Il 2024 è stato un periodo difficile per il settore manifatturiero e il 2025 inizia con alcune prospettive di miglioramento. Tuttavia, l’ultimo report di Prometeia-Intesa Sanpaolo descrive una situazione ancora “complessa per le aziende italiane, con numerosi rischi di deterioramento che potrebbero estendersi per gran parte del 2025”. Gennaio ha visto un aumento nei prezzi dell’energia che potrebbe persistere a causa delle politiche statunitensi. Se da un lato un dollaro più forte potrebbe aiutare le esportazioni, dall’altro comporta un incremento dei costi di importazione per l’Italia, già carente di materie prime, semilavorati e beni industriali essenziali, come i semiconduttori.
Alcuni aspetti positivi includono una ripresa della domanda in Europa (anche se la Germania continua a essere un grande ostacolo), un miglioramento delle esportazioni italiane (anche se si prevedono nuovi dazi da parte di Trump), una diminuzione dell’inflazione che potrebbe stimolare il consumo, e un calo dei tassi di interesse favorevole al credito e agli investimenti. Nel frattempo, la riduzione degli incentivi pubblici e l’atteggiamento cauto delle imprese, che posticipano decisioni non urgenti in attesa di un quadro più chiaro, complicano la situazione.
L’industria sta iniziando a riconoscere tardivamente la gravità della crisi manifatturiera, nonostante il governo sia impegnato in altre questioni. Da tempo si alzano voci di allarme dal settore produttivo, i sindacati aggiornano costantemente l’elenco delle crisi, la cassa integrazione raggiunge livelli record e la Confindustria segnala le difficoltà delle aziende, chiedendo un cambio di direzione e politiche adeguate, anche se non è semplice discernere le reali esigenze degli industriali.
Il presidente Emanuele Orsini ha recentemente adottato un approccio più pianificativo, parlando di “un piano triennale” dopo aver firmato un accordo con Intesa Sanpaolo: 200 miliardi di euro alle imprese entro il 2028 per “rilanciare il sistema produttivo nazionale, sfruttando le opportunità offerte da strumenti come la Transizione 5.0 e l’intelligenza artificiale, integrando le risorse già allocate dalla Banca per il raggiungimento degli obiettivi del Pnrr”.
Orsini sottolinea: “Il nostro Paese ha bisogno di una politica industriale per i prossimi tre anni, con una visione a dieci anni”, una politica che deve “pensare a come proteggere le filiere e le aziende che stanno andando bene”, oltre a capire come “reindirizzare verso altri settori” le aziende in difficoltà e “penetrare quei mercati dove non siamo presenti, come è stato fatto ad esempio con il Mercosur”.
Questo piano copre vari fronti, includendo un po’ di nuova industria e la protezione di quella esistente, con una diversificazione dell’esportazione verso aree al di fuori dell’Europa, alternative sia alla Cina sia agli Stati Uniti, su cui si può contare molto meno rispetto al passato. A ciò si aggiunge la questione energetica.
Un punto su cui ha insistito Carlo Pasini, presidente del gruppo siderurgico Feralpi, recentemente eletto alla guida di Confindustria Lombardia. È un argomento su cui Antonio Gozzi, presidente della Duferco e della Federacciai, insiste da tempo. La siderurgia è un settore ad alto consumo energetico, ma lo è anche l’intera filiera elettrica, dalle centrali all’intelligenza artificiale. Pasini critica l’ideologia green, anche se rimane il serio problema della dipendenza eccessiva dal gas. L’Italia ha diversificato molto meno rispetto alla Spagna, mentre la Francia punta decisamente sul nucleare.
Il rilancio del nucleare è anche una richiesta di Orsini che vorrebbe “accelerare il suo ritorno”, anche se resta vago su come realizzarlo. Si stanno facendo piccoli progressi sulla fusione nucleare, ma probabilmente ci vorrà ancora una generazione. Le cosiddette piccole centrali presentano il problema di moltiplicare i siti e quindi le proteste, le opposizioni e i rifiuti. Il presidente di Confindustria vorrebbe riattivare le centrali esistenti, operazione che, se possibile, richiederà anni.
