Mauro Ronco, Itinerari della modernità penale in Italia. Profili critici (1800-1930), G. Giappichelli Editore, Torino, 2025
1. Se per Giambattista Vico la natura di una cosa si disvela nella sua origine, il nuovo libro di Mauro Ronco si propone di studiare la natura del diritto penale moderno, concentrando l’attenzione sulle sue origini storiche, politiche, filosofiche e culturali.
Si tratta principalmente di un libro di diritto criminale, che tuttavia parte da lontano, nella convinzione che la contemporaneità penale non possa essere compresa senza prima studiare le idee giuridiche ma anche, ab imis, i fatti reali che hanno scatenato il sorgere di tali idee nelle élite culturali, nell’accademia, nel ceto forense, nella curia, nelle istituzioni e negli organi di governo italiani ed europei.
2. Cosa è stata davvero, nella concreta realtà dei fatti, la rivoluzione francese?
Cosa significava la parola “libertà” negli antichi regimi, quale “libertà” è stata effettivamente coltivata dai rivoluzionari francesi e cosa accadde con la restaurazione?
Quale fu la “libertà” del così chiamato “liberalismo” ottocentesco?
Quali furono i rapporti tra il “codice liberale” del 1889 (il codice Zanardelli) e il codice autoritario del 1930 (il codice Rocco)?
Da molti penalisti di oggi questi interrogativi – tranne, forse, l’ultimo – vengono spesso ritenuti come sostanzialmente superflui ed eccentrici rispetto alla loro disciplina giuridica, in una sorta di apparente agnosticismo politico-culturale (il quale, in realtà, è mosso – come tutte le opinioni umane – da idee e convinzioni precise, pur nulla neutre); probabilmente, in quanto rispondere a tali quesiti richiede un enorme impegno di studio e di analisi, di critica e di dialettica, oltre che il coraggio della parresia, del “dire tutto ciò che si pensa” su questioni cruciali, spinose o persino scabrose del tempo passato e attuale.
Il libro di Mauro Ronco, partendo dall’analisi delle fonti storiche, filosofiche, giuridiche e letterarie, si propone di esaminare anzitutto i fatti oggettivi e gli accadimenti politici che vanno dal 1789 al 1930, soprattutto tra Francia, paesi germanici e Italia, e poi le dottrine politiche e giuridiche che ne sono scaturite; ciò con l’intento di sfatare una serie di miti, di pregiudizi e di luoghi comuni che tutt’oggi circolano diffusamente nella comunità scientifica, offuscando spesso le reali idee loro sottostanti, primo fra tutti il topos della contrapposizione tra una “scuola classica” e una “scuola positiva” del diritto penale italiano.
3. Il testo si distende in tre parti, seguite da tre “appendici” e una lunga parte finale di taglio enciclopedico, contenente le biografie sintetiche «dei giuristi, degli uomini di cultura e della politica la cui opera è presa espressamente in considerazione nel testo».
La prima parte, che consta di un unico e corposo capitolo, contiene «uno sguardo sulla penalistica italiana della prima parte del secolo XIX»: è questo il luogo in cui l’Autore comincia a mettere in discussione la dicotomia tralatizia tra scuola classica e scuola positiva.
Per Mauro Ronco, la scuola positiva, pur contenendo al proprio interno vari orientamenti in parte eterogenei, è davvero esistita e ha trovato in Lombroso, Ferri, Garofalo e altri importanti autori i propri rappresentanti; di contro, la scuola classica sarebbe pressoché una invenzione a tavolino di Enrico Ferri, un “contenitore storico” nel quale vennero impropriamente collocati, quasi in via residuale, tutti i celebri autori che venivano prima e “fuori” della scuola positiva.
