Pensioni d’oro, legittimi i tagli alla rivalutazione

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Legittimo il taglio della rivalutazione delle pensioni d’oro del biennio 2022/2023. La legge di bilancio del 2023, infatti, nell’introdurre le misure di raffreddamento della rivalutazione (la c.d. perequazione automatica), a partire dalle pensioni d’importo oltre quattro volte il minimo Inps (2.101 euro; siamo nel 2023), non ha leso i principi di ragionevolezza, proporzionalità e adeguatezza. A stabilirlo è la sentenza n. 19/2025 della Corte costituzionale che dichiara infondate le questioni di legittimità sollevate dalla Corte dei conti delle regioni Toscana e Campania. 

In sostanza, per la Consulta, la garanzia della perequazione delle pensioni non annulla la discrezionalità del legislatore nel fissare il quantum di tutela di volta in volta necessario (non c’è alcun imperativo costituzionale che impone l’adeguamento annuale di tutte le pensioni). Inoltre, sull’effetto «trascinamento» (il fatto, cioè, che la perdita della rivalutazione di un anno produca, a cascata, effetti anche sulle successive rivalutazioni), la Corte ricorda al legislatore la possibilità di rimediare con le future manovre sulle pensioni.

La questione decisa dalla Consulta

La sentenza riguarda due ricorsi sulle norme di adeguamento delle pensioni all’indice Istat del costo della vita (rivalutazione o perequazione), come riscritte dalla legge n. 197/2022 (legge di bilancio del 2023). Per l’anno 2023, è stata riconosciuta integralmente solo alle pensioni fino a quattro volte il minimo dell’Inps. A quelle superiori, invece, è stata accordata in misura decrescente:

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  • 85% agli assegni fino a cinque volte il minimo;
  • 53% a quelli d’importo tra cinque e sei volte;
  • 47% tra sei e otto volte;
  • 37% tra otto e dieci volte;
  • 32%, infine, alle pensioni oltre 10 volte in minimo.

I ricorsi contestano questo taglio della rivalutazione che, ordinariamente,(dal 1° gennaio 2001), andrebbe applicata: al 100% alle pensioni fino a tre volte il minimo; al 90% tra tre e cinque volte; al 75% a quelle superiori a cinque volte.

Cosa dice la sentenza

La Corte giudica legittimo il taglio delle rivalutazione, richiamando principi già espressi con la sentenza n. 234/2020. La sentenza ricorda, tra l’altro, che la rivalutazione è strumento tecnico finalizzato a garantire l’adeguatezza delle pensioni nel tempo, a fronte delle spinte inflazionistiche, nel rispetto dei principi di sufficienza e di proporzionalità della retribuzione.

Una garanzia, tuttavia, che non annulla la discrezionalità del legislatore nel determinare il quantum di tutela da accordare di volta in volta, alla luce delle risorse disponibili. Del resto non c’è un imperativo costituzionale che imponga l’adeguamento annuale di tutte le pensioni. In questo contesto, spiega la sentenza, è l’importo della pensione l’indicatore della «non irragionevolezza» della scelta legislativa, atteso che le pensioni più alte hanno margini più ampi di resistenza all’erosione dell’inflazione.

Escluso l’effetto trascinamento

Ancora la Corte, non escludendo l’effetto «trascinamento» del taglio alla rivalutazione, offre due considerazioni. Prima: la possibilità per il legislatore di tener conto delle perdite, in occasione di eventuali analoghe misure sulle pensioni. Seconda: sottolinea (ma l’effetto è di ammonire) i vantaggi che deriverebbero da una «disciplina più stabile e rigorosa» della perequazione, in sintonia con quanto auspicava la Corte dei conti proprio sulla legge di bilancio 2023.

Non si tratta di disincentivo al lavoro

L’ultima censura riguarda le conseguenze che il taglio alla rivalutazione avrebbe sul lavoro dei più giovani e, in particolare, sulle donne: disincentiverebbe a impegnarsi sul lavoro, specie in quello «regolare». La Corte è categorica: la tesi non convince, perché non tiene conto del peso di altri motivi, che possono sorreggere scelte individuali di questo tipo: difficoltà delle giovani generazioni a trovare occupazioni corrispondenti alle proprie aspirazioni e retribuite in modo adeguato; intollerabile ritardo con cui si va colmando il divario di genere (gender gap) proprio in materia retributiva. Sono preoccupazioni che attengono allo sviluppo della vita lavorativa, più che al destino pensionistico.



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