L’impatto più immediato sui costi di produzione è il prezzo dell’energia. “Bisogna separare il costo dell’energia elettrica da quello del gas, e in generale fermare la speculazione”, ha spiegato Orsini. Combattere la speculazione è un obiettivo nobile, ma è un problema che persiste da quando esiste la speculazione; è un mantra che si ripete come la lotta all’evasione fiscale. Per modificare il sistema di calcolo del prezzo del gas, è necessario un consenso europeo che finora non c’è stato, tanto che si è ricorsi al limite massimo. Anche se le cose cambiano, ci vorrà tempo.
Gli industriali sarebbero favorevoli a una riduzione della tassazione sui prodotti energetici, ma ciò si scontra con i vincoli di bilancio che sono comunque restrittivi. Era una delle battaglie di Giorgia Meloni quando era all’opposizione, oggi che è al governo diventa un problema. I margini di manovra molto limitati della politica fiscale hanno ridotto anche gli incentivi agli investimenti.
Nel triennio 2020-2022 sono stati utilizzati 29 miliardi di euro in crediti di imposta (circa 10 miliardi l’anno, ma con aliquote più alte); per il biennio 2024-2025 erano stati stanziati 6,4 miliardi di euro (di fatto 3,2 per anno); solo nel 2024 il ministro Giorgetti ha annunciato che sono stati erogati crediti d’imposta per oltre 6,3 miliardi di euro. Infine, il governo nel decreto fiscale ha dovuto “trovare” ulteriori 4,69 miliardi per coprire la sovra richiesta del credito d’imposta per il 2024.
Industria 4.0, nelle sue varie edizioni dal 2016 al 2023, è stata costosa per lo stato, ma ha funzionato per la produzione, aiutando le imprese ad ammodernare gli impianti e soprattutto a investire nel digitale, purtroppo solo in parte colmando il divario con i concorrenti europei. Transizione 5.0 conferma i 6,3 miliardi sotto forma di credito d’imposta, recuperati dalle risorse del Pnrr, ma finora è stata un fallimento.
Le aziende si tengono a distanza (finora hanno aderito meno di mille imprese). La drastica riduzione della domanda di macchinari e beni strumentali registrata alla fine dello scorso anno, secondo le stime prodotte a dicembre da Federmacchine, è stata di circa 5 miliardi di euro, meno 17,4%, rispetto al 2023.
L’economista Marco Fortis ha sottolineato che Transizione 5.0 è molto diverso da Industria 4.0. Non ci sono più super e iper-ammortamenti per i beni legati agli investimenti digitali, non c’è più il patent box, un regime fiscale agevolato per i brevetti, e mancano i crediti per la ricerca.
Sono aumentati i controlli e la burocrazia. Non è più previsto un finanziamento diretto dello Stato, ma tutto ciò che viene stanziato nella nuova agevolazione è stato recuperato attraverso il Pnrr. Quindi, non ci si può aspettare da Transizione 5.0 un’affluenza di richieste delle imprese come era avvenuto negli anni precedenti.
C’è poi il grande capitolo del cuneo fiscale e contributivo. Il taglio porta 13 miliardi di euro in meno nelle casse dello Stato. Ma non risolve la contraddizione di fondo: il sollievo nelle buste paga sarà modesto, da 250 a 300 euro l’anno per chi guadagna in media 3 mila euro al mese, ma all’azienda il lavoratore continua a costare più del doppio.
L’Italia condivide con Germania e Francia il livello del cuneo fiscale e contributivo, però i contributi a carico delle imprese e dei lavoratori restano superiori al peso fiscale, sottolinea la Confindustria. Anche in questo caso il vincolo di bilancio è ferreo, ci vorrebbe una riforma organica della busta paga, ma è un obiettivo difficile da raggiungere.
Abbiamo esaminato i desideri degli industriali; la maggior parte non è affatto irrealistica, anche se alcuni richiedono tempi troppo lunghi e quindi non sono utili per il rilancio congiunturale di cui c’è bisogno. Sarebbe opportuno a questo punto scegliere poche priorità da realizzare subito e sottoporle al Governo, alle altre associazioni economiche, ai sindacati. Con una raccomandazione fondamentale: non c’è tempo da perdere.
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Tags: Confindustria, Inflazione, Governo Meloni
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