Jenin, dentro il campo profughi

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Di: Emiliano Bos, inviato RSI in Israele e Cisgiordania

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JENIN. Lo scheletro nero di una bicicletta. Tizzoni anneriti nel tinello. Travi bruciate accartocciate sulla rampa delle scale. È tutto ciò che resta della casa del signor Walid Masharqa su questa collina che domina il campo profughi di Jenin. Dalle finestre sghembe si vedono assi penzolanti nel vuoto. “L’hanno bruciata i soldati israeliani” dice un vicino. I residenti della casa sono stati costretti a fuggire. Scendiamo per una strada divelta, trasformata in un sentiero di terra dai giganteschi bulldozer dell’esercito di Israele usati per scardinare asfalto e infrastrutture. Ci infiliamo in un vicolo tra un muro e un edificio rimasto in piedi. Gli altri sono stati sventrati.

Quello che resta della casa di Walid Masharqa, che secondo i suoi vicini è stata bruciata dall’esercito israeliano (Emiliano Bos – RSI)

L’operazione militare di Israele in corso da 20 giorni è come una scossa tellurica che si ripete e si propaga, con tremori di assestamento identici al sisma iniziale. Tondini di ferro ondeggiano sul vuoto, strappati dai muri ai quali davano forza. Un gatto spelacchiato dal manto rossiccio si aggira sulle macerie tetre. Intere vie sono state demolite in modo sistematico. “La stessa tecnica di Gaza”, denunciano i palestinesi: allontanare gli abitanti, demolire le loro case, impedirne il ritorno. Israele ha lanciato questo massiccia operazione militare in Cisgiordania il giorno dopo la tregua a Gaza, partendo proprio da Jenin. L’ha chiamata “Iron Wall” (“muro di ferro”), ma di muri intatti ne sono rimasti pochi. L’offensiva voluta da Netanyahu si è già allargata al campo di Nur Shams a Tulkarem, e a Tubas. Il bilancio, ancora provvisorio, è di oltre 70 morti tra cui 8 bambini e una donna incinta. E migliaia di sfollati.

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Dal campo profughi di Jenin sono state sfollate a forza migliaia di persone ma molti residenti restano perchè non hanno alternative (Emiliano Bos – RSI)

Qui nel campo di Jenin a inizio febbraio i militari dello Stato ebraico hanno fatto esplodere 23 edifici tutti insieme. La devastazione davanti ai nostri occhi è impressionante. Ma è impossibile addentrarsi in queste viuzze: si ode distintamente il crepitio delle armi da fuoco. Sono in corso scontri tra miliziani armati palestinesi e soldati di Israele. Non solo, ma sui tetti sono appostati cecchini dell’esercito. All’improvviso due droni israeliani ci sorvolano a bassa quota. Troppo pericoloso rimanere qui. Occorre allontanarsi velocemente.

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Nel campo profughi – oltre agli edifici – l’esercito prende spesso di mira anche le taniche di acqua sui tetti (Emiliano Bos – RSI)

Distruzione in città anche fuori dal campo profughi

Il campo profughi – come tutti i campi profughi della Cisgiordania e di Gaza – è in realtà un quartiere di case e palazzi sorto dopo la cacciata dei palestinesi dalle proprie terre nel 1948 (basti pensare allo straordinario affresco descritto nelle pagine del romanzo “Ogni mattina a Jenin” di Susan Abulhawa). Questo è stato a lungo considerato un bastione della resistenza armata: qui è attivo il “Battaglione Jenin”, con miliziani affiliati alle Brigate al-Qassam di Hamas, alle Brigate dei Martiri di Al-Aqsa (legate al partito “Al Fatah” del presidente palestinese Mahmoud Abbas) e della Jihad islamica. Il campo profughi dista poche centinaia di metri dal centro. Ma la città è semi-deserta.

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Serrande abbassate nel centro di Jenin. Rimangono attivi solo bancarelle e carretti di frutta e verdura (Emiliano Bos – RSI)

Resistono solo i venditori di frutta e verdura coi loro carretti sul bordo strada. Montagne di pomodori, cavolfiori, cipolle. Oltrepassata una rotonda invece tutte le serrande sono abbassate. L’ultima volta che ero stato a Jenin, nel dicembre 2023, l’arteria centrale brulicava di venditori, passanti, clienti dei grandi magazzini nel colorato caos di una città palestinese. Invece ora il centro è paralizzato. Le strade sono in parte divelte anche qui. Spezzoni d’asfalto ammucchiati limitano il passaggio delle poche auto lungo Abu Jihad street, di fronte a un locale della catena KFC. La distruzione di strade e altre infrastrutture civili è affidata agli enormi caterpillar “D9” delle forze israeliane. In ebraico questo mezzo è soprannominato “Doobi”, “orsacchiotto”. È utilizzato anche per rimuovere pali elettrici, tubature, fognature. Lo si vede benissimo davanti all’ospedale governativo, all’ingresso del campo profughi. La sede stradale è una striscia di terra arata dai mezzi israeliani come se fosse un campo pronto per la semina. Vediamo un veicolo blindato fermo a un angolo. Sarebbe troppo rischioso camminare in quella direzione. Di recente i soldati israeliani hanno aperto il fuoco contro i giornalisti.

