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Roma, 14 feb – Si continua a parlare di fascismo e di foibe. Il «Giorno del Ricordo» non ha mai ricevuto in Italia, da una precisa parte politica, una benevola accoglienza. Fin dalla sua istituzione, nel 2004. La commemorazione delle vittime delle foibe e dell’esodo istriano, dalmata e giuliano, da atto doveroso di pietas, da momento di riflessione collettiva inteso a creare una memoria nazionale condivisa (secondo la lezione di Renan, per cui un popolo è davvero tale se quelli che lo compongono hanno affrontato insieme dei sacrifici e se, sempre insieme, hanno sofferto i medesimi mali) – è purtroppo divenuta, nella distorsione di significato promossa dalla sinistra più ostinatamente aggrappata ai brandelli del mito resistenziale, una «commemorazione fascista».
Ed è questo il motivo per cui, in tali ambienti della gauche nostrana, la ricorrenza del 10 Febbraio è depotenziata. Se non apertamente contestata. In quanto essa è percepita come una leva, fabbricata e impiegata dalla destra per scalzare il 25 Aprile dal posto d’onore che, secondo costoro, esso deve occupare nel calendario dello Stato repubblicano (quello nato, ça va sans dire, «dalla lotta di liberazione»).
La messa in discussione del «Giorno del Ricordo»
Ecco dunque che ogni anno, nell’imminenza del «Giorno del Ricordo», si rinnovano puntuali le critiche pretestuose alimentate dall’Anpi e dalle organizzazioni collaterali. Con l’immancabile apporto degli storici (veri o presunti tali) di complemento e, di tanto in tanto, la rumorosa mobilitazione di piazza dei turbolenti manipoli arruolati nei centri sociali. E poi i boicottaggi, tentati e sovente riusciti, delle iniziative sul «Giorno del Ricordo» organizzate nelle sedi scolastiche. Ecco il fastidio, più o meno celato, che traspare dagli articoli di alcuni quotidiani, dalle prese di posizione di certi esponenti di partito.
Ecco, infine, il tentativo di mettere in discussione la legittimità stessa del 10 Febbraio, con attacchi scomposti che fuoriescono, come onde anomale, dai confini nazionali per giungere a lambire – così per esempio riferisce una cronaca del «Giornale» (Lo sfregio alle foibe dei socialisti sloveni e croati: «Annullare la mostra al parlamento Ue») – le sponde delle istituzioni europee. Non si devono commemorare gli infoibati. Né ricordare il dramma dei profughi giuliani, istriani e dalmati, ammoniscono i contestatori del 10 Febbraio, se non si ricordano anche i crimini del fascismo contro gli slavi. E così dev’essere, aggiungono perentoriamente. Perché l’autentico responsabile delle foibe e dell’esodo fu in realtà il fascismo, essendo stata la violenza slava l’effetto delle violenze fasciste, la reazione, inevitabile e necessaria, alle medesime.
Mondo latino e mondo slavo: una contrapposizione di lungo periodo
Una tale argomentazione è però, dal punto di vista storiografico, approssimativa e grossolanamente semplificatoria. Non si vuole certo, in questa sede, sminuire la durezza della politica di snazionalizzazione delle minoranze slavofone attuata dal regime di Mussolini. E neppure si intende negare che il Regio esercito abbia talvolta agito, durante l’occupazione dei Balcani, in modo eccessivamente brutale nei confronti delle popolazioni civili. Si dovrebbe piuttosto contestualizzare, storicizzare l’intera questione. Ricondurre cioè la querelle legata al «Giorno del Ricordo» a un fenomeno di lungo periodo, complesso e sfaccettato. Ossia quello di una contrapposizione tra il mondo latino e il mondo slavo che fu molto più antica del fascismo, essendo iniziata parecchi secoli prima. Ovvero al tempo in cui le tribù paleoslave si insediarono, al crepuscolo dell’impero dei Cesari, nell’area di romanizzazione corrispondente all’ex regione augustea di Venetia et Histria.
