[Benedetta Baracchi]
Cataclisma, viene dal greco “kataklysmós”, “inondazione”. Nel nostro immaginario, lo scenario catastrofico che maggiormente ci colpisce, come la forza dirompente dell’onda d’acqua che trascina via qualsiasi cosa incontri. Un richiamo al diluvio universale. Ciò che era qui, un attimo prima, ora non c’è più.
Gli ultimi due anni, tra cui il 2024 che abbiamo appena salutato, sono stati teatro di una quantità impressionante, e mai avvenuta prima in serie, di eventi climatici estremi, molti dei quali hanno colpito l’Europa e l’Italia, che ne risente in maniera particolare data la sua posizione nel Mar Mediterraneo, considerato uno degli hot-spot dei cambiamenti antropogenici in atto.
Nel 2023: caldo e siccità da record; la temperatura media della Terra arriva a 1,48 °C al di sopra del periodo preindustriale (l’Accordo di Parigi del 2015 stabiliva una soglia di 1,5 °C);
Maggio: doppia alluvione in Emilia-Romagna; Estate: in Italia, grandinate eccezionali al Nord e in Friuli, inondazioni sulle Alpi, forti ondate di calore al Centro-Sud, dove si sono registrati diversi record termici (tra cui 48.2 °C, in Sardegna a Jerzu); in Messico, l’uragano Otis devasta la città di Acapulco, provocando danni per 14 milioni di dollari e 39 morti. Settembre: disastrose alluvioni in Grecia, e in Libia, a Derna, dove si è verificato il cataclisma più grave di tutto il 2023: circa 20.000 vittime stimate e il crollo di due dighe, a causa di precipitazioni violentissime cadute in poche ore, a seguito del passaggio del ciclone Daniel; Novembre: alluvioni pesantissime in Toscana; quattro episodi alluvionali maggiori colpiscono anche gli Stati Uniti.
Nel 2024: il Brasile meridionale viene colpito dalla peggiore alluvione degli ultimi 80 anni; piogge senza precedenti nel Sahel costringono 6,6 milioni di persone ad abbandonare le proprie case e i propri villaggi; i tre uragani Beryl, Helene e Milton colpiscono il Golfo del Messico e parte degli Stati Uniti meridionali. Il secondo uragano, Helene, viene classificato come il più letale per gli Stati Uniti continentali dopo Katrina (avvenuto nel 2005);
Settembre e ottobre: l’Emilia-Romagna registra due nuove alluvioni lampo (quattro in totale in un anno e mezzo) e l’Europa centro-orientale viene attraversata dal vortice Boris, che provoca inondazioni in Austria, Slovacchia, Polonia e Romania. Il 2023 e il 2024 hanno anche totalizzato una riduzione record dei ghiacciai alpini (-12% del volume) e il più esteso evento di sbiancamento dei coralli mai documentato.
Quanti di questi episodi ricordavate?
Purtroppo, la verità è che tutti noi ci stiamo abituando a una “nuova, estrema, normalità”, all’interno di un territorio inesplorato, fatto di cataclismi di questa e altre specie, che si ripetono, ormai, con una frequenza sempre più disarmante, anche nella nostra amata isola. Gli effetti sempre più incontrollati della crisi climatica (sì, l’ho detto) si intrecciano all’incapacità umana di imparare la lezione dei suoi fallimenti per porre fine a un sistema economico e sociale diseguale e ingiusto, e a stili di vita ormai insostenibili. I fenomeni meteorologici estremi, lo sappiamo tutti e tutte, si sono sempre verificati; la fondamentale differenza con il passato è che gli eventi che registriamo oggi sono più frequenti e violenti a causa del surplus di calore e vapore acqueo contenuto in atmosfera. Solo in Sardegna, stiamo subendo gli effetti devastanti di una siccità sempre più onnipresente, della desertificazione, degli incendi, dell’impoverimento dei terreni agricoli, della distruzione sempre più incalzante degli habitat naturali e della perdita di specie animali e vegetali, che, insieme allo spopolamento, a un tasso di natalità ormai inesistente e alla povertà energetica in aumento, prefigurano un futuro sempre più difficile e drammatico per la nostra terra.
