Nell’àmbito delle opinioni raccolte per la realizzazione del Secondo Rapporto su Scuola e Università dell’Eurispes, pubblichiamo l’intervista a Luca Salmieri, Professore associato di Sociologia dei processi culturali e comunicativi presso la Facoltà di Scienze politiche, Sociologia, Comunicazione della Sapienza Università di Roma.
Come valuta la spesa pubblica destinata all’istruzione in Italia? Per quale ragione la “dissennata” politica dei tagli sembra avere sempre come maggiore bersaglio proprio la scuola dalla quale dipende il nostro futuro?
La spesa pubblica destinata all’istruzione è al di sotto del fabbisogno nazionale. Si rilevano oramai da anni fabbisogni che richiederebbero investimenti sia nelle strutture (edilizia scolastica, riorganizzazione delle aule per la didattica in cooperative learning, cablaggio e digitalizzazione, laboratori informatici), sia nella spesa corrente, attraverso l’innalzamento degli stipendi dei docenti, l’introduzione di incentivi, il reclutamento di laureati e l’organizzazione costante di attività di aggiornamento e formazione. È probabile che lo scarso investimento in istruzione dipenda dall’egemonia di una “logica dell’immediato” che trova sempre più consenso nell’opinione pubblica e nell’elettorato: si ritiene che investire nel lungo termine non paghi in termini politici.
Quali sono, a suo avviso, i fattori che influiscono maggiormente sull’apprendimento e, più in generale, sui risultati positivi e negativi degli alunni a scuola?
Sono numerosi i fattori che incidono sulla qualità dell’apprendimento degli studenti. Tali fattori possono essere distinti in due categorie: fattori extra-scolastici e fattori scolastici. Tra i primi hanno massima rilevanza: 1) la presenza, diffusione, accessibilità e qualità di servizi pubblici per la prima infanzia (0-2 anni) con funzione educativa in quanto tali servizi costituiscono la base irreversibile dei primi sviluppi cognitivi in ambiente non familiare e, dunque, offrono una sorta di primo corredo per i futuri apprendimenti durante tutto l’arco della vita; 2) il capitale culturale dei genitori e della famiglia e gli stimoli provenienti dall’ambiente domestico e dal tessuto sociale di riferimento: tali fattori incidono durante tutto il ciclo dell’istruzione e si protraggono, persino con maggiore peso, nel corso degli eventuali studi universitari; 3) aspettative e motivazioni degli studenti e dei loro genitori; 4) il mercato del lavoro locale, nel senso che se esso offre poche opportunità, spesso può funzionare da disincentivo nell’ottenere un titolo di istruzione elevato. Tra i secondi, i più importanti sono (non in ordine di rilevanza): 1) il cosiddetto “peer-effect” e la composizione sociale della scuola e della classe: più uno studente è calato in dinamiche di apprendimento e sostegno di gruppo, più migliora il suo apprendimento; più la scuola e tanto più la classe in cui si trova lo studente sono socio-economicamente e culturalmente eterogenee, più è probabile che non soffra degli effetti negativi di segregazione negli apprendimenti; 2) la qualità dell’insegnamento, intesa come capacità dei docenti e della scuola di competere con le dinamiche di socializzazione e scoperta del mondo esterno al mondo della scuola; 3) l’ambiente scolastico di apprendimento: più è attrattivo e aggregante, più è efficace; 4) l’insegnamento che ricorre spesso al lavoro di gruppo e che valuta in relazione alle competenze in entrata.
Uno dei punti cruciali del dibattito sul sistema dell’istruzione nel nostro Paese è quello relativo alla formazione dei docenti scolastici e universitari. È possibile che non si riesca a mettere in campo un modello di sistema che non basi la qualità dell’offerta formativa unicamente sulla capacità e sulla buona volontà del singolo docente?
Il problema della formazione dei docenti (della scuola) discende dal problema del loro reclutamento: finché non si stabilirà e consoliderà un unico e stabile sistema di reclutamento, sarà impossibile organizzare anche un sistema di formazione unico e stabile.
