La legislazione sul Fine Vita non compete alle Regioni

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La Toscana diviene così, in maniera erronea, la prima Regione italiana a valutare positivamente la proposta di un’Associazione laica che altre Regioni hanno respinto o ritenuto illegittima.

Tanto è avvenuto, va sottolineato, “contra legem” poiché la nostra Costituzione riserva espressamente le materie dell’Ordinamento civile e quello penale all’esclusiva competenza legislativa dello Stato, secondo la Dottrina prevalente (v.Bilotti e Vari, la Legge della Toscana, Avvenire 10 Feb 2025) che costituisce una materia in cui rientra a pieno titolo il fine vita, come sancito ai sensi dal’art.117, comma 2, della Cost.

In effetti, non si può dubitare che la disciplina di una materia così delicata debba rientrare nella competenza esclusiva del Parlamento poiché occorrerebbe garantire un’elementare esigenza di uguaglianza, per evitare cioè che la disciplina dei rapporti tra privati e dell’individuazione delle condotte penalmente sanzionate possano cambiare da Regione a Regione.

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Inoltre, occorre stabilire l’ambito di applicazione di fattispecie di reato poste a tutela della vita umana e di individuare il confine della c.d autodeterminazione terapeutica del paziente dinanzi ad un male incurabile che possa incidere sulla volontà del malato nella decisione.

Peraltro, lo stesso titolo della infausta Legge, che fa riferimento a semplici «modalità organizzative»per l’attuazione delle sentenze della Corte Costituzionale n. 242/2019 e n. 135/2024, contribuisce a mettere a fuoco il problema.(v commento dello stesso Autore, Fine Vita…ai Giudici l’ardua sentenza su questa Rivista, Lug 2024).

A questo punto appare lecito dubitare se la Legge varata non serva a riconoscere al paziente un diritto all’assistenza al suicidio, nei confronti delle strutture sanitarie convenzionate e del personale addetto poiché tale diritto sarebbe stato già riconosciuto, in presenza di precisi presupposti sostanziali e procedurali, dalle decisioni del 2019 e del 2024 della Corte delle Leggi .

Invero, la Legge Regionale Toscana che regolerebbe le «modalità organizzative», e, dunque, le procedure mediante le quali le strutture sanitarie convenzionate dovrebbero consentirne l’esercizio, sarebbe inutiliter data poiché si tratterebbe comunque, di regolare una materia che la Costituzione assegna alle Regioni, che hanno una propria competenza legislativa, salvo che si tratti di normare principi fondamentali, come sancito dall’art.117, comma 3 Cost, che occorre ricordare poiché sanciti dalla Corte con le due sentenze poste a fondamento della Legge Toscana.

Nel 2019 la Corte Costituzionale aveva richiesto al Parlamento di colmare un vuoto normativo in materia di Fine Vita e aveva elencato i requisiti in possesso dei quali si può procedere al suicidio medicalmente assistito.

Sul punto va chiarito se la Corte delle Leggi abbia voluto riconoscere al paziente, in presenza di precisi presupposti, un diritto all’assistenza medica al suicidio o se un simile diritto possa essere affermato proprio da una Legge come quella della Toscana, posto che essa finirebbe allora per incidere sull’Ordinamento civile e su quello penale poiché la Corte non ha mai riconosciuto al malato un tale diritto, neppure in presenza dei presupposti sostanziali e procedurali indicati nelle citate sentenze.

Anzi. La Corte ha affermato con chiarezza l’impossibilità di desumere la generale inoffensività dello aiuto al suicidio da un generico diritto all’autodeterminazione individuale, così riconoscendo il preminente rilievo costituzionale del principio di “indisponibilità della vita umana” come pure l’illegittimità costituzionale della norma penale che sanzionava l’assistenza al suicidio.

Inoltre, benché la Corte abbia riconosciuto il diritto all’obiezione di coscienza da parte dei sanitari, la stessa ha anche precisato che la propria decisione «si limita a escludere la punibilità dell’aiuto al suicidio nei casi considerati, senza creare alcun obbligo di procedere a tale aiuto in capo ai medici» poiché “resta affidato, pertanto, alla coscienza del singolo medico scegliere se prestarsi, o meno, a esaudire la richiesta del malato».

