perché per la Ue la Conferenza di Monaco è uno spartiacque

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La conferenza internazionale sulla sicurezza che si apre a Monaco di Baviera offrirà l’opportunità per il primo vero incontro fra i leader europei e la squadra di Donald Trump, guidata per l’occasione dal vicepresidente J.D. Vance. Al di là dei discorsi e dei dibattiti ufficiali, la conferenza sarà teatro per un intero weekend di contatti e negoziati informali ad alto livello sulla guerra in Ucraina e sul futuro della Nato, ed è stata preceduta da un vertice dei ministri della Difesa dell’Alleanza, a Bruxelles, e da un incontro più informale, a Parigi, fra i ministri degli Esteri di Francia, Germania e Polonia (il cosiddetto “triangolo di Weimar”) aperto a Italia, Spagna e Regno Unito, con Kaja Kallas a rappresentare l’Ue.

L’insediamento e i primi passi della seconda amministrazione Trump hanno imposto una brusca accelerazione al confronto intra-europeo e transatlantico anche su questo fronte. Appena una decina di giorni fa, un vertice informale dei 27 leader dell’Ue (aperto a Mark Rutte e, per la prima volta, Keir Starmer) si era limitato a sostenere la Danimarca in vista del rafforzamento della sicurezza nell’Artico (coinvolgendo la stessa Nato) e a ribadire l’impegno a spendere di più sulla difesa (ma senza entrare troppo nei dettagli).

Da questo punto di vista, permane ancora l’opposizione di alcuni paesi “frugali” – a cominciare da Berlino – all’emissione di eurobond per finanziare investimenti comuni nel settore, mentre sta invece crescendo il consenso su un’interpretazione più elastica dei vincoli alla spesa pubblica previsti dal Patto di stabilità per l’euro.

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Condizioni «straordinarie» giustificano misure altrettanto «straordinarie», aveva detto Ursula von der Leyen, e del resto la stessa Germania potrà rispettare i target di spesa fissati dalla Nato solo allentando o aggirando quei limiti a livello sia nazionale (il famoso “freno di emergenza” ancorato nel 2009 nella Legge fondamentale) sia continentale.

Per l’Italia, fra l’altro, sarebbe forse questa l’unica possibilità – a breve-medio termine – per arrivare almeno a quel 2 per cento del Pil che non è stata in grado di raggiungere neppure dopo la seconda invasione russa dell’Ucraina, aumentando cioè gli investimenti sulla difesa senza necessariamente penalizzare altre voci della spesa pubblica.

Risorse «straordinarie»

Al vertice Ue si é anche iniziato a discutere di come investire queste eventuali risorse supplementari «straordinarie», alla luce soprattutto della sollecitazione neanche troppo velata di Trump al buy american come condizione per assicurarsi la protezione di Washington.

E su questo erano (ri)emerse ben note differenze fra gli europei, in particolare fra chi – come la Francia – vorrebbe incoraggiare o addirittura blindare una “preferenza” europea (almeno per quanto riguarda l’accesso ai finanziamenti Ue) e chi – a cominciare dalla Polonia – ritiene invece essenziale comprare armamenti made in Usa anche per mantenere a tutti i costi una forte presenza militare americana sul continente. La parola dovrebbe ora passare alla Commissione, che il mese prossimo pubblicherà un Libro bianco sulla difesa con proposte dettagliate sia sulle risorse da mobilitare sia sul loro utilizzo.

Dal 2022 i paesi Ue hanno accresciuto significativamente la dotazione iniziale tanto dell’European Defence Fund (creato nel 2021 e gestito dalla Commissione), che co-finanzia nuovi progetti congiunti, quanto della European Peace Facility, esterna invece al bilancio comunitario e ora utilizzata anche per rimborsare parzialmente i paesi membri che hanno fornito equipaggiamento militare a Kiev.

Sul fronte della politica industriale, inoltre, l’Ue ha creato due nuovi strumenti per il supporto della produzione di munizioni e dell’acquisizione congiunta di armamenti: i fondi allocati finora, per un totale di circa due miliardi di euro all’anno, sono però ancora poco più che simbolici, e non sono comunque mancate le discussioni su chi sia autorizzato a percepirli.

Si parla inoltre della possibile creazione di un fondo fuori bilancio (special purpose vehicle, Spv) di almeno 500 miliardi – coperto e garantito dai soli paesi interessati (in modo da eludere, fra l’altro, il vincolo dell’unanimità a 27) e aperto a paesi europei non-Ue – con la prospettiva di coinvolgere anche capitale di rischio.

Per parte sua, la Banca europea per gli investimenti ha manifestato la propria disponibilità ad offrire crediti condizionati e mirati per il settore attraverso un’interpretazione più permissiva delle sue regole sulle tecnologie dual-use.

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La sicurezza dell’Europa

Alla luce di tutto questo, insomma, sarebbe miope riproporre oggi vecchie divisioni basate in parte sull’ideologia politica (atlantisti vs “gollisti”) e in parte sull’interesse industriale (fra chi ha propri “campioni” e chi no), anche perché diversi paesi europei – la Germania soprattutto, ma anche l’Italia e i nordici – avrebbero invece tutto da guadagnare da un mix intelligente fra i due approcci.

Per spendere di più e meglio, infatti, molti partner avranno bisogno di spendere assieme, utilizzando gli incentivi normativi e finanziari offerti dalla Ue e facilitando un consolidamento transnazionale del settore. Il necessario rilancio dell’industria europea della difesa, tuttavia, potrà tradursi in nuove capacità comuni solo a medio termine, mentre la sicurezza del continente a breve termine richiede anche di acquisire (ad esempio per la difesa anti-aerea o l’intelligence satellitare) sistemi e pacchetti off the shelf per lo più di fabbricazione Usa: è il caso ad esempio del progetto di European Sky Shield, lanciato da un gruppo di paesi guidato da Berlino, che non è realizzabile senza la tecnologia americana (e israeliana).

L’eventuale “preferenza” per il buy european, inoltre, dovrà tener conto della necessità di coinvolgere Londra, che pur essendo uscita dall’Ue cinque anni fa continua a rappresentare un interlocutore essenziale per la difesa del continente (non solo attraverso la Nato), e la cui industria militare è fortemente intrecciata sia a quella europea – da Airbus a Leonardo – sia a quella americana. Il settore sicurezza e difesa, del resto, è anche quello in cui i vantaggi reciproci e collettivi di un riavvicinamento sono più evidenti: un accordo di partenariato ad hoc (l’Ue ne ha già uno simile, ad esempio, con la Norvegia) sarà probabilmente all’ordine del giorno del primissimo vertice bilaterale previsto in maggio.

La sicurezza – presente e futura – del continente rappresenta ormai, del resto, un “bene pubblico” condiviso, che impone a tutti scelte magari poco popolari ma non più rinviabili, anche per rendere l’Europa il più possibile Trump-proof, a prova di Trump.


Antonio Missiroli è stato consigliere alla Commissione europea, direttore dell’Istituto di studi per la sicurezza dell’Ue, e segretario generale aggiunto della Nato. Ha insegnato a Sciences Po, al Collegio d’Europa di Bruges, a SAIS Europe e alla Scuola Superiore Sant’Anna.

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