Per l’Autore del testo, accostare sotto la medesima etichetta di “scuola classica” criminalisti come Carmignani e Carrara a Romagnosi e ad altri criminalisti “non positivisti” rappresenta, dunque, un vero e proprio “falso storico”; infatti, si tratta di penalisti che – a differenza dei positivisti – non solo non avevano alcuna intenzione o consapevolezza di cooperare ad una scuola in qualche modo unitaria, ma partirono da premesse gius-filosofiche e giunsero a conseguenze teorico-giuridiche completamente differenti e, in gran parte, incompatibili tra loro.
In particolare, l’utilitarismo e l’illuminismo di conio francese di Beccaria, nonché il sensismo empiristico (quasi pre-positivistico) di Romagnosi, risultano assai distanti dalle radici giusnaturalistiche classiche di Carmignani e Carrara: i filoni di pensiero sono, infatti, completamente differenti e persino contrapposti.
Carmignani e Carrara si riallacciano alla tradizione italiana classica, di lontana matrice aristotelico-tomistica e poi vichiana (che, tuttavia, a fine ‘700 si era grandemente inaridita e opacizzata nelle prassi di scuola, poiché non ne venivano più attentamente studiate le fonti originarie), e non sono affatto allineati al mainstream dei Lumi francesi e mitteleuropei.
Di contro, Beccaria e soprattutto Romagnosi si ricollegano direttamente alla più recente esperienza del sensismo francese di Helvétius, Condillac e Condorcet, proponendo una teoria penale più vicina a quella di Feuerbach.
Prova ne sia – osserva l’Autore – che Carrara criticò aspramente l’idea romagnosiana della “spinta criminosa”, dimostrando di non aderire in alcun modo alla stessa e, ancor più, ai suoi presupposti teoretici ed etico-pratici.
Quella di una asserita “scuola classica” è, dunque, a giudizio di Mauro Ronco, una narrazione convenzionale appositamente congegnata da Enrico Ferri per comodità tassonomica e soprattutto per fini “promozionali”, vale a dire per segnare il solco tra una presunta dottrina penale passata e interamente superata, e il nuovo corso di una dottrina positivistica destinata, nelle intenzioni di Ferri, a dominare il futuro dell’esperienza criminale italiana ed europea, come in parte realmente avvenne.
La presunta contrapposizione tra una “scuola classica” e la scuola positiva si sarebbe, poi, affermata nel dibattito contemporaneo nell’indifferenza dei penalisti e la pigrizia degli storici, come notato dallo storico Mario Sbriccoli, oltre che nella latitanza dei filosofi, come aggiunge Mauro Ronco nella sua disamina, cercando con il proprio studio di rimeditare problematicamente questa artificiosa ricostruzione dicotomica.
4. Nella prima parte del lavoro, l’Autore esamina la penalistica italiana della prima parte del XIX secolo, suddividendola per comodità espositiva e comunanza di vedute in quattro filoni: quello lombardo-padano di Romagnosi e dei suoi seguaci (Giuseppe Giuliani e Carlo Cattaneo), quello toscano, quello napoletano e quello della retribuzione morale di Pellegrino Rossi.
Dopo un’approfondita critica al sistema romagnosiano e ai suoi postulati teorici, Mauro Ronco dedica un’ampia parte alla disamina del pensiero di Giovanni Carmignani, nella sua confutazione del kantismo giuridico e della sua concezione della pena, e alla dottrina di Francesco Carrara, sulla quale si è accumulata nel corso di oltre un secolo una serie di equivoci interpretativi e persino di pregiudizi ideologici che l’Autore si propone di esaminare e di sanare (cfr. anche le tre appendici finali del libro).
Un’analisi altrettanto estesa viene, poi, dedicata alla scuola napoletana oggi sostanzialmente dimenticata, anche a causa della damnatio memoriae di fonte post-unitaria: in pensatori come Gian Vincenzo Gravina, Giambattista Vico e, più di recente, Antonio Genovesi, Tommaso Natale, Gaetano Filangieri, Mario Pagano e Niccola Nicolini, Mauro Ronco individua la radice di un pensiero penalistico il quale, pur affrontando i problemi della modernità criminale, ebbe la pretesa di costruire un sistema proprio e in parte originale, senza necessariamente prendere a immediato modello la nuova dottrina penale francese e poi post-rivoluzionaria.