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In nessun caso, dunque, una richiesta di assistenza al suicidio deve ritenersi vincolante nei confronti del personale sanitario, neppure laddove ricorrano i presupposti per la non punibilità del reato e tanto meno esiste un correlato diritto del paziente poiché la giurisprudenza della Corte non ha mai riconosciuto ad essi alcuna pretesa suicida esigibile.

Ne consegue la manifesta l’illegittimità costituzionale di proposte legislative, come quella accolta dall’Assemblea Regionale Toscana per la palese violazione di un ambito di competenza legislativa esclusiva dello Stato.

Va sottolineato che la stessa Corte, con le decisioni emanate, ha invitato il Parlamento a intervenire in subiecta materia ma non ha affatto riconosciuto una competenza regionale al riguardo (!!)?

In particolare, la sentenza n.242/2019, è stata ritenuta come una “sentenza – legge”per stigmatizzare il carattere politico della decisione che eccede le competenze assegnate ai Giudici dalla Costituzione.

Sul punto, la decisione in questione assume essenzialmente una funzione ricognitiva di un’esimente per chi aiuti al suicidio, in presenza delle quattro condizioni che riguardino il malato che “agevola l’esecuzione del proposito di suicidio, autonoma mente e liberamente formatosi, di una persona tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetta da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che ella reputa intollerabili, ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli, sempre che tali condizioni e le modalità di esecuzione siano state verificate da una struttura pubblica del servizio sanitario nazionale, previo parere del comitato etico territorialmente competente”.

Pertanto, la Corte ha dichiarato l’illegittimità parziale dell’art. 580 C.P. in relazione a una disposizione del Codice penale, che concerne la lettera l) dell’art. 117, comma 2, Cost. “Ordinamento civile e penale”, ossia una competenza legislativa esclusiva dello Stato.

La Corte ha voluto, inoltre, fornire alcune indicazioni al Legislatore statale ricorrendo ad una formulazione di tipo “normativo”, sul piano dell’esercizio successivo della funzione legislativa da parte del Parlamento nazionale, come quando la stessa si preoccupa di indicare al Legislatore quali dovrebbero essere, alla luce del dettato costituzionale, le linee generali della normativa della materia dichiarata illegittima.

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Quanto al preteso fondamento di una qualche competenza legislativa regionale in materia di assistenza sanitaria al suicidio medicalmente assistito, desta molte perplessità l’inquadramento di una procedura medicalizzata che conduce alla morte nell’ambito della materia della “tutela della salute”, a differenza di quanto concerne, ad esempio, l’utilizzo delle cd “cure palliative”.

Inoltre, questa chiave di lettura condurrebbe a presupporre che i principi fonda mentali della materia de qua andrebbero ricavati direttamente da una sentenza della Corte che, in materia di Ordinamento penale interferisca, sul piano dei rapporti con il Parlamento, che risulterebbe tagliato fuori dalle proprie competenze ove la sentenza della Corte potesse essere intesa come diretta anche ai consessi regionali (!!)

Questa interpretazione si porrebbe, comunque, in violazione dell’art. 117, co. 2, lett. l) e m), della Costituzione che riservano esclusivamente allo Stato la competenza legislativa in materia di Ordinamento penale, come anche nel caso di determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti a tutti i cittadini, senza che su questo possano intervenire ingiustificabili disparità di trattamento per casi analoghi sul territorio nazionale.

In definitiva, proprio alla luce delle considerazioni innanzi esposte, una difforme interpretazione finirebbe per porsi in contrasto con alcuni degli stessi principi della Costituzione, che costituiscono, di per sé, un limite alla stessa legislazione costituzionale anche nel caso in cui si volesse ritenere la materia in questione appartenente alla cd “Legislazione Concorrente”, ossia al principio democratico (art. 1, co. 2, Cost.) per cui “la Sovranità appartiene al Popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione”.

