Il vertice della Banca d’Italia calcola che i maggiori effetti saranno sui conti italiani e tedeschi. Per l’ex primo ministro, le zavorre dell’Ue sono «le barriere interne e gli ostacoli normativi»
Mentre il paese guarda Sanremo e la premier Giorgia Meloni prosegue sulla strategia del silenzio, la minaccia americana di Donald Trump di stravolgere gli equilibri internazionali agita i principali attori economici.
Se il centrodestra – Fratelli d’Italia e Lega in concorrenza tra loro – continua a predicare la calma davanti alle politiche annunciate dal tycoon, ieri un avvertimento è arrivato da una voce certo non ostile.
Il governatore della Banca d’Italia Fabio Panetta, nominato dall’attuale esecutivo nel 2023 non ha indorato la pillola: l’impatto dei dazi annunciati dall’amministrazione Trump peserebbe mezzo punto percentuale sul Pil dell’Unione europea, «con effetti maggiori per Germania e Italia, data la rilevanza dei loro scambi con gli Stati Uniti», ha detto nel suo intervento all’Assiom Forex.
«Secondo le nostre stime, la crescita del Pil globale si ridurrebbe di 1,5 punti percentuali. Per l’economia statunitense l’impatto supererebbe i 2 punti», ha aggiunto, spiegando che i dazi danneggiano anche chi li impone ma che certamente l’Italia sarebbe uno dei paesi più colpiti dalle tariffe protezionistiche minacciate dagli Usa. Possibile che l’amministrazione statunitense usi i dazi «come leva negoziale per ridefinire i rapporti economici e politici», tuttavia «questa strategia potrebbe sfuggire al controllo», dunque la soluzione migliore è quella di trovare «soluzioni negoziali basate sulla cooperazione».
Insomma, nubi nere arrivano da Occidente e l’Italia verrà investita in pieno, se non metterà in atto una strategia che può solo essere comune con l’Unione europea. Riflessioni, queste, che arrivano sulla scrivania della premier e la costringeranno a una nuova scelta di campo: perseverare nel suo tentativo di essere la cerniera tra Trump e von der Leyen oppure riconoscere i rischi per l’Italia – economicamente prima ancora che politicamente – di assecondare il tycoon sperando che non vada fino in fondo con le sue minacce.
La voce di Draghi
L’Italia, del resto, è solo un ingranaggio di un meccanismo più complesso come quello europeo, che già da mesi è in allarme. La sveglia, però, ieri l’ha suonata l’italiano Mario Draghi dalle pagine del Financial Times: «L’Europa ha imposto con successo dazi su se stessa», è stato il commento caustico dell’ex presidente della Banca Centrale Europea ed ex primo ministro italiano.
«E’ necessario un cambiamento radicale», è il suo avvertimento in un editoriale in cui sollecita l’Ue ad attivarsi in direzione di politiche fiscali che incentivino gli investimenti produttivi, abbattendo le barriere interne così da favorire l’innovazione e ridurre la dipendenza da esportazioni.
La radiografia sullo stato dell’eurozona è inclemente e individua due errori principali: «le sue elevate barriere interne e gli ostacoli normativi» che sono «molto più dannosi per la crescita di qualsiasi tariffa che gli Stati Uniti potrebbero imporre». Tradotto: le molte barriere interne hanno favorito l’apertura commerciale fuori dall’Ue.
Le parole di Draghi hanno dunque un peso più politico che economico, perché mettono a fuoco il vero limite dell’Ue. Serve «un cambiamento fondamentale di mentalità» perché «finora, l’Europa si è concentrata su obiettivi singoli o nazionali senza calcolarne il costo collettivo» e «le barriere interne sono un retaggio di tempi in cui lo stato nazionale era la cornice naturale per l’azione», ma «è ormai chiaro che agire in questo modo non ha portato né benessere agli europei, né finanze pubbliche sane, né tantomeno autonomia nazionale».
La somma tra i dati snocciolati da Panetta e l’analisi di Draghi traccia una direzione chiara del prossimo futuro nel vecchio continente e soprattutto quale sia la via per il rilancio: un fronte comune negoziale da opporre a Trump e la fine dei campanilismi interni dal respiro corto.
Facile a dirsi, quasi impossibile a farsi in questo preciso momento, soprattutto in casa di Giorgia Meloni. La presidente del consiglio fino ad oggi è riuscita a barcamenarsi tra gli slogan nazionalisti e il rapporto amicale con l’Ungheria di Viktor Orban e i rapporti istituzionali con la Commissione europea a guida von der Leyen. Presto, però, questa posizione sarà sempre meno sostenibile. Anche perché Trump ha dimostrato di preferire l’effetto sorpresa, come con la mossa di parlare con Vladimir Putin per negoziare la fine del conflitto ucraino senza tenere in minima considerazione il ruolo dell’Europa.
Il francese Emanuel Macron ha convocato per domani a Parigi un vertice europeo sull’Ucraina, nel tentativo di recuperare il terreno perso e che sarà anche un modo per capire le posizioni dei singoli stati: quello dell’Italia in particolare.
Meloni è stata per anni grande sostenitrice della linea atlantica pro-Ucraina, ma anche su questo tema la sua voce si è abbassata da quando Trump si è collocato su posizioni più interventiste e dialoganti con la Russia. I segnali ci sono tutti e stanno diventando impossibili da ignorare. Nelle prossime settimane l’Unione europea sarà chiamata a un salto di qualità nella sua iniziativa politica ed economica e Meloni dovrà infine scegliere dove collocare se stessa e l’Italia davanti a queste sfide globali.
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