5. La seconda parte del libro concerne Il consolidamento del sistema penale italiano nel codice del 1889 e nelle leggi di prevenzione.
La disamina parte da una significativa narrazione di carattere storico circa il collasso della giustizia penale nell’Italia post-unitaria, la contestuale frattura tra lo Stato a guida sabauda e la società civile del tempo, l’emergere della questione meridionale e della crisi economica generale del Paese, la “complicità di Stato” a favore dell’usura e dello strozzinaggio (“liberisticamente” non punite dall’ordinamento penale), con la conseguente profonda sfiducia delle popolazioni rurali – cioè, della quasi totalità degli italiani riuniti – nei confronti del nuovo Stato.
A fronte di tali criticità e dei conseguenti fenomeni di instabilità politica, la reazione della monarchia non si fece attendere: ad un sistema penale apparentemente liberale e “umanitario”, che nell’abolizione della pena di morte vedeva lo specchio più evidente del proprio progresso, si accompagnò fin da subito la creazione e l’accrescimento di un corpus repressivo e autoritario di misure di prevenzione, asseritamente giustificate dalla necessità di far fronte – senza, però, le garanzie del diritto penale sostanziale – a oziosi, vagabondi, ladri, grassatori, truffatori, ricettatori già ammoniti, briganti e altre figure soggettive sgradite al sistema borghese.
A ciò si accompagnò poi un codice di procedura penale fortemente inquisitorio e illiberale, nel quale le garanzie dell’imputato erano pressoché un flatus vocis di fronte allo strapotere dell’esecutivo e dei pubblici ministeri; inoltre, la pena detentiva disciplinata dallo Stato unitario, in una sorta di ibridazione tra sistema filadelfiano e sistema auburniano, era ben poco umana e “liberale”: pur a fronte della grande conquista dell’abolizione della pena capitale, l’ergastolo nel codice Zanardelli costituiva una sorta di «pena di morte consumata a fuoco lento», mentre reclusione, detenzione e arresto erano congegnate in modo altrettanto disumano, con l’aggiunta dell’isolamento diurno iniziale quale strumento di feroce intimidazione.
Per Mauro Ronco, non è vero che il codice Zanardelli sia realmente e autenticamente “liberale” e, soprattutto, segua la linea teorica della cosiddetta “scuola classica” di Carrara; quest’ultimo penalista fu, infatti, via via marginalizzato nell’ambito delle commissioni di riforma, soprattutto dopo la svolta politica del 1876, e il suo pensiero non incise in modo decisivo nella formulazione del nuovo corpus normativo. Piuttosto, è vero che il codice del 1889 seguì in gran parte l’altro filone teorico – erroneamente inserito da Ferri nella stessa “scuola classica” – vale a dire quello romagnosiano, profondamente normativistico, prevenzionistico e oggettivistico.
Non è un caso, soggiunge l’Autore, che il codice Zanardelli non menzioni mai espressamente i concetti di “dolo” e di “colpa”, ritenuti evidentemente come troppo soggettivi e psicologici, e contenga palesi forme di responsabilità oggettiva oggi ritenute inaccettabili, che il codice Rocco non escogitò ex nihilo ma riprese a piene mani dal codice ottocentesco.
6. La terza parte del testo riguarda L’irruzione del positivismo criminologico e le nuove vie del diritto penale.
Qui viene esaminato a fondo il pensiero di Cesare Lombroso, Enrico Ferri e Raffaele Garofalo, anche in comparazione con la sociologia criminale di Franz von Liszt, non prima di un ampio approfondimento sulle radici darwiniane, evoluzionistiche e materialistiche della loro dottrina penale.