Quando penso alla crisi climatica in corso e alla nostra incapacità di prenderne atto per cercare di cambiare le cose, in Sardegna come nel resto del mondo, prima di tutto attuando la decarbonizzazione, mi viene sempre in mente una frase di Gramsci, scritta nel 1930, quando si trovava in carcere: “La crisi consiste […] nel fatto che il vecchio muore, e il nuovo non può nascere: in questo interregno si verificano i fenomeni più morbosi e svariati” (da Quaderni dal carcere, 3, (XX) § 34).In questa terra di nessuno, dove regnano l’apatia e la sopraffazione promosse dal sistema capitalistico, emergono, però, anche i lavoratori e le lavoratrici del Collettivo di Fabbrica GKN di Campi Bisenzio, nella città metropolitana di Firenze. GKN Driveline, divisione della multinazionale britannica per la produzione di semiassi e componenti per il settore automobilistico, licenzia 500 operai via pec nel luglio del 2021. I sindacati reagiscono con la richiesta del blocco dei licenziamenti, i lavoratori e lavoratrici con la più lunga occupazione di fabbrica della storia recente. «Spiccare il volo o cadere», dice il Collettivo. Al piano di delocalizzazione della proprietà (ex GKN, oggi Qf), progettato solo a fini lucrativi, e dimostrato anche dalla vendita del capannone nel 2024 con intento speculativo, al disinteresse dei governi che si sono susseguiti durante l’occupazione, gli operai della ex GKN antepongono un piano di reindustrializzazione in chiave ecosostenibile, un’azionariato popolare che supera 1 milione di euro, la mobilitazione e la comunicazione come strumenti politici per attuare un cambiamento inedito e rivoluzionario. Questi lavoratori e lavoratrici stanno sacrificando la loro vita con determinazione e azione politica collettiva, per dimostrare che, fuori dall’economia fossile, esiste il progetto della ex GKN e la creazione di un welfare locale e sostenibile. Per affermare che il sistema economico e sociale in cui siamo immersi va smantellato, e questa consapevolezza ci deve spingere a insorgere, affinché democrazia e lavoro tornino a essere legate tra loro. Che la salvaguardia del lavoro e dell’ambiente devono essere strettamente connessi e in armonia. Che è necessario un immediato intervento pubblico che aiuti la transizione energetica a realizzarsi dalle comunità e per le comunità. Per rendere la riconversione ecologica radicale e reale. E se questo spiraglio di lotta e desiderio è ancora vivo, è grazie a chi presidia e resiste, da più di un anno senza stipendio, e alle reti di solidarietà che danno loro supporto.
Il 9 dicembre scorso, a Calenzano, sempre nei pressi di Firenze, un’esplosione in un deposito Eni miete cinque vittime. Vorrei leggere alcune delle parole pubblicate dal Collettivo GKN a seguito di questo drammatico evento:
“A maggior ragione, con maggiore forza.
Riprendersi la vita in questa piana, prima che ci prenda la morte.
Parlateci ora di decreti sicurezza, mentre ci attanaglia l’insicurezza globale […]. Quanto sarà tossica la nube che ne è sprigionata, lo scopriremo tardi. Quanta vita ci sta togliendo l’aria che respiriamo ora, il cibo che mangeremo poi, lo scopriremo tardi o forse mai.
No, non abbiamo bisogno della tragedia per dire che avevamo ragione, per ribadire quanto è tossica l’economia fossile. Basta dare un’occhiata agli articoli che si trovano velocemente online per rendersi conto che tutto era scritto: “Deposito petrolifero ad alto rischio nel cuore della Toscana”.
Noi non vogliamo nuove cicatrici per avere la ragione. Vogliamo avere la forza di riprenderci la vita […]. Noi qua schiumiamo rabbia.
Noi qua, lasciati a marcire tra alluvioni ed esplosioni, senza stipendio da 12 mesi, rimbalzati lentamente da un tavolo all’altro, noi sentiamo il dovere di andare avanti.
A maggior ragione e con maggiore forza.
Che venga il consorzio pubblico, la fabbrica socialmente integrata e qua, a pochi metri da tutto questo, che nasca un polo delle energie rinnovabili della mobilità sostenibile.”