Le prerogative che la Costituzione riconosce al Parlamento nazionale ed il princi pio di eguaglianza (art. 3, in relazione all’art. 117, co. 3, Cost.), esige che i principi fondamentali di una materia di legislazione concorrente regionale vadano contenuti in una Legge del Parlamento nazionale, in quanto è lo Stato l’unico soggetto capace di garantire ai diritti inviolabili dell’Uomo un eguale trattamento sull’intero territorio nazionale, escludendo, così, ogni fondamento giuridico anche alle pratiche di c.d. “turismo della morte”in altri Stati, come si legge sulla stampa quotidiana.

Tali considerazioni trovano puntuale riscontro anche nella sentenza della Corte n.50/2022, ove si precisa che “dall’art. 2 Cost. – non diversamente che dall’art.2 CEDU – discende il dovere dello Stato di tutelare la vita di ogni individuo e non quello di riconoscere all’individuo la possibilità di ottenere dallo Stato o da terzi un aiuto a morire”.

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Laddove questi principi vengano a coinvolgere materie anche di competenza legislativa concorrente delle Regioni, come la tutela della salute, non va, tuttavia, dimenticato “che il diritto della persona di essere curata efficacemente, secondo i canoni della scienza e dell’arte medica, e di essere rispettata nella propria integrità fisica e psichica deve essere garantito in condizioni di eguaglianza in tutto il Paese, attraverso una legislazione generale dello Stato basata sugli indirizzi condivisi dalla comunità scientifica nazionale ed internazionale”(Corte Cost.sent n.5/2018).

Nella sentenza n. 50/2022 la Corte ricorda di avere chiarito in più occasioni, che il diritto alla vita, riconosciuto implicitamente dall’art. 2 Cost., sia «da iscriversi tra i diritti inviolabili, e cioè tra quei diritti che occupano nell’ordinamento una posizione, per dir così, privilegiata, in quanto appartengono – per usare l’espressione della sentenza n. 1146 del 1988 – «all’essenza dei valori supremi sui quali si fonda la Costituzione italiana» (Corte Cost.sentenza n. 35 del 1997).

Esso «concorre a costituire la matrice prima di ogni altro diritto, costituzionalmente protetto, della persona» (sentenza n. 238 del 1996) (…) è il «“primo dei diritti inviolabili dell’uomo (sentenza n. 223 del 1996), in quanto presupposto per l’esercizio di tutti gli altri», ponendo altresì in evidenza come da esso discenda, come si è ricordato, «il dovere dello Stato di tutelare la vita di ogni individuo: non quello – diametralmente opposto – di riconoscere all’individuo la possibilità di ottenere dallo Stato o da terzi un aiuto a morire»”.

Questa linea consolidata nella giurisprudenza costituzionale, ha trovato una significativa conferma pure nella giurisprudenza europea dei diritti dell’Uomo, da ultimo ad opera della recentissima sentenza (13 giugno 2024) della Corte EDU (Karsai contro Ungheria).

Nel caso di specie, è stata ritenuta non in contrasto con gli articoli 8 (diritto al rispetto per la vita privata e familiare) e 14 (divieto di discriminazione) della CEDU la Legge statale che vieta l’eutanasia attiva, diretta a cagionare la morte al paziente mediante un trattamento medico o farmacologico, o suicidio assistito.

Il diritto all’autodeterminazione della morte non trova, dunque, fondamento nella CEDU mentre risulta di un certo interesse, a questo proposito, che in questa sentenza la Corte EDU rimarchi e sposi la profonda differenza in qualità giuridica tra la cd eutanasia attiva e quella passiva, intesa come mera interruzione del trattamento terapeutico, riconducibile, ove consensuale, al diritto riconosciuto a rifiutare i trattamenti sanitari, differenza superata dalla Corte costituzionale italiana proprio nella sentenza n. 242/2019., nella quale, dopo avere osservato che“l’offerta di trattamenti medici ha potenzialmente ampie implicazioni sociali e rischi di errore e abuso nella pratica della morte assistita da parte del medico”, la Corte EDU precisa che “nonostante una tendenza crescente verso la legalizzazione, la maggioranza degli Stati membri del Consiglio d’Europa continua a proibire sia il suicidio medicalmente assistito che l’eutanasia.

