di Giuseppe Gagliano –
La Guinea è finita in un vicolo cieco di repressione, violenza e potere militare senza più maschere. Dopo il golpe del 2021 Mamady Doumbouya si è insediato con la solita promessa di transizione democratica, riforme e ripristino della legalità. Ma, come sempre, la retorica rivoluzionaria si è rapidamente trasformata in una sistematica occupazione del potere, con un esercito che governa per sé stesso, reprimendo ogni forma di dissenso e utilizzando la violenza come unico strumento di controllo sociale.
Le nuove generazioni, che negli ultimi anni hanno cercato di imporre un modello di democrazia sostanziale, si trovano di fronte a un apparato di potere che non tollera interferenze. Giovani attivisti, artisti, studiosi e associazioni cittadine avevano scommesso su un futuro in cui la Guinea potesse finalmente liberarsi dal peso della sua eredità dittatoriale, ma si sono ritrovati con un regime che non solo ha interrotto qualsiasi processo democratico, ma ha anche riproposto la più brutale versione del dominio militare.
Nella retorica ufficiale la giunta al potere continua a vendere il mito della sovranità contro l’imperialismo, del riscatto nazionale contro le ingerenze esterne. In realtà, il cosiddetto “panafricanismo” sbandierato dai golpisti si traduce solo in un regime fondato sulla repressione, sulla censura e sulla gestione clientelare delle risorse del Paese. La vera ossessione di chi governa non è la libertà dalla dominazione straniera, ma la soppressione delle libertà civili e dei diritti politici interni. Il risultato è uno Stato che si regge su prigioni piene, informazione controllata, esercito onnipresente e oppositori sistematicamente ridotti al silenzio.
Mentre la giunta si arroga il diritto di governare senza legittimazione popolare, il sistema di sicurezza si rafforza e diventa l’unico vero attore politico. Polizia, servizi segreti e forze armate operano senza coordinamento, frammentate in fazioni rivali che prosperano grazie alle estorsioni e alla corruzione. L’ordine pubblico non è più una questione di diritto, ma una questione di arbitrio: chi è nel mirino del regime può essere prelevato nel cuore della notte, condannato in processi-lampo, torturato in centri di detenzione segreti e fatto sparire nel nulla. Il carcere dell’isola di Kassa, al largo di Conakry, è il simbolo di questa brutalità: un luogo in cui prigionieri politici subiscono violenze sistematiche mentre il governo si autoproclama difensore dell’ordine.
La repressione però non si limita alle opposizioni politiche. La società civile è stata smantellata pezzo dopo pezzo: partiti sciolti, sindacati repressi, proteste vietate e giornalisti minacciati. Chi non si allinea viene eliminato politicamente, se non fisicamente. Il regime, che inizialmente si era impegnato con la Comunità economica degli Stati dell’Africa occidentale a ripristinare un governo civile, non ha rispettato nemmeno una delle promesse fatte. Anzi, ha accelerato il consolidamento del suo dominio. Il referendum costituzionale annunciato non è altro che un pretesto per rimandare le elezioni e legittimare un’occupazione del potere che ormai non ha più limiti temporali.
Parallelamente la situazione economica si deteriora a ritmi vertiginosi. L’aumento del costo della vita ha reso la sopravvivenza quotidiana un incubo per la popolazione. L’inflazione colpisce ogni settore, i beni di prima necessità sono sempre meno accessibili e la fame si diffonde in modo allarmante. E mentre il popolo sprofonda nella miseria, la giunta usa il controllo sulle risorse minerarie come fonte di arricchimento personale e di consolidamento del potere. Settori strategici vengono concessi a società private e mercenarie, che gestiscono la sicurezza e le operazioni estrattive in un sistema di saccheggio organizzato.
Lo scenario che si prospetta non lascia spazio a illusioni. Le elezioni, se mai ci saranno, saranno pilotate per garantire la permanenza al potere della giunta, con il sostegno di una comunità internazionale abituata a chiudere un occhio sulle derive autoritarie in nome della stabilità geopolitica. Ma questa stabilità è solo un’illusione. L’inasprimento della repressione, il soffocamento di ogni opposizione e il crescente malcontento sociale stanno creando un clima esplosivo, in cui la tensione potrebbe sfociare in una crisi ancora più profonda.
Nel frattempo il regime si prepara a consolidare il suo dominio con la solita strategia: eliminare ogni figura politica di rilievo, costringere all’esilio gli oppositori più pericolosi e reprimere con la forza qualsiasi tentativo di resistenza. Il rischio concreto è che il Paese sprofondi in un ciclo di violenza senza fine, in cui l’unico obiettivo della giunta sarà sopravvivere a ogni costo, anche a scapito della popolazione. La Guinea, un tempo terra di speranza per una nuova stagione di democrazia africana, è ormai un laboratorio di repressione, in cui la libertà è stata sacrificata sull’altare del potere militare.
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