Si parla spesso della necessità di ridurre il divario Nord/Sud anche nel campo della formazione. Non si tratta però solo di una profonda differenza geografica, ma di qualcosa di più complesso e articolato, che riguarda il centro e la periferia, i quartieri, i contesti urbani ed extraurbani, la sfera pubblica e la sfera privata, persino i modelli di vita adottati. Che cosa si può e si deve fare per “ricucire” un Paese troppo frammentato come il nostro?
Diverse ricerche ormai concordano sul fatto che l’impatto netto della scuola e della formazione sulle competenze degli studenti è abbastanza simile tra Nord e Sud del Paese. Se gli studenti del Nord hanno mediamente livelli di competenze più elevati rispetto a quelli del Sud è perché i fattori extrascolastici (si veda sopra) spiegano tali diseguaglianze di rendimento. Ciò implica che sono le politiche socio-economiche e culturali volte a ridurre i divari generali nel Paese (ma non ve ne sono) che potrebbero, a cascata, ridurre le diseguaglianze di apprendimento tra le due aree geografiche e non l’inverso. Insomma, fermo restando che le scuole del Mezzogiorno così come quelle delle aree depresse, interne e marginali o delle periferie avrebbero bisogno di massicci investimenti, è evidente che il valore aggiunto netto dall’effetto insegnamento è mediamente simile tra Nord e Sud e che, dunque, non è l’istruzione che può ridurre i divari socio-economici e culturali. Semmai l’inverso.
In che misura, ed in che modo, dobbiamo preparaci ai cambiamenti demografici? Si tratta di un fattore che, a suo giudizio, inciderà sul sistema scolastico italiano?
Il principale cambiamento demografico riguarda il calo delle nascite (ormai da diversi decenni) e l’aumento dei flussi migratori (anche in questo caso ormai da un po’ di tempo). Queste dinamiche hanno già inciso, tant’è che in questo caso il sistema di istruzione italiano si è dimostrato ben più avanzato di quanto lo sia la nostra società: le pratiche di inclusione e quelle multiculturali hanno preso silenziosamente piede nelle classi italiane (soprattutto nelle aree urbane), come una necessità ineludibile, ben prima che nascessero – e non ne sono nate – politiche multiculturali a livello nazionale. Le scuole sono diventate da tempo isole di multiculturalismo, in maniera adattiva, spesso creativa ed efficace, con risorse autonome (e quindi esigue) e strategie del quotidiano. Naturalmente gli alunni di origine straniera continuano ad incontrare molti più ostacoli di quelli nativi. Tuttavia, la soglia dell’inclusione è quasi universalmente garantita, e anzi, da alcuni anni si registra anche un progressivo miglioramento sia dei rendimenti scolastici sia della motivazione al prosieguo degli studi da parte degli studenti di origine straniera.
La scuola primaria e quella secondaria sono adeguate per strutture e qualità formativa a fornire basi solide nelle diverse discipline per preparare gli alunni per l’Università?
È difficile rispondere a questa domanda. Manca una ricerca su scala nazionale capace di prendere in considerazione il poliedrico mondo dell’offerta di studi universitari e metterlo in relazione con i livelli e i tipi di competenze in uscita dall’istruzione secondaria di secondo grado. Inoltre, la variabilità è così ampia – tanto tra le competenze in entrata che tra quelle richieste nei corsi di laurea – che una valutazione oggettiva è impossibile. Inoltre, chi e come stabilisce quali debbano essere le competenze minime per accedere e fare bene in un corso di laurea? Da questo punto di vista, indicativi sono i contenuti dei test di ammissione ai corsi di laurea a numero chiuso: riguardano la cultura generale e quasi per nulla le competenze propedeutiche agli studi nelle discipline su cui si fondano tali corsi. Senza contare le numerose differenze tra le discipline che strutturano i corsi di laurea. Piuttosto, vanno sottolineati con allarme i seguenti fenomeni: 1) gli studi universitari si stanno femminilizzando – il che sarebbe un dato positivo se non fosse che la quota di diplomati maschi che si iscrivono all’Università sta pericolosamente diminuendo; 2) il raggiungimento della laurea nei tempi regolari sta tornando ad essere lentamente un privilegio dei ceti medio-elevati, poiché i costi diretti e indiretti degli studi universitari stanno aumentando sensibilmente rispetto alle risorse economiche delle famiglie. Il nostro Paese è agli ultimi posti in Europa per borse di studio universitarie, alloggi per gli studenti, servizi di qualità agli studenti (trasporti, biblioteche, spazi di studio); 3) siamo il penultimo Paese in Europa per quota di laureati sulla popolazione adulta.