Lo Stato ha quindi un ampio margine di discrezionalità in questo senso e la Corte ha ritenuto che le Autorità non avessero mancato di trovare un giusto equilibrio tra gli interessi in gioco”, discrezionalità nel cui esercizio il dovere prioritario di tutelare le persone più fragili non può essere bilanciato da un “diritto di morire”, sprovvisto di fondamento giuridico nella CEDU”.

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Su questa linea, si ravvisa piena continuità tra la giurisprudenza costituzionale e quella EDU, secondo cui, per di più “la Convenzione va interpretata e applicata alla luce del tempo presente. La necessità di misure legali appropriate dovrebbe essere tenuta sotto osservazione, tenendo in considerazione gli sviluppi nelle società europee e negli standard internazionali dell’etica medica in questo ambito”.

Costituisce, invece, un dovere costituzionale riconoscere e garantire i diritti inviolabili dell’uomo, tra cui la tutela della vita di ogni individuo, che l’art. 2 Cost. demanda alla Repubblica in quanto tale, come afferma la Corte nella sent. n. 242/2019, che le Regioni sono chiamate a rispettare.

Del resto, lo stesso Comitato Nazionale per la Bioetica ha sottolineato la necessità che su materie così delicate, a cominciare dalla definizione di “capacità libera ed informata di agire”, in grado di interferire con la sfera personale, sia “fatto ogni sforzo per evitare che vi siano approcci troppo differenziati o addirittura contra stanti nella valutazione delle condizioni indicate dalla Corte costituzionale”.

A tal proposito, merita attenzione la cd “cedevolezza legislativa invertita” principio in base al quale sarebbe possibile per le Regioni intervenire a colmare una lacuna legislativa statale in quanto diretta a “disciplinare procedure e tempi di applicazione dei diritti già individuati in attesa dell’entrata in vigore della disciplina statale”.

Tale approccio viene spesso messo in discussione in materie di competenza legislativa esclusiva dello Stato, come sottolineato dalla Corte Cost. sentenza n. 1/2019 posto che la cedevolezza legislativa “invertita” “attiene alle materie di competenza esclusiva regionale e a quelle di competenza concorrente senza però che la previsione della clausola consenta alle Regioni di intervenire in ordine a profili che attengano alla competenza esclusiva del legislatore statale”.

In tal senso depone, in materia di “fine vita”, la sentenza della Corte costituzionale n.262/2016 in relazione ad una Legge della Regione Friuli VG, introdotta con il dichiarato intento di rimediare alla temporanea inerzia del legislatore statale in tema di disposizioni anticipate di trattamento sanitario (successivamente disciplinate con legge n. 219/2017) in applicazione proprio della logica della “cedevolezza invertita”.

Ebbene, a questo proposito la Corte ha sancito che “una normativa in tema di disposizioni di volontà relative ai trattamenti sanitari nella fase terminale della vita (…) necessita di uniformità di trattamento sul territorio nazionale, per ragioni imperative di eguaglianza, ratio ultima della riserva allo Stato della competenza legislativa esclusiva in materia di “ordinamento civile” disposta dalla Costitu zione”con prevedibili rischi di una disarticolazione su base regionale delle condizio ni riguardati il sofferente nel caso dell’aiuto al suicidio.

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La stessa Corte, nell’ordinanza n. 207/2018 che precede la sentenza 242/2019, ha sottolineato, nella materia de qua, “l’incrocio di valori di primario rilievo, il cui compiuto bilanciamento presuppone, in via diretta ed immediata, scelte che anzitutto il legislatore è chiamato a compiere”, così puntualizza: “questa Corte reputa doveroso – in uno spirito di leale e dialettica collaborazione istituzionale – consentire, nella specie, al Parlamento ogni opportuna riflessione ed iniziativa”.

In definitiva, la questione della definizione dell’ambito della competenza legislativa regionale in materia pone, quindi il problema della sussistenza o meno di un dovere di erogare la prestazione produttiva di morte.

A questo proposito, la sentenza della Corte costituzionale n. 242/2019 non si pone a fondamento del diritto ad una prestazione di aiuto al suicidio medicalmente assistito, produttiva, dunque, dell’evento di “morte”, da parte del Servizio Sanitario Nazionale, né dell’obbligo a garantire questa prestazione, riguar dando soltanto la non punibilità, in determinati casi, del medico che la pratica.

