Germania, aspettando l’esito del voto

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Guardare alla Germania a pochi giorni dalle elezioni federali non può che suscitare un certo sconcerto, se non altro per la confusione che sembra regnare in quello che a lungo è stato il Paese simbolo della sobrietà e della stabilità politica. Tra la consacrazione di AfD, le incursioni di Elon Musk, le critiche di Angela Merkel al leader del suo stesso partito e una Spd che per prima pare non fidarsi del proprio candidato, non si può certo dire che questo periodo pre-elettorale sia noioso. Né che il futuro appaia meno confuso: al momento è infatti complicato fare previsioni sulla coalizione che verrà. Benché molte analisi diano come probabile una futura alleanza Cdu/Csu-Spd, è pur vero che tale probabilità diminuisce all’aumentare del numero dei partiti in Parlamento. Piccoli scostamenti percentuali possono cambiare in maniera tutt’altro che trascurabile la composizione del Bundestag. Dai sondaggi non è chiaro, infatti, se il Partito liberale e l’Alleanza Sahra Wagenknecht riusciranno o meno a superare la soglia di sbarramento del 5%; nel caso ciò accada, formare una “Grande coalizione” potrebbe diventare complesso. D’altra parte, distanza ideologica e polarizzazione politica rendono molto complicate le coalizioni a tre partiti, come dimostrato dall’ultima esperienza di governo. Un recente sondaggio mostra peraltro come oltre il 40% degli elettori preferirebbe un’alleanza tra i due partiti tradizionali, piuttosto che nuovi esperimenti tricolori. 

La difficoltà post-elettorale non rappresenterebbe certamente una situazione nuova: il sistema politico tedesco dà segni di cedimento – o quantomeno di mutamento della logica di funzionamento – già da un paio di decenni. Il fattore AfD ha certamente contribuito a esacerbare una situazione preesistente. È proprio il partito di estrema destra, d’altra parte, a essere il perno principale attorno al quale si è dipanata la confusione di queste ultime settimane. Una percentuale di elettori che ormai si aggira stabilmente attorno al 20% rende sicuramente molto complesso mantenere quella Brandmauer – il muro di protezione nei confronti dell’ultradestra – che dovrebbe rappresentare una chiara e insormontabile linea di demarcazione tra i partiti democratici e le forze estreme e radicali, e che tuttavia ha visto le prime crepe formarsi in seguito alla votazione congiunta Cdu/Csu-AfD della mozione anti-immigrazione dell’Unione. La mozione, in sé e per sé, non produce effetti concreti. Tuttavia, segna la prima forma di collaborazione con un partito finora tenuto sempre ai margini del Bundestag; fatto di una tale valenza simbolica da aver spinto Angela Merkel a sanzionare negativamente la strategia di Merz fino a portare 12 membri dell’Unione ad astenersi dal voto successivo relativo allo Zustrombegrenzungsgesetz, ossia la “legge sulla limitazione dell’afflusso” bocciata dal Bundestag il 31 gennaio. 

Friedrich Merz ha sempre escluso la possibilità di costituire un’alleanza con AfD dopo le elezioni e al momento non sembra esserci ragione di dubitare delle sue parole. Tuttavia, è chiaro che le ultime vicende aprono la strada all’ipotesi di un saltuario “appoggio esterno” che legittimerebbe di fatto la piena partecipazione di AfD alla vita politica del Paese, cosa che fino a questo momento si era cercato, almeno a livello nazionale, di scongiurare.

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La questione dei rapporti tra l’Unione e AfD può essere considerata da due punti di vista. Il primo è quello strategico-elettorale; il secondo è di carattere più generale. Se si prende in considerazione il primo punto, viene lecito chiedersi quale sia l’obiettivo di questa tentata “alleanza”, per quanto temporanea. La scelta di Merz di cercare consensi spostandosi verso posizioni più a destra, in particolare sul tema dell’immigrazione, rappresenta infatti una mossa non priva di rischi che, pur mirata a recuperare i voti dei cittadini preoccupati da questioni identitarie e di sicurezza, presenta due ordini di problemi. Il primo riguarda l’immediato futuro, vale a dire lo scenario post-elettorale. Se la “Grande coalizione” resta l’opzione più probabile, nonché la più desiderata dagli elettori, adottare un approccio così radicale sui temi migratori e cercare il consenso di AfD rischia di far partire l’esperienza di governo della futura coalizione più che in salita. Dopo la litigiosità della Ampel-koalition non sarebbe un segnale positivo per il sistema partitico nel suo complesso ripeterne le gesta. C’è poi un problema di più ampio respiro che riguarda la cultura politica del partito, laddove il rischio concreto diventa quello di svuotare di senso il concetto di conservatorismo cristiano-democratico, che dovrebbe essere necessariamente differente dall’idea che AfD ha di una politica di destra. È anche vero che tutta la cultura conservatrice (come in generale le culture politiche tradizionali) sta subendo un mutamento profondo e che ciò non accade certamente solo in Germania: il numero di Paesi in cui i partiti conservatori sono entrati in coalizione con partiti di estrema destra aumenta progressivamente e lo spostamento a destra viene spesso sanzionato positivamente dagli stessi elettori. È perciò da un lato comprensibile che Merz cerchi di capitalizzare un clima politico che certamente non richiede a gran voce misura e moderazione.