Nella seconda sezione, l’Autore illustra le ulteriori tendenze del positivismo criminologico in autori come Napoleone Colajanni, Scipio Sighele, Alfredo Niceforo e soprattutto Filippo Grispigni, nonché la voce dei loro oppositori come Emilio Brusa, Alessandro Stoppato ed Enrico Pessina.
La terza sezione, intitolata L’affiancamento del tecnicismo giuridico al positivismo criminologico, ha ad oggetto le dottrine penali di Vincenzo Manzini, Arturo Rocco e Eduardo Massari, ritenuti i “padri nobili” dell’indirizzo tecnico-giuridico, seguiti poi da studiosi come Giulio Battaglini e Ottorino Vannini: all’epoca, cioè nei primi anni del ‘900, la così chiamata “scuola classica” non aveva più, praticamente, alcun rappresentante al proprio interno, così che l’apparente “nemico” dei tecnico-giuridici era, adesso, l’unica “scuola” a quel tempo ancora maggioritaria, ossia quella positiva.
Qui Mauro Ronco intende problematizzare, sfumandola, la “contrapposizione” tra epoca liberale/codice liberale, da un lato, e Codice Rocco dall’altro: quest’ultimo, infatti, al di là di rare eccezioni, non sembra contraddire in toto gli assunti fondamentali del diritto penale cosiddetto “liberale” ma, per l’Autore del testo, finisce per condurre gli stessi ad estreme e ancor più illiberali conseguenze.
Anche in merito al topos del Codice Rocco inteso quale luogo di conciliazione e di superamento dell’antinomia tra le “scuole”, topos sul quale tanto insiste il Guardasigilli nella Relazione al Re, la posizione di Mauro Ronco è articolata e dialettica, mettendo in luce la forte curvatura che il nuovo codice subì, in effetti, verso il profilo della cosiddetta pericolosità del reo, la quale – come noto – costituisce il pilastro fondamentale della dottrina penale della scuola positiva.
7. Prima delle Biografie sintetiche dei giuristi, degli uomini di cultura e della politica la cui opera è presa espressamente in considerazione nel testo, il libro si conclude con tre ampie appendici finali, la cui lettura è indispensabile per comprendere lo spirito dell’intero testo monografico.
Nella prima appendice, l’Autore esamina il Giudizio di conio filosofico a riguardo di Carrara: sviluppando i rilievi critici dello storico Mario Sbriccoli in merito ai luoghi comuni via via elaborati sulla figura del celebre giurista toscano, Mauro Ronco sottopone a stringente critica le ricostruzioni filosofiche del pensiero carrariano elaborate, in epoche diverse, da Ugo Spirito, Fausto Costa e Alessandro Baratta, mettendone in luce gli aspetti discutibili o, a suo giudizio, infondati.
Analogo sguardo critico viene rivolto, nella seconda appendice, nei confronti delle riletture tecnico-giuridiche del Carrara: qui l’Autore affronta il comune addebito di “astrattezza metafisica” mosso a Carrara dagli autori di estrazione tanto tecnico-giuridica quanto positivistica.
Segue l’analisi delle opinioni espresse sulla dottrina carrariana da Giuseppe Maggiore, Giuseppe Bettiol e altri autori contemporanei: lo spirito della disamina è analogo a quello precedente, vale a dire il tentativo di superare alcune communes opiniones tralatizie, frutto più che altro di concrezioni doxastiche via via sedimentatesi nella dottrina attuale, ma non sempre fedeli al testo e alla ratio delle fonti di Carrara.
La terza e ultima appendice contiene la vera e propria pars construens, nella quale Mauro Ronco, alla luce dell’ampio studio storico, giuridico e gius-filosofico sin qui condotto, tira le fila del discorso e propone una rilettura originale del pensiero di Francesco Carrara: si tratta, per l’autore, di non cadere nell’equivoco di una (in realtà inesistente) scuola classica, ricostruendo piuttosto la visione di una “scuola italiana”, alternativa sia al giusnaturalismo razionalistico e trascendentale dei tedeschi, sia al materialismo e al sensismo francesi.
