Processo Mimmo Lucano, attesa sentenza Cassazione

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L’accoglienza non era una truffa. Si chiude sei anni dopo il suo clamoroso arresto il processo a Mimmo Lucano, sindaco di Riace ed europarlamentare per Avs, che oggi ha visto confermare in Cassazione l’assoluzione pronunciata dalla Corte d’Appello di Reggio Calabria. Respinto anche il ricorso della difesa, che chiedeva l’annullamento della sentenza per un falso relativo a una determina per un concerto, per la quale era stato condannato a un anno e mezzo, pena sospesa. Crolla dunque, in modo clamoroso e definitivo, l’impianto accusatorio della Procura di Locri, che aveva ottenuto i domiciliari per “Mimmo il Curdo” ipotizzando una truffa milionaria sulle spalle dei migranti. Nulla di tutto ciò: tutti i reati relativi all’accoglienza sono stati cestinati. Di fatto confermando la tesi dei giudici d’appello, secondo cui non esisteva alcuna associazione a delinquere (la procura generale, sul punto, non aveva nemmeno impugnato l’assoluzione), nessuna truffa e nessun arricchimento personale. E non esiste nemmeno quel profilo di Lucano tratteggiato dal Tribunale di Locri – che lo aveva condannato a 13 anni e due mesi -, così malefico da non meritare nemmeno le attenuanti generiche perché incensurato. Lucano oggi era in Cassazione con il suo avvocato Andrea Daqua. Assenti, invece, gli esponenti del partito che lo ha voluto in Europarlamento.

«È finito un calvario», ha raccontato al Dubbio subito dopo la sentenza. «Sembrava non dovesse mai finire. Sono convinto che il movente di tutta questa storia sia da ricercare nel momento in cui l’Italia ha intrapreso quella deriva politica a destra, con la questione dei migranti che è diventata centrale nel dibattito politico mondiale. Il consumismo ha preso il sopravvento sui valori umani e il contrasto ai migranti è stato strumentalizzato per acquisire consenso elettorale. Riace proponeva una soluzione, un’alternativa, proprio in un periodo in cui il mondo intero cercava soluzioni per contrastare l’immigrazione, parlando di invasioni pericolose che sottraevano spazio a chi viveva in condizioni di precarietà sociale ed economica. In quegli anni sono nate le collaborazioni tra l’Italia e la Libia, i famosi memorandum firmati dal governo Gentiloni. Ma le parole del regista Wim Wenders su Riace, definita un’utopia, e la copertina di Fortune dedicata a me, hanno mostrato un’altra via: una storia locale che ha un valore globale, proprio perché ribalta il paradigma in maniera forte. L’accoglienza non è un problema, ma anzi è un’enorme opportunità. E per questo doveva essere contrastata. Sono convinto al 100% che tutto nasca da questo».

Ma, dice, finito il processo non finisce l’impegno. «Abbiamo dimostrato di avere resistenza, di saper resistere a tutto», continua. «Ma non possiamo fermarci: la situazione nel mondo è peggiorata. Però oggi sappiamo che esiste una possibilità. Riace ha dimostrato che è possibile rispettare i diritti umani, e che le persone che arrivano via mare non lo fanno per piacere, ma perché sono in fuga dalle guerre e dai drammi umanitari. Mi fa un po’ rabbia pensare che i memorandum siano stati approvati e prorogati anche da forze politiche di sinistra. Non voglio fare polemiche in un momento per me di felicità, ma questa vicenda non riguarda solo me, nonostante la sofferenza, ma tante altre persone. Ringrazio tutti coloro che mi hanno dimostrato solidarietà, che è stata fondamentale per crederci e che ha avuto un effetto contagioso, dando forza e coraggio per andare avanti».

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L’accusa puntava a ribaltare il racconto che tutto il mondo aveva imparato: quello di un modello studiato ovunque, emulato, praticamente santificato. Il sottotesto era chiaro: quei soldi non servivano ad aiutare i più deboli, ma ad ingozzare un modello criminale. Ma questo tentativo di contronarrazione è fallito: la demonizzazione di Riace è evaporata. Un fatto chiaro sin da subito, tanto che la Cassazione aveva smontato le esigenze cautelari ponendo molti dubbi, ma ci sono voluti sei anni, la distruzione di un modello – che tanto è rinato – e la criminalizzazione dell’accoglienza prima di comprenderlo. Lucano, alla fine, è stato condannato per un’ipotesi di reato in cui incappano centinaia di sindaci ogni giorno, di destra e di sinistra. Ma il fine di questo costosissimo e inutile carrozzone ha raggiunto il suo obiettivo: distruggere un’alternativa alla politica anti-migranti.

I giudici d’appello, in punta di diritto, avevano confermato la forzatura – già sostenuta da numerosi giuristi – sull’utilizzo delle intercettazioni, in quanto «risulta in via documentale, ed è incontestato tra le parti, che le intercettazioni furono inizialmente richieste ed autorizzate per i reati di cui agli artt. 317, 323 e 640 bis cod. pen. (…) e sulla scorta della prima relazione ispettiva». Non era possibile, ovviamente, intercettare per l’ipotesi di abuso d’ufficio (poi tramutato in sentenza addirittura nel reato di truffa, di cui non vi è prova, secondo il collegio), per cui le intercettazioni sono state effettuate fuori dai casi previsti dalla legge. Ma emergendo ulteriori ipotesi di reato rispetto a quella iniziale era necessario, secondo i giudici, trovare ulteriori prove dei fatti (prove la cui esistenza era certa, secondo la sentenza di primo grado). Di queste prove non c’è nemmeno la minima traccia, stando alla sentenza d’appello. Il sostituto procuratore generale aveva provato a chiedere un nuovo processo relativamente all’utilizzabilità delle intercettazioni, sposando il ricorso della procura generale di Reggio Calabria, secondo cui i giudici d’appello non avrebbero «considerato che proprio nel caso in esame la captazione correttamente autorizzata, per come ancor meglio si esporrà più oltre, è stata disposta sul presupposto della esistenza di gravi indizi del reato di cui all’art. 640 bis cp e, pertanto, rimane del tutto insensibile al fisiologico sviluppo del procedimento». Un tema approfondito oggi in Cassazione dai difensori degli imputati, i quali hanno evidenziato che, al momento della chiusura delle indagini e del rinvio a giudizio, l’accusa contestata non consentiva di disporre intercettazioni e che la sentenza d’appello ha operato una prova di resistenza delle accuse, prova fallita.

E anche il giudizio morale espresso dal Tribunale di Locri – che lo aveva definito «un falso innocente» – è stato spazzato via. La sua personalità, scrivevano i giudici, «il contesto in cui ha sempre operato, caratterizzato da un continuo afflusso di migranti, l’assoluta mancanza di qualsivoglia fine di profitto, l’indiscutibile intento solidaristico, gli sforzi per portare avanti la propria idea di accoglienza (nelle sue stesse parole, io devo avere uno sguardo più alto)» sono «indicatori meritevoli di considerazione». E «i dialoghi captati (…) mettono in luce lo spirito di fondo che ha mosso l’imputato, certo di poter alimentare una economia della speranza, funzionale a quella che più volte Lucano ha definito essere la sua mission, ovvero poter aiutare gli ultimi». «Lucano – scrivevano i giudici – non si appropriò di alcuna somma di denaro». L’ampia istruttoria, del resto, «non ha offerto elementi per ritenere provati nessuno degli elementi che, nella pratica giudiziaria, vengono valorizzati per dimostrare l’esistenza di una struttura associativa». Insomma, una vera e propria decostruzione dell’accusa. E una rivincita del modello Riace.



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