Il lato oscuro del super lusso: la crisi della moda raccontata da chi la produce (con uno stipendio da fame)

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La moda di lusso italiana sta attraversando una crisi senza precedenti. Dietro le vetrine scintillanti e le campagne pubblicitarie patinate, il sistema produttivo dei grandi brand del lusso vacilla e con esso migliaia di piccole e medie imprese del nostro Paese. L’interessante inchiesta de Il Fatto Quotidiano

Sinonimo di eleganza e artigianalità, la moda Made in Italy è in realtà in forte crisi. E lo è soprattutto il tessuto produttivo più che i brand stessi, che negli ultimi anni hanno invece messo in pratica una politica di rincari piuttosto aggressiva.

Il settore moda è il secondo comparto manifatturiero italiano con un giro d’affari che sfiora quasi 100 miliardi di euro. Su di esso hanno gettato luce Ilaria Mauri e Pietro Barabino in una interessante inchiesta pubblicata sul Fatto Quotidiano.

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I prezzi sono alle stelle, ma i salari da fame

Negli ultimi anni, i colossi della moda hanno attuato una politica di rincari vertiginosa: una Chanel Classic Flap è passata da 2.800 a oltre 10mila euro, una Lady Dior sfiora i 6mila, mentre una Birkin di Hermès può ormai costare quanto un piccolo appartamento. E, quasi come se non lo sapessimo, questo aumento di prezzi non si traduce in un equo compenso per chi materialmente realizza questi prodotti.

Un imprenditore della filiera pelletteria, che lavora come terzista per i grandi marchi, racconta ai giornalisti del FQ:

Una borsa di Gucci venduta a 1.200 euro, a noi viene pagata appena 25 euro.

Un divario sconcertante che mette in luce le profonde disuguaglianze di un settore in cui il profitto viene concentrato nelle mani dei grandi gruppi, mentre le aziende fornitrici si trovano a operare con margini sempre più ridotti.

La crisi dei terzisti

I grandi brand della moda non possiedono impianti produttivi sufficienti per soddisfare la domanda, per questo si affidano a una rete di aziende esterne, i cosiddetti “terzisti”, piccole imprese specializzate in fasi specifiche della lavorazione, come il cucito, l’assemblaggio, la tintura o le rifiniture. Un sistema che garantisce ai marchi del lusso massima flessibilità e bassi costi di produzione, ma impone ai fornitori una dipendenza economica totale, spesso con contratti sfavorevoli e compensi non adeguati.

Nel 2024, il numero di ore di cassa integrazione nel settore moda in Italia è aumentato del 200%, con un picco del +139% nel settore pelle e cuoio. Nelle Marche – racconta il Fatto – hanno chiuso 700 aziende, altre 304 in Toscana, causando migliaia di posti di lavoro persi. La situazione è così grave che il governo ha stanziato 110 milioni di euro per finanziare la cassa integrazione, estendendola fino a gennaio 2025.

Lavoriamo per non fallire

Un artigiano della Valdarno, con una trentina di dipendenti, descrive la sua situazione drammatica:

Negli ultimi anni ho dovuto comprare nuove macchine per rispettare gli standard imposti dai brand, ma gli ordini sono calati e ora non riesco nemmeno a coprire le rate dei finanziamenti. Se chiudo, lascio per strada decine di persone.

Molti raccontano di aver visto il personale dimezzarsi: “Nel 2022 avevo 39 dipendenti, oggi ne ho 28 e nei prossimi mesi dovrò licenziarne altri cinque. La cassa integrazione per noi artigiani dura solo 12 settimane, mentre le industrie ne hanno diritto per periodi molto più lunghi. Così non possiamo sopravvivere”.

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Un sistema che penalizza i più piccoli

Il problema principale è che i grandi gruppi impongono condizioni sempre più stringenti ai fornitori, mentre loro stessi registrano profitti da record. Le proporzioni sono schiaccianti: un piccolo laboratorio artigianale fattura circa un milione di euro con un utile di 100mila euro, mentre gli intermediari diretti che lavorano per i brand possono fatturare oltre 20 milioni con utili di 2-3 milioni. La disparità è evidente.

Inoltre, tanti sono i brand che hanno abbandonato la delocalizzazione all’estero per mantenere il prestigioso marchio “Made in Italy”, ma senza garantire condizioni di lavoro dignitose ai produttori locali. I grandi marchi pagano gli artigiani italiani con compensi che non permettono la sostenibilità delle aziende, mettendo in pericolo un intero settore.

Vogliono la qualità, ma senza pagarla. Vogliono che siamo a norma, ma non si preoccupano di quanto veniamo pagati. Quando va bene, guadagniamo abbastanza per sopravvivere. Quando va male, ci indebitiamo, sperando che qualcosa cambi, spiega un altro imprenditore.

Non ne va bene una, dunque. Secondo Confindustria Moda, il 74% degli imprenditori del settore tessile-abbigliamento prevede una ripresa solo a fine anno, mentre il 19% teme che la crisi si protrarrà fino al 2026. Il governo ha annunciato un pacchetto di aiuti da 250 milioni di euro per il settore, ma basterà?

Per rilanciare davvero il comparto della moda, gli esperti sostengono che sia necessario un intervento strutturale: nuove politiche industriali e fiscali che incentivino la produzione sostenibile, la tutela delle piccole imprese e la giusta remunerazione dei lavoratori. Senza questi interventi, il rischio è quello di assistere al collasso di un’intera filiera produttiva che ha reso il Made in Italy celebre in tutto il mondo.

La domanda resta: possiamo ancora parlare di lusso se chi lo produce non riesce nemmeno a vivere dignitosamente?

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