L’Italia si segnala per elevati tassi di abbandono e di dispersione scolastica anche a livello universitario. Quali sono le principali cause del fenomeno, quali le strategie più urgenti da adottare?
Il fenomeno è dovuto principalmente a tre aspetti: 1) la carenza nel nostro Paese di un sistema di orientamento nazionale, neutro e competente, capace di indirizzarsi agli studenti nel corso degli ultimi due anni di scuola secondaria superiore e in grado di marginalizzare i modelli di scelta del corso di laurea basati sulle influenze familiari, sui consigli degli insegnanti e sui “miti” relativi ai corsi di laurea che procurano maggiori opportunità di lavori prestigiosi; 2) la pressoché assenza di una politica integrata di sostegno allo studio universitario: molti abbandoni dipendono dalle difficili condizioni strutturali della vita dello studente universitario (pendolarismo, luoghi di studio sovraffollati, costi elevatissimi per i fuori sede); 3) l’intero sistema universitario italiano non prevede elementi sufficientemente premianti per chi completa gli studi nei tempi regolari. Né è previsto, a livello nazionale, un sistema di tutoraggio preventivo per studenti e studentesse che accumulano ritardi in termini di CFU. A ciò si aggiunga che, se in tutta l’Europa dal punto di vista degli stipendi attesi, essere laureati conviene molto di più che essere diplomati tanto nel breve che nel lungo periodo, in Italia invece conviene solo nel lungo periodo: la differenza media tra lo stipendio al primo lavoro di un laureato rispetto ad un diplomato è in Italia del 40% inferiore alla media europea.
Il metodo di insegnamento, adottato diffusamente in Italia, viene spesso accusato di avere un impianto tradizionalista, di stampo nozionistico, scarsamente flessibile e aperto all’interazione, alla dialogicità, alla ricerca comune tra docenti e discenti. Altri paesi europei sembrano essere più avanti, sotto questo profilo. L’impatto delle tecnologie in un contesto non sempre permeabile all’innovazione che cosa comporterà? L’esperienza “forzata” della DAD, che ha permesso durante la pandemia di non spezzare la continuità dell’insegnamento, quali segnali ha dato a tutto il sistema dell’educazione italiano?
Non esiste alcuna indagine o ricerca nazionale che attesti il prevalere di un determinato sistema di insegnamento. Anzi, evidenze locali in indagini a limitata generalizzabilità evidenziano che in una medesima classe, in una stessa giornata scolastica e da parte dello stesso docente si adottano più prassi e metodologie di insegnamento. Le tesi che sostengono gli stereotipi di cui sopra si basano per lo più su impressioni di tipo aneddotico. In base a quali dati alcuni paesi sarebbero “più avanti”? E più avanti in cosa, esattamente? Ci si dovrebbe prima mettere d’accordo su cosa si intende per “impianto tradizionalista”, “nozionistico”, “flessibile”, “interattivo”, ecc. Una volta trovato un consenso comune a livello europeo, si dovrebbero operazionalizzare le definizioni. Poi andrebbe realizzata una vasta (e costosa) indagine comparativa con campioni statisticamente rappresentativi degli insegnanti e degli studenti. Solo i risultati di un’indagine del genere potrebbero validare o confutare gli assunti di cui sopra. Rispetto all’Italia, alcuni (ma non proprio tutti) paesi europei sono più avanti nei rendimenti medi di apprendimento delle competenze di base (lettura, comprensione, scrittura, matematica, scienze, problem solving). Lo attestano le indagini PISA realizzate attraverso test standardizzati somministrati ai quindicenni. Tali indagini sembrano indicare però che più che i metodi didattici e le pedagogie, sono altri fattori (ancora una volta quelli extrascolastici) a spiegare tali lacune nostrane. L’impatto delle tecnologie dipende dal tipo di tecnologie e dagli usi che se ne fanno. Sicuramente nel sistema d’istruzione italiano il ricorso alle tecnologie digitali è per ora scarso; tuttavia, al riguardo vanno fatte due importanti precisazioni. 