Quanto durerà in Germania il cordone sanitario contro AfD? Si scontrano, come spesso accade in presenza di partiti “estremi” o anti-sistema, due strategie opposte: quella della “normalizzazione” e quella dell’esclusione

Questo però pone sul piatto l’altra questione: quanto durerà in Germania il cordone sanitario contro AfD? Si scontrano, come spesso accade in presenza di partiti “estremi” o anti-sistema, due strategie opposte: quella della “normalizzazione” e quella dell’esclusione. La prima strategia ne prevederebbe un cauto e progressivo coinvolgimento nel gioco democratico; la seconda punterebbe invece alla perpetua marginalizzazione – o esclusione tout court, come nel caso dell’ipotesi di messa al bando del partito di Alice Weidel. Nessuna delle due strade è però priva di rischi: nel primo caso la normalizzazione è tutt’altro che scontata – e la storia offre esempi tanto del successo di questa strategia quanto, con conseguenze talvolta tragiche, del suo insuccesso. Non sorprende, benché il paragone sia più che azzardato, che il giorno dopo il voto congiunto tra l’Unione e AfD il nome di Merz sia stato ripetutamente accostato sui social media tedescofoni a quello di von Papen, il cancelliere dello “Zentrum” che a Weimar aprì le porte ad Hitler. Il timore di “aprire le porte” a una forza anti-sistema è reale e sostenuto da non poche voci autorevoli nel Paese.

Nel secondo caso, a fronte di un argine sempre più complesso da mantenere, viene però da chiedersi se abbia effettivamente senso mettere “fuori legge” una forza politica che non solo raccoglie ormai un consenso talmente vasto da rappresentare un problema politico, nel senso ampio del termine, più che partitico, ma che rappresenta anche una tendenza consolidata in tutte le democrazie occidentali. È lecito a questo punto pensare che morta una AfD se ne faccia semplicemente un’altra, forse peggiore della prima. È evidente che nel caso la Corte costituzionale federale ritenesse applicabile il “divieto” per AfD, la pericolosità del partito sarebbe certificata. Applicare l’articolo 21 del Grundgesetz è infatti tutt’altro che semplice: la diffusione di idee anticostituzionali non è sufficiente; è necessario dimostrare che il raggiungimento degli obiettivi anticostituzionali abbia un riscontro concreto, e che il partito sia coinvolto pienamente in azioni e atteggiamenti aggressivi e incostituzionali. Ma se anche AfD venisse bandita, resterebbe ancora il problema di dove collocare il sentimento politico e i voti conseguenti che la sostengono. Non si tratta, cioè, di una questione che possa essere risolta unicamente per via costituzionale né, tantomeno, per strategia politica e senza che contestualmente avvenga una profonda ridiscussione, purché indirizzata a una propedeutica rivitalizzazione, di cosa significhi vivere in una democrazia liberale nel mondo odierno e di cosa abbia da offrire, in questo contesto, la politica nazionale. 

Viene da chiedersi se abbia effettivamente senso mettere “fuori legge” una forza politica che non solo raccoglie ormai un consenso vasto, ma che rappresenta anche una tendenza consolidata in tutte le democrazie occidentali

È ormai noto che una buona parte dello stress politico contemporaneo derivi da un’evoluzione, non sempre finemente governata, dei rapporti tra cittadini e politica, tra politica ed economia, tra dimensione nazionale, sovranazionale e internazionale e più in generale, possiamo dire, dei rapporti di interdipendenza globale che non riguardano più solamente gli aspetti commerciali ed economici, ma che investono ormai trasversalmente e con ricadute concrete e tangibili qualunque aspetto della vita individuale e collettiva. È chiaro che non sono temi, questi, da campagna elettorale, dove si guarda, anche a ragione, a questioni più immediatamente affrontabili. Il problema è che è proprio la progressiva erosione della possibilità di affrontare anche le questioni più immediate a causare, probabilmente, buona parte della polarizzazione politica attuale. È anche vero, però, che in un panorama in cui per le singole entità nazionali diventa sempre più difficile poter effettivamente incidere sulle questioni cruciali che riguardano la vita economica e sociale dei propri cittadini, la Germania è forse uno dei pochi Paesi che ancora può, o potrebbe, vantare una agency consistente. Non solo per la posizione che l’economia tedesca – sebbene in crisi – ancora mantiene sul piano internazionale, ma anche per il ruolo che la Germania svolge o potrebbe svolgere nel contesto europeo. Volente o nolente – e più spesso nolente che volente – il Paese ha una capacità di indirizzo che pochi altri in Europa possono vantare. Il tema, a questo punto, diventa capire quale sia effettivamente questo indirizzo e a quali valori e principii esso si ancori: questione cruciale e alla quale un partito come la Cdu non può certamente guardare con superficialità e “brevetermismo”. 



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