Mentre l’iniziativa economica del governo Meloni è stata messa nel congelatore per manifesta carenza di visione e carburante politico, si continuano a misurare con il bilancino gli effetti che potrebbero avere i dazi, annunciati ma non ancora noti, dal ricattatore-in-capo alla Casa Bianca Donald Trump. Il tentativo è piuttosto complesso dato che non si può misurare qualcosa che non c’è, ma il dibattito ansiogeno che si sta sviluppando tra le massime cariche al potere, reale o simbolico, è significativo della timorosa ipnosi che ha catturato il paese, e l’Europa tutta.
Nell’interregno tra l’annuncio e la pratica creato da Trump ieri sono spuntate due diverse interpretazioni dei dazi. La prima è stata quella del governatore della Banca d’Italia Fabio Panetta che, al Congresso Assiom Forex a Torino, ha ribadito una precedente valutazione di Via Nazionale sull’impatto dei dazi promessi e li ha quantificati in un 1,5% del Pil mondiale in Meno. Per l’Europa l’impatto sarebbe minore (-0,5%). I paesi più colpiti sarebbero l’Italia e la Germania.
Panetta ha escluso che le guerre commerciali che Trump intende scatenare porteranno all’aumento dell’inflazione. Questo significa che la Bce deve continuare ad abbassare i tassi di interesse per dare respiro sia al potere di acquisto dei salari che alle imprese già colpite dall’aumento dei costi dell’energia. Panetta ha inoltre sostenuto che Trump sta facendo un uso imperiale dei dazi teso a modificare l’assetto dei poteri globali a favore della potenza militare ed economica degli Usa. Ciò però potrebbe creare effetti indesiderati: «Aggravare i dissidi esistenti e aprire nuove fratture». Cioè altre guerre. Quanto alle fusioni bancarie in corso in Italia, anche a causa dell’eccezionale liquidità prodotta dalla stagione degli alti tassi di interesse voluta dalla Bce, il governatore ha risposto polemicamente a chi ha sollecitato una sua reazione: «Non siamo in un talk show. Ne parleremo a tempo debito».
Nel frattempo, l’ex un po’ di tutto Mario Draghi ha pubblicato sul Financial Times un commento con il tono da fustigatore dell’Unione Europea o da profeta dell’ultimo giorno prima dell’Apocalisse. In questo caso i dazi sono stati interpretati diversamente. Le cancellerie europee dovrebbero «dimenticare gli Stati Uniti» e trovare un accordo sulla dismissione delle «tariffe interne» che si sono auto-imposte su quel mercato che hanno chiamato «comune». Nella singolare ricostruzione offerta dall’ex presidente del consiglio e della Bce i dazi consisterebbero nelle «tariffe doganali» infra-europee che per il Fondo Monetario Internazionale sarebbero cresciute dal 1999 a oggi di più del 70% (dal 31% al 55%), mentre quelle tra gli stati membri degli Usa solo del 2% (dal 23% al 25%). Ciò sarebbe dovuto a un eccesso di «regolazione», eredità degli «Stati Nazione», che avrebbero spinto «le imprese a guardare all’estero per sopperire alla mancanza di crescita interna».
Per Draghi più che guardare ai dazi degli Stati Uniti, l’Europa dovrebbe eliminare i lacci e lacciuoli e favorire l’economia dell’offerta. Curiosamente è la stessa ricetta che farebbe comodo agli oligarchi Usa che hanno preso il potere con Trump. Non solo non vogliono che l’Ue faccia alcunché sulla regolazione e sulla tassazione digitale, ma aspirano a inghiottire i capitali invocati da Draghi per sviluppare una Big Tech europea.
La ricostruzione draghiana della crisi europea ha sorvolato sul fatto che essa non è stata creata tanto dalla prevalenza delle barriere commerciali tra gli Stati membri ma dalle politiche recessive di stabilità monetaria, e da quelle di austerità, che hanno devastato i salari, distrutto la politica interna e favorito un’economia delle esportazioni sostenuta dalle delocalizzazioni nelle catene lunghe del valore.
Questo assetto economico, maturato nel primo quarantennio della globalizzazione neoliberale, mostra tutti i suoi limiti. Ne ha parlato Draghi nel suo articolo. Lo ha ribadito Panetta nel discorso di ieri: «L’eccessiva dipendenza dalla domanda estera espone l’Unione Europea a una stagione protezionistica e che va ridotta valorizzando il mercato unico. Anche perché le merci cinesi con il mercato Usa bloccato, punteranno ancora di più su quello europeo».
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