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La strada accanto all’ospedale, dove sono evidenti i segni della rimozione dell’asfalto da parte dell’esercito israeliano (Emiliano Bos – RSI).

A poche centinaia di metri da qui, nel maggio 2022 i soldati israeliani uccisero la reporter americano-palestinese Shireen Abu Akleh di al Jazeera. L’esercito ammise che un proprio militare “potrebbe avere accidentalmente sparato” il colpo che la uccise. Ma non ha mai aperto alcuna inchiesta penale né ha mai processato o punito alcun soldato per la sua morte.

L’ingresso dell’ospedale, con il murales della giornalista americano-palestinese Shireen Abu Akleh uccisa qui vicino nel 2022 dai soldati israeliani (Emiliano Bos – RSI)

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Poco più avanti c’è il “Freedom Theatre”, oasi di cultura nella devastazione edilizia e umana del campo profughi. Avevo incontrato il suo direttore Ahmed Tobasi poco più di un anno fa. Nel frattempo i soldati israeliani l’hanno arrestato e incarcerato a lungo senza alcuna incriminazione formale. Impossibile arrivare fino al teatro oggi, anche se dista poche decine di metri. Vediamo una jeep militare che scorta un escavatore, destinato probabilmente alla demolizione di altre case. Entrano ed escono diverse ambulanze dal cortile dell’ospedale; non mancano le testimonianze di soccorritori a cui sarebbe stato impedito di prestare assistenza ai feriti.

Il direttore dell’ospedale: “Colpiti i nostri servizi”

Lo conferma alla RSI anche il direttore Wissam Baker, un pediatra di formazione. Lo incontriamo nel suo ufficio. Nell’androne principale alcune vetrate di queste pareti color carta da zucchero sono infrante. Pochissimi pazienti e famigliari nei corridoi. “Ieri abbiamo ricevuto un uomo di 73 anni che era stato ucciso da armi da fuoco. Stava andando in auto a verificare le condizioni della sua casa dopo due settimane di operazioni militari: un cecchino gli ha sparato nella schiena. Al suo arrivo in ospedale era già morto”. Secondo il medico questo civile anziano “è stato trattenuto dai soldati israeliani prima che fosse autorizzato l’arrivo dell’ambulanza che lo ha trasportato qui in ospedale”. È stato il ritardo dei soccorsi a ucciderlo? “Le ferite erano così profonde che forse avevano già distrutto gli organi vitali…” risponde. E aggiunge subito: “Non è comunque accettabile impedire ad ambulanze e paramedici di soccorrere i feriti”.

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Finora il bilancio è di almeno 26 persone uccise dall’esercito israeliano qui a Jenin dall’inizio dell’operazione armata il 19 gennaio. Tra loro, aggiunge il direttore, anche un adolescente di 16 anni. I feriti sono decine.

Il dottor Wissam Baker, direttore dell’ospedale di Jenin (Emiliano Bos – RSI)

A suo parere, la gente “ha paura di venire a farsi curare: è troppo pericoloso arrivare fino qui. E l’ospedale non è comunque in grado di garantire tutti i servizi perché non abbiamo abbastanza personale”. Il dottor Baker elenca le “enormi conseguenze” – cosi le definisce – dell’operazione militare israeliana sulla struttura ospedaliera che lui dirige: parte dei servizi sanitari di Jenin “sono stati colpiti pesantemente”, non si riesce a garantire assistenza domiciliare da oltre due settimane, i pazienti in chemioterapia “nei primi giorni dell’operazione militare israeliana non ricevevano ossigeno”. E ancora: “Abbiamo sospeso tutti gli interventi chirurgici non-elettivi, mentre il servizio idrico e quello elettrico “sono stati gravemente danneggiati”.

Il direttore dice di temere per la sicurezza del personale sanitario. Suha, un’infermiera del reparto maternità con i capelli avvolti in un velo color prugna, ci mostra fori di proiettili sul soffitto di una stanza. Sono stati sparati – afferma – da