Anzi, la Corte stessa ribadisce più volte che dalla Costituzione e dalle Convenzioni sui diritti dell’Uomo viene tutelato il fondamentale diritto alla vita, presupposto di tutti gli altri diritti fondamentali posto che «Dall’art. 2 Cost. [che pone un dovere, questo sì, gravante in capo alla Repubblica, di riconoscere e garantire i diritti inviolabili dell’uomo, come si è avuto modo di vedere supra] non diversamente che dall’art. 2 CEDU – discende il dovere dello Stato di tutelare la vita di ogni individuo: non quello – diametralmente opposto – di riconoscere all’individuo la possibilità di ottenere dallo Stato o da terzi un aiuto a morire. Che dal diritto alla vita, garantito dall’art. 2 CEDU, non possa derivare il diritto di rinunciare a vivere, e dunque un vero e proprio diritto a morire, è stato, del resto, da tempo affermato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, proprio in relazione alla tematica dell’aiuto al suicidio (sentenza 29 aprile 2002, Pretty contro Regno Unito)”.

A giudizio della Corte, che conferma in merito un ’orientamento già espresso, “la ratio dell’art. 580 cod. pen. può essere agevolmente scorta, alla luce del vigente quadro costituzionale, nella «tutela del diritto alla vita, soprattutto delle persone più deboli e vulnerabili, che l’ordinamento penale intende proteggere da una scelta estrema e irreparabile, come quella del suicidio. Essa assolve allo scopo, di perdurante attualità, di tutelare le persone che attraversano difficoltà e sofferenze, anche per scongiurare il pericolo che coloro che decidono di porre in atto il gesto estremo e irreversibile del suicidio subiscano interferenze di ogni genere (ordinanza n. 207 del 2018)”.

Vi è, tuttavia, un ulteriore profilo meritevole di attenzione circa la cd “eutanasia individualistica”inteso come intervento intenzionalmente programmato per interrompere in maniera diretta e primaria una vita di un paziente, quando questi si trovi in particolari condizioni di sofferenza o inguaribilità o in prossimità della morte, previo consenso o richiesta dell’interessato.

Nella sentenza n.242/2019, la Corte costituzionale ha innestato, per analogia, la legislazione sulle dichiarazioni anticipate di trattamento e sulle cure palliative e terapia del dolore nella norma penale sull’aiuto al suicidio che, in presenza dei presupposti innanzi indicati, è stato depenalizzato.

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Tale legislazione (v.Leggi nn.38/2010 e 219/2017) consente al paziente di accogliere la morte con effetti vincolanti verso terzi attraverso la richiesta di interruzione dei trattamenti di sostegno vitale in atto e la contestuale sottoposizione alla sedazione profonda continua, sulla base del principio costituzionale del consenso informato, richiesta associabile all’esercizio del diritto di accesso alle cure palliative ed alla terapia del dolore, inserite, fra l’altro, nei Livelli Essenziali di Assistenza del SSN.

La Corte Costituzionale motiva un tale orientamento sulla base della maggior lentezza di un processo e delle maggiori sofferenze per i familiari dell’interessato. Secondo la Corte, c’è in sostanza soltanto progressione di quantità e non salto di qualità poiché “non si vede ragione per cui non consentire questi trattamenti in presenza dei presupposti previsti” con un’argomentazione in buona sostanza apodittica, rende discutibile applicazione dello stesso principio di ragionevolezza, arrivando a disporre direttamente un trattamento eguale di fattispecie diverse.

E’, invece, proprio la Corte EDU nella sua ultima sentenza a ribadire la necessaria soluzione di continuità tra eutanasia attiva ed eutanasia passiva, laddove dichiara apertamente di aver “rilevato che il rifiuto o la sospensione delle cure in situazioni di fine vita sono intrinsecamente legati al diritto al consenso libero e informato piuttosto che al diritto di essere aiutati a morire”, oltre ad essere “ampiamente riconosciuti e approvati dalla professione medica e anche nella Convenzione di Oviedo del Consiglio d’Europa”.