E qualora poi si decidesse di distribuire i torti e le ragioni tra le parti in causa, occorrerebbe allora evidenziare quanto segue: che la politica fascista di assimilazione forzata degli slavi non è comparabile, né sul piano quantitativo né su quello qualitativo, alla pulizia etnica perseguita dal comunismo titino in Venezia-Giulia, Istria e Dalmazia; che quella politica fascista non era, in fondo, dissimile da altre politiche assimilazioniste praticate all’epoca da molti Stati europei (valgano a esempio le discriminazioni imposte dal Regno serbo-croato-sloveno agli italiani di Dalmazia rimasti sotto la sovranità jugoslava); che nel mattatoio dei Balcani, durante il secondo conflitto mondiale, il livello di violenza dei soldati italiani non si distinse certo per maggiore intensità da quello delle altre forze armate che si contendevano il campo; che infine le violenze titine contro gli italiani si verificarono prevalentemente in quei territori che, dopo la Grande guerra, erano stati assegnati all’Italia e che, di conseguenza, il nesso tra gli infoibamenti e l’esodo da una parte, e l’occupazione italiana della Jugoslavia dall’altra, risulta quanto mai labile.
Il fascismo fu responsabile delle foibe? Una teoria concettualmente difettosa
Il vero difetto dell’argomentazione dei contestatori del «Giorno del Ricordo», però, non consiste tanto nella sua fragilità storica. Quanto nell’uso improprio che essa fa del concetto di responsabilità e del principio di causalità. La relazione necessaria e universale tra un effetto e la sua causa, se applicata alla storia, è infatti sterile. Del tutto improduttiva sul piano della conoscenza. La storia, affermerebbe Dilthey, è una «scienza dello spirito», che studia l’uomo come essere calato nel tempo, che coglie il significato di un evento mettendolo in relazione al vissuto esperienziale del soggetto (individuale o collettivo che sia). Non è una «scienza della natura», come lo è la fisica, in cui vale il rigido determinismo implicito nella derivazione dell’effetto dalla causa.
Che a ogni azione debba corrispondere una reazione può, insomma, essere un principio valido per le leggi della dinamica. Non per quelle del mondo storico, che è il mondo dell’uomo. Un mondo in cui ha invece senso parlare di responsabilità, purché lo si faccia nei modi corretti. Per gli uomini infatti, essere responsabili significa poter essere chiamati a rispondere delle proprie azioni. A risponderne, per intendersi, alla coscienza, qualora si violi un codice morale o religioso, oppure a un tribunale, nel caso in cui si infranga una norma giuridica. E tale responsabilità è inseparabile dalla libertà, intesa come tratto costitutivo dell’essere umano. Perché, come direbbe Gentile, solo l’uomo, in quanto «spirito», è libero. Mentre non lo è l’animale, agito dall’istinto (chi mai riterrebbe responsabile un predatore per il fatto di avere divorato la sua preda?).
Il fascismo e le foibe: le responsabilità di Mussolini e quelle di Tito
Il concetto di responsabilità vale dunque per gli uomini, inclusi gli statisti. I quali, per ricorrere a un luogo comune, possono rispondere del loro operato al «tribunale della storia». Mussolini, capo del fascismo, fu allora responsabile delle proprie azioni? Certamente sì. Ma se egli fu responsabile delle azioni del fascismo, incluse quelle che andarono a detrimento degli slavi. Non lo fu certo degli eccidi fatti perpetrare da Tito, leader dei comunisti jugoslavi.
Il quale Tito porta per intero la responsabilità di ciò che ordinò di fare, perché un conto è sostenere che abbia reagito alla violenza altrui (sebbene non sia stata certamente questa la reale motivazione della sua politica anti-italiana), e un altro è misconoscere il fatto che avrebbe anche potuto non agire in quel modo, essendo (giova ribadirlo) le azioni e le reazioni umane il frutto di una libera scelta, non l’esito predeterminato della connessione di un effetto a una causa.
Ci si permetta, a questo punto, di concludere con un richiamo alle fonti, che sono la base più solida di ogni seria interpretazione del passato. In un rapporto del 23 ottobre 1943 sul recupero delle salme da una foiba presso Pola, si legge che tra i dodici corpi estratti dalla cavità sotterranea vi era quello di Maria Cnappi-Battelli, ostetrica di Albona. La quale, riferisce la relazione, dopo essere stata prelevata dalla sua dimora dai partigiani titini, era stata uccisa, e poi infoibata, per avere assistito «a un parto di donna slava che ebbe il bambino morto». Una donna italiana, una civile, assassinata e gettata in una foiba perché incolpata, senza prova alcuna, di una gravidanza dall’esito infausto. Fu questa, lo chiediamo ai contestatori del «Giorno del Ricordo», una reazione inevitabile a precedenti soprusi? Fu tale atroce e ingiustificato delitto una responsabilità del fascismo e di Mussolini?
Corrado Soldato
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