Nell’interregno di Gramsci, di cui abbiamo parlato prima, ci stanno anche molti lavoratori e lavoratrici che, in tutta Italia, nell’estate del 2023, a causa delle temperature estreme, oltre i 40°C, si sono ritrovati a subire un tale stress fisico e psicologico da arrivare, in molti casi, a riconsiderare le proprie condizioni di lavoro e di classe, animando quello che può essere definito come una nuova forma di resistenza, o di “ambientalismo operaio”. Un caso emblematico si è verificato nello stabilimento Electrolux di Susegana, a Treviso. Qui, nelle giornate del 23, 24 e 25 agosto, gli operai hanno smesso di lavorare senza autorizzazione, durante le ore più calde. Alla rivendicazione di benessere fisico, prettamente corporeo, si è unita la protesta politica contro la decisione della direzione di non concedere la cassa integrazione, prevista in circostanze di sostanziale impossibilità a lavorare a causa delle temperature estreme. Augustin Breda, delegato RSU FIOM a Susegana, riferendosi a quelle giornate, disse: “Le persone – [come le macchine] – vengono prese in considerazione solo se smettono di funzionare”.
Tuttavia, torniamo un attimo alla nostra immagine, all’idea di cataclisma: un cataclisma può anche essere uno sconvolgimento improvviso dell’assetto sociale e politico presente. Ciò che è crisi e subalternità, si rovescia, diventa nuova vitalità, nuova opportunità. Ed è da quest’immagine che dovremmo trarre una nuova forza. Come ci dimostra il Collettivo GKN, possiamo osare di immaginare un futuro diverso. Nutrito non tanto di speranza, che svuota di sostanza il presente per riempire il futuro di buone intenzioni, ma di desiderio, che, invece, abita il presente, e lo rende fertile di impegno e di azioni, individuali e collettive. Le comunità sarde potrebbero desiderare di diventare, ad esempio, locomotiva della transizione ecologica, forza trainante di una rivoluzione energetica che scopra modi più intelligenti, sostenibili ed efficienti di fare le cose. Evitiamo di diventare noi stessi contemporaneamente vittime e portatori del nostro stesso cataclisma.
Partiamo dalle parole: quando discutiamo di energia in Sardegna, proviamo a sostituire la parola “transizione” (che sembra non aver mai inizio), con la parola “riconversione”. Invece di burden sharing (ossia “condivisione degli oneri”), cominciamo a parlare di “condivisione delle opportunità”, mentre cerchiamo di razionalizzare un piano energetico regionale che ci porti responsabilmente a determinare quanta energia abbiamo (e avremo) necessità di produrre, per quali scopi, e in che modo. Mi rifiuto, personalmente, di pensare che una mobilitazione collettiva come quella dei Comitati contro la speculazione energetica in Sardegna, animata originariamente dall’intenzione profondamente democratica di evitare di creare nuove ingiustizie economiche e sociali e nuova povertà energetica, non riesca a cogliere che le risposte che sono state promosse o fornite alle istanze finora sollevate siano tutte sbagliate: una moratoria regionale sulle rinnovabili, la proposta di legge di iniziativa popolare Pratobello 24, la normativa regionale sulle aree idonee. Tutte forme concrete del “nuovo che non riesce a nascere”, di un sistema fondato sulla paura. Come la paura, infondata, dell’eolico e del fotovoltaico. Tecnologie bloccate, che, invece che essere considerate sinonimo di consumo di suolo e sfruttamento, al pari – incredibilmente! – delle forme di energia fossile, possono essere utilizzate in maniera intelligente, pianificate anche come bene pubblico, e contribuire al salvataggio del nostro paesaggio.
Ecco, io mi rifiuto di vivere nella paura. Invece di concentrarci sul senso di sicurezza, dovremmo convincerci intimamente che il sentimento di comunità può stimolare la sensazione di un impegno condiviso, di una presa di responsabilità e di autodeterminazione delle nostre scelte in campo energetico, di un bene comune che ci lega. Un impegno verso la conoscenza di ciò che ci può liberare, come le tecnologie rinnovabili (se opportunamente utilizzate e gestite), e che può diventare strumento di riscatto, per ribaltare la nostra condizione di subalternità storica e realizzare una “nuova normalità” per la Sardegna, questa volta, virtuosa.
Nel pensare a un mondo nuovo, non posso non riportare alla mente una bellissima immagine, molto recente: raffigura un bambino festante, in mezzo alla folla, nella Siria liberata dal regime di Assad. Desidero fortemente che anche mia figlia, che ha compiuto da poco 5 anni, nel 2030 possa sorridere e festeggiare in piazza come quel bambino e, nel riguardare la sua foto nel futuro, dire: “Era il 2030, l’anno in cui in Sardegna siamo riusciti a uscire dall’economia fossile”.
Utopia o desiderio di futuro?
Benedetta Baracchi, attivista, Fridays For Future Sardegna
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