1) Una cosa è insegnare e apprendere ricorrendo a strumenti digitali (LIM, ppt, attività mediate dal pc o smartphone o tablet, ricorso a contenuti digitali, piattaforme e contenuti digitali), altra è insegnare e apprendere le competenze digitali. Mentre il secondo aspetto è efficace e necessario (in ogni ordine e grado scolastico) e in Italia ancora al di sotto di quanto sarebbe utile per il futuro dei nostri studenti, il primo, se è senz’altro indirettamente propedeutico al secondo, non è invece sempre e comunque più efficace per i contenuti delle altre discipline (le competenze di italiano, lingue straniere, lingue classiche, matematica, scienze, fisica, biologia, chimica, storia, ecc.) di quanto non lo siano già i metodi di insegnamento e apprendimento che non prevedono gli strumenti e le piattaforme digitali. 2) Una cosa è la didattica digitale, in aula, in presenza, in interazione fisica “one to many” e “many to many”, altra cosa, completamente diversa, è la cosiddetta DAD (didattica a distanza). Si tratta di due mondi completamente differenti che non andrebbero mai confusi. La DAD ha prodotto un’enorme learning loss (in quasi tutt’Europa ad esclusione dei paesi in cui le chiusure scolastiche sono durate meno tempo). Naturalmente non si poteva fare altrimenti e tale soluzione ha permesso almeno di garantire un minimo di continuità didattica. Tuttavia, il ricorso alla DAD ha prodotto una perdita di apprendimento molto pronunciata. Da questo punto di vista, ha avuto il “merito” di dimostrare – al contrario – quanto è importante la scuola come esperienza collettiva e in presenza.
A suo giudizio, l’offerta universitaria in Italia è adeguata alle richieste del mercato del lavoro? Le nuove generazioni, almeno a giudicare dagli ultimi dati, sembra stiano disinvestendo sulla formazione universitaria, in un mercato globale che ha bisogno di cervelli, saperi e competenze per riprendere la via della crescita. Come va letto questo trend, di certo preoccupante?
La mia idea è che la missione della formazione universitaria non è rispondere alle esigenze del mercato del lavoro. La missione dell’Università è favorire e sviluppare la ricerca, preparare cittadini competenti nei diversi campi del sapere, coltivare le loro passioni e i loro interessi scientifici. Naturalmente, se vengono assolti questi obiettivi, ne beneficeranno anche i futuri lavoratori e le organizzazioni del lavoro. E, ovviamente, un paese con molti laureati – come purtroppo il nostro non è – è un paese economicamente, tecnologicamente e scientificamente competitivo. Il trend di decrescita delle iscrizioni all’Università dipende dall’accentuarsi delle crisi economiche, dell’assenza di una seria e continuativa politica di investimenti nell’istruzione e nella ricerca scientifica oltreché dalla scandalosa latitanza di politiche giovanili.
Nell’istruzione superiore la classica dicotomia fra pubblico e privato si è arricchita di nuovi soggetti (academy aziendali, società di consulenza, business school, start up digitali, piattaforme educative globali, ecc.) allargando lo spettro dell’offerta formativa. In prospettiva, questo fenomeno potrebbe finire con lo spiazzare le Istituzioni tradizionali, a cominciare dall’Università pubblica? Con quali conseguenze?
Non credo che l’Università pubblica sia spiazzata dal proliferare di altri contesti di formazione superiore e per il semplice motivo che le Università italiane, come del resto fanno già da più tempo quelle di altri paesi occidentali avanzati, è da tempo abituata ad operare in un regime di quasi mercato.
Quale sarà la principale sfida che il sistema formativo italiano, e l’Università in particolare, si troverà ad affrontare nei prossimi anni?
La difficoltà nell’integrare, regolare, controllare e non subire passivamente gli effetti dell’adozione, in tutti campi, delle varie forme di Intelligenza Artificiale.
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