Dunque, secondo la Corte EDU resta intatto il diritto del paziente debitamente informato di sospendere cure e trattamenti:

«Il rifiuto o la revoca del supporto vitale è consentito dalla maggioranza degli Stati membri» e, pertanto, «la Corte ha ritenuto che la presunta differenza di trattamento delle due categorie fosse oggettivamente e ragionevolmente giustificata».

Per quanto riguarda la Corte Costituzionale, va, comunque, ricordato che in altri casi, come quello della legge n. 40/2004 in materia di PMA, ha esplicitamente riconosciuto l’appartenenza di questa legge alla tipologia di quelle “costituzionalmente obbligatorie” (sentenza n. 45/2005) e che, in materia di “omicidio del consenziente” (art. 579 c. p.) la stessa Corte ha motivato la necessità di una disciplina legislativa essenzialmente “sulla base dell’esigenza che non si facciano venir meno le istanze di protezione a tutela della vita a tutto vantaggio della libertà di autodeterminazione individuale richiamando la necessità di una tutela minima per situazioni che tale tutela esigono secondo la Costituzione, con specifico riferimento al diritto alla vita” già sancita con sentenza n. 35 del 1997 (v in tal senso sentenza n. 50/2022)

Alla luce di tali considerazioni, risulta che la stessa Legislazione nazionale in materia di fine vita non possa essere ritenuta costituzionalmente obbligatoria, né tanto meno abbia un contenuto costituzionalmente vincolato se non per la parte legata al doveroso riconosci mento dell’obiezione di coscienza degli operatori sanitari.

E ciò vale a fortiori, alla luce delle considerazioni esposte in precedenza, per il Legislatore regionale della Toscana.

Quello che, invece, risulta materia riconducibile alla tutela della salute di legislazione concorrente tra Stato e Regioni, nel rispetto dei principi fondamentali della materia e dei Livelli Essenziali di Assistenza, definiti dalla legislazione nazionale, è il tema delle cure palliative e della sedazione profonda continua, di cui, peraltro, non si occupa se non per considerarne il rifiuto quale possibile presupposto per accedere al suicidio medicalmente assistito (art. 3, co. 4).

Ed, invece, proprio su questo punto si fonda, stavolta per entrambe le Corti, costituzionale ed EDU, un diritto ad un fine vita dignitoso e non sofferto.

Infatti, la CEDU esplicitamente nella sua ultima sentenza, ritiene che le “cure palliative di alta qualità, compreso l’accesso a un’efficace gestione del dolore, siano essenziali per garantire un fine vita dignitoso”.

Secondo gli esperti consultati dalla Corte, le opzioni disponibili per le cure palliative, in base alle raccomandazioni dell’Associazione europea di Cure palliative, compreso l’uso della sedazione palliativa, sono in generale capaci di dare sollievo ai pazienti che si trovano nella situazione di ricorrere e di consentire loro di morire serenamente.

Alla luce delle considerazioni innanzi esposte, l’esercizio di una potestà legislativa regionale in materia di assistenza sanitaria al suicidio medicalmente assistito, in assenza di una Legge statale che assicuri la necessaria uniformità, non potrebbe che risultare non rispettosa del riparto di competenze previsto in Costituzione e per questa via provocare inevitabilmente un’asimmetria di regolazione, causa di possibili discriminazioni.

Pertanto, una Legge Regionale che si ponga in contrasto con tale principio non può che configurarsi come destituita di fondamento costituzionale.

Sancire con una legge regionale il “diritto alla morte” non è un traguardo, ma una sconfitta”, commenta il Card.Augusto Paolo Lojudice, Arcivescovo metropolita di Siena e Presidente della Conferenza Episcopale Toscana.che aggiunge:.

Prendiamo atto della scelta fatta dal Consiglio Regionale della Toscana, ma questo non limiterà la nostra azione a favore della vita, sempre e comunque. Ai cappellani negli ospedali, alle religiose, ai religiosi e ai volontari che operano negli hospice e in tutti quei luoghi dove ogni giorno ci si confronta con la malattia, il dolore e la morte dico a tutti di non arrendersi e di continuare ad essere portatori di speranza, di vita nonostante tutto”.



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