perché la giustizia riparativa è un’occasione per tutti. A partire dalle vittime- Corriere.it

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di Antonio Polito

Le ragioni di uno strumento giuridico nel volume, edito da Laterza, del magistrato Marcello Bortolato e del giornalista del «Corriere» Edoardo Vigna

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Aben pensarci, la vera vittima del processo penale è la vittima stessa. Chi ha subito un reato, un torto, chi ha sofferto.

Eh sì, perché il processo è un gioco a tre: la pubblica accusa, l’imputato e il giudice. La vittima non c’è. È vero, può costituirsi parte civile, ma così ottiene solo, nella migliore delle ipotesi, un risarcimento del danno subito. E invece la vittima può volere anche altro, qualcosa di più di un risarcimento: una riparazione.

Ma quando il processo è terminato, gli anni di carcere sono stati inflitti, le sbarre si sono chiuse alle spalle del colpevole, anche la vittima è condannata; e la sua pena è la «tirannia del dolore», l’obbligo di pesarlo con l’unica bilancia degli anni di carcere inflitti al reo, mentre in aula scoppiano gli applausi alla lettura della sentenza, perché vendetta è compiuta, o le urla di rabbia, perché nessuna condanna è mai abbastanza. Il resto è silenzio, il dopo è silenzio: la vittima resta «vincolata all’irreparabile», nell’impossibilità di spiegare che cosa ha provato, perché continua a non dormire la notte, ad aver paura, perché proprio io, perché quella mattina, che cosa diavolo gli sarà passato per il cervello a puntarmi in faccia una pistola, a prendermi a pugni, a saltarmi addosso, a farmi violenza?


Ecco, prima di leggere Oltre la vendetta (Laterza), il piccolo ma prezioso libro di Marcello Bortolato, un magistrato, ed Edoardo Vigna, un giornalista del «Corriere», non avevo mai pensato alla «giustizia riparativa» dal lato della vittima. Sapevo, sì, che la riforma Cartabia ha introdotto questo nuovo istituto nel 2022, un programma che consente di mettere insieme intorno a un tavolo, ma solo se entrambi lo vogliono, la vittima e la «persona indicata come autore dell’offesa» (espressione abbastanza ampia da comprendere anche chi è indagato o imputato ma non ancora condannato, dunque anche a processo in corso), con l’obiettivo di «risolvere le questioni derivanti dal reato». Ma pensavo che si trattasse in definitiva solo di un’ulteriore (e benedetta) norma tesa ad applicare il principio costituzionale della funzione rieducativa della pena: in sostanza, una mano tesa al condannato. Magari in cambio di redenzione, di scuse, di contrizione.

E invece ho scoperto altre cose. La prima delle quali è che né il pentimento né il perdono sono richiesti. Se ci sono, meglio; ma lo scopo non è quello. È parlarsi, comunicare emotivamente, riconoscersi reciprocamente, trasformare una relazione violenta in una normale. Il caso più noto è quello di Agnese Moro, che ha partecipato con successo a un programma di giustizia riparativa con gli assassini del padre, ma non sappiamo se abbia mai perdonato, il perdono è un fatto privato, «che non si può chiedere a tutti e non tutti sono in grado di dare». E d’altra parte bisogna evitare il rischio di un «buonismo» giudiziario, destinato a sconcertare l’opinione pubblica e a trasformarsi in paternalismo moralistico.

Non si può escludere infatti che un imputato punti solo a ottenere un beneficio, e infatti a chiedere l’accesso ai Centri e ai mediatori sono soprattutto loro, più che le vittime. Ma se poi la procedura non funziona, o la vittima non ci sta, il giudice potrebbe esserne condizionato, e dunque per gli insinceri è un’arma a doppio taglio.

In ogni caso, se la cosa non riesce si ferma tutto, e nessuno saprà mai perché. Se invece si raggiunge un accordo, questo comporterà «un impegno reciproco su qualcosa da fare o da dare, simbolico o materiale». Una ferita sarà sanata. Il giudice potrà raccogliere l’esito positivo e concedere un’attenuante, o un beneficio se si tratta di un condannato già in carcere. Oppure no.

Non si tratta dunque di «giustizia riparatoria», già prevista del resto nel nostro ordinamento attraverso risarcimenti, restituzioni, prestazioni a favore della comunità, lavori di pubblica utilità e cose del genere. «Riparativa» è un termine diverso da «riparatoria», e dovrebbe evocare il «Restorative Justice» del diritto anglosassone, visto che è impossibile tradurre in italiano con «ristorazione» ciò che è anche «rigenerazione» e «ricostruzione».

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Ci risulta più facile comprenderne il fine, se applicato a vicende in cui appare possibile superare «lo scandalo della equiparazione», mettere cioè allo stesso tavolo vittima e reo, nella speranza di «aggiustare il passato senza infliggere dolore nel presente», per usare una frase di Martha C. Nussbaum. Nei grandi processi di riconciliazione nazionale, come quello del Sudafrica dopo l’apartheid o dell’Irlanda del Nord alla fine della trentennale guerra civile. O per una chiusura definitiva della stagione del terrorismo.

Ma ci sono anche molti altri casi in cui è intuitivo il vantaggio, e di conseguenza il beneficio, di una possibile «riparazione». Pensiamo a reati di bullismo o di violenza tra adolescenti, ormai tanto insensati quanto frequenti. Pensiamo ai cosiddetti «reati senza vittima», come lo spaccio di stupefacenti, o la guida in stato di ebrezza, in cui il colpevole può comunque chiedere di incontrare una vittima «surrogata». Oppure ancora i casi in cui una vittima «aspecifica» di un delitto il cui autore non è stato mai individuato (un rapinatore, uno stupratore) può far comprendere al colpevole di un analogo reato il dolore provato, e ottenere in questo modo una qualche riparazione dell’offesa subita.

La «giustizia riparativa» è certo una strada impervia, difficile, a rischio di incomprensioni e fraintendimenti. È altrettanto sicuramente un salto di civiltà, perché la parola «giustizia» non è un sinonimo di «vendetta»: forse la comprende, ma non vi si esaurisce.

12 febbraio 2025 (modifica il 12 febbraio 2025 | 11:02)



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