi ha provato a dipingere di rosso per rappresentare il «sangue sulle mani» delle autorità. Il simbolo della protesta non a caso è l’impronta di una mano rossa insanguinata.

Alla facoltà di Arte Drammatica, che si trova dall’altra parte della Sava, nella nuova Belgrado, quella di urbanizzazione socialisteggiante, a poca distanza si trova la ex sede del partito comunista diventato, per uno di quegli scherzi della storia, un gigantesco shopping center, è in corso un incontro di preparazione della grande adunata che si terrà oggi, dalle nove di mattina a mezzanotte, a Kragujevac, centotrenta chilometri da Belgrado, nel giorno della festa Nazionale Serba.

C’È MOLTA ATTESA per quella che viene annunciata coma la più imponente manifestazione dall’inizio della protesta. La parola d’ordine è sresti, incontrarsi. Molti ragazzi sono partiti da casa propria e sono arrivati ieri sera dopo quattro o cinque giorni di marcia. «Abbiamo scelto di intraprendere un viaggio a piedi, visitando quanti più posti potevamo lungo la strada verso Kragujevac, incontrando i nostri connazionali e invitandoli a unirsi a noi affinché tutte le nostre voci potessero finalmente avere un eco», spiegano gli studenti. «Siamo orgogliosi sia della nostra storia che della nostra gente». Consapevole di ciò Vucic, che negli ultimi tempi ha cercato di mantenere un profilo basso, aveva organizzato un contro raduno a Novi Sad, ma qualche zelante consigliere deve avergli fatto intendere che non era esattamente il luogo più appropriato e cosi ha ripiegato su in una località minore. Che nessuno ricorda.

«Andiamo a Kragujevac ben sapendo che le nostre richieste non sono state soddisfatte, in nessun modo, anche se il Governo afferma il contrario. Ma per noi non è un’opzione cambiarle», spiega in un ottimo italiano Maria che fa parte del media group e gestisce i rapporti con la stampa. «Per questo motivo non accetteremo nessuna forma di dialogo, perché accettando il dialogo saremmo pronti a scendere a compromessi».

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