In Italia ancora oggi solo una donna su tre ha un lavoro e di queste poco più della metà (il 51%) un impiego full time. Il 42% non è titolare nemmeno di un conto corrente personale. La parità salariale nel nostro Paese è ancora lontana dall’essere raggiunta nonostante questa spesso sia sinonimo di indipendenza e autonomia. Ne parliamo con Azzurra Rinaldi, docente di Economia politica presso l’Università Unitelma Sapienza di Roma e direttrice della School of gender economics.
Dottoressa Rinaldi, le donne continuano a guadagnare meno degli uomini. Cosa frena l’uguaglianza salariale?
Solo lo stereotipo. Perché la verità è che se il sistema economico fosse perfetto, le donne sarebbero più occupate e guadagnerebbero di più. Tutti i dati ci dicono che si laureano prima, con voti più alti e più raramente vanno fuori corso.
Perché le donne hanno maggiori difficoltà a parlare di soldi rispetto agli uomini?
Le donne vengono educate per non occupare ambiti significativi legati al potere. In questi contesti, quindi, non va bene se fanno carriera o se parlano di soldi perché tali comportamenti sono legati all’autodeterminazione e sfuggono a quel canone di femminilità. I soldi, infatti, sono il principale strumento di potere in un sistema capitalistico poiché sono sinonimo di scelta, libertà e indipendenza.
Come deve fare una donna per definire il proprio valore economico?
Bisognerebbe partire dall’immaginare di essere un’altra persona. Tendenzialmente, infatti, le ricerche di economia cognitiva ci dicono che quando noi valutiamo le altre persone siamo molto più generose di quanto lo siamo con noi stesse verso le quali, invece, rigettiamo critiche sulle esperienze fatte, sulle capacità o rispetto ai risultati raggiunti. Un altro tema è quello di compararci. A parità di professione, per esempio, domandare alle colleghe quanto prendono. Non parlarne ci indebolisce perché rischiamo di dare un valore economico al nostro lavoro molto più basso rispetto al valore medio di mercato.
Il gender gap in Italia rimane un problema difficile da scardinare. Perché non ci riusciamo?
Purtroppo, le persone non credono ai dati e la verità è che, per agire su un problema, prima di tutto bisogna che venga riconosciuto. Invece noi continuiamo a negare a livello culturale che esista. Nei meccanismi d’azienda invece il tema è la maternità. Nel nostro Paese, in assenza di asili nido, avere un figlio impatta esclusivamente sul lavoro delle donne e quindi quando una società decide di assumerne una, assume un soggetto che si trova in una situazione di potenziale fragilità.
Le lauree in discipline Stem sono sempre più richieste, eppure le iscrizioni femminili rimangono basse. Quali sono le motivazioni?
Molta letteratura dimostra che esiste una vera e propria segregazione delle donne rispetto ai numeri. È una distanza che viene coltivata da quando sono piccolissime. Faccio un esempio. C’è questa ricerca molto bella del Dipartimento di Istruzione americano che divide la popolazione studentesca in tre sottogruppi, quello dei bambini, quello delle bambine e quello del personale docente. L’indagine domanda a ciascuno dei partecipanti: “secondo te chi è più bravo con i numeri?”. Le bambine rispondono “i maschi”, i bambini affermano “noi” e il personale docente dice: “i maschi”. Eppure i voti più alti li prendono le femmine…
Quindi è tutto un fatto di stereotipo?
Totalmente. È un problema di convinzione. Questo lo vediamo anche con i giochi che regaliamo ai bambini e alle bambine. Ora si dice che le cose stiano cambiando. Sì, ma il cambiamento sta avvenendo principalmente nella nostra bolla di società. Sfortunatamente siamo ancora alla punta dell’iceberg…
Come stanno affrontando la questione del gender gap le nuove generazioni?
Culturalmente oggi molti giovani uomini sono più liberi rispetto al vecchio canone della mascolinità performativa e ciò li rende paradossalmente più forti anziché più fragili. Le ragazze invece sono effettivamente più consapevoli, un esempio lo è il fatto che negli ultimi tre anni è aumentato il numero di denunce per molestie e violenze presentate da giovani donne. Il dato in sé è brutto ma ragionevolmente può essere letto anche come il risultato di un incremento di coscienza rispetto a delle cose che prima venivano ritenute tollerabili.
Al momento, però, la strada è ancora lunga e anche qui ci ritroviamo, di nuovo, in una spirale di privilegio. Perché la verità è che per dare maggiore cognizione di causa a questi ragazzi e a queste ragazze serve un impegno a livello istituzionale e scolastico. La normativa non è sufficiente. Per esempio, per migliorare la situazione attuale si potrebbe introdurre l’obbligo di versare, per ogni nuovo contratto firmato da una donna, il compenso su un conto corrente personale. Già solo questo comporterebbe una differenza importantissima nel nostro Paese visto che abbiamo donne che accreditano ancora lo stipendio sul conto corrente del marito o, quando va bene, su uno cointestato con quest’ultimo.
Inoltre questa è anche la base per combattere la violenza economica. L’uomo, quando il rapporto sembra ancora sano, dice alla donna di lasciare il lavoro e che provvederà lui ai suoi bisogni. Con quelle che sembrano premure e amore, in realtà si stanno ponendo le basi per ciò che poi diventerà isolamento, subordinazione e quindi dipendenza. Si preclude la possibilità di un cambiamento, di una scelta. La donna viene bloccata in una vita che da sola non può permettersi.
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