Il precursore della “scuola italiana” si può individuare in Giambattista Vico che, per Mauro Ronco, rappresenta il culmine della scienza giuridica italiana, il quale, nel recuperare e rinnovare la tradizione platonico-aristotelica e tomistica, e nell’adeguarla al corso dei tempi moderni, si rifiutò di seguire quegli indirizzi razionalistici ed empiristici che all’epoca, per via di ibridazione e di eclettismo, avrebbero dato sostanza all’Illuminismo europeo.
Partendo da Vico, poi, la “scuola italiana” transiterebbe per l’Autore attraverso la tradizione napoletana di Antonio Genovesi, Tommaso Natale, Gaetano Filangieri e Mario Francesco Pagano, innestandosi infine nella linea toscana, dal principale estensore della “Leopoldina”, Giuliano Tosi, a Giovanni Carmignani e, infine, Francesco Carrara.
Da Vico a Carrara, «il giure penale ha la sua genesi e il suo fondamento nella legge eterna dell’universale armonia», «la verità è il principio d’ogni diritto naturale» e la giustizia è «eterna verità della mente l’ordine eterno delle cose, l’eterna ragione, allorquando essa prefigge alla mente il vero eterno; ella è eterna giustizia della eterna volontà, quando comanda all’animo l’equità».
Per Mauro Ronco, Carrara rintraccia il metodo della scienza penale in una medietas che lo sottrae ai rischi tanto del razionalismo quanto dell’empirismo.
La base scientifica dell’opera di Carrara sta nell’individuazione del principio che conferisce, per un verso, alla scienza un carattere dimostrativo e, per altro verso, è capace di razionalizzare l’insieme dei dati giuridici che la storia incessantemente e confusamente somministra agli operatori del diritto.
A giudizio dell’Autore, Carrara ritrova tale principio nella vera cognizione della natura umana, presupposto necessario della scienza giuridica: solo la metafisica può fornire il vero concetto della natura umana di cui la scienza giuridica ha bisogno.
Il concetto di diritto non può ultimamente fondarsi se non sul concetto di verità, poiché il diritto non può essere se non un modo con cui si manifesta la verità.
Il diritto penale, in specie, come peraltro ogni branca del diritto, è la composizione della giustizia, come istanza di uguaglianza e di proporzione, con le utilità che diversamente concernono l’egoismo umano. L’uguaglianza, peraltro, non si può stabilire con i soli sensi empirici, ma solo con la ragione, capace di guardare a qualcosa che trascende ogni interesse e ogni particolarità, e che si impone non perché piacevole o facile o comoda, ma perché vera.
Come si legge, infine, nell’ultima parte dell’appendice, Carrara enuncia il carattere storico della scuola italiana, che si era formata concretamente «nella doppia fucina dell’accademia e del foro», serbandosi ugualmente incontaminata, come già detto, dalle visioni trascendentali del razionalismo e dal materialismo empirista.
Egli enuncia, per un verso, la genealogia del suo pensiero e, dunque, la sua natura, se è vero che – come detto nell’incipit –la natura di una cosa si disvela nella sua origine e, per un altro verso, chiarisce la sua estraneità alle filosofie del diritto penale che ne avevano solcato in modo particolarmente incisivo la storia nel secolo precedente.
Il caposaldo della scienza penale sta dunque – per Mauro Ronco nella sequela di Carrara – nell’esigenza che essa si formi nell’intreccio tra la ragione teorica, il cui luogo è l’accademia, e la ragion pratica, il cui luogo è il foro, le quali costituiscono il plesso in cui il diritto pulsa come cosa vivente, mentre la sede legislativa è contingente e, non infrequentemente, regressiva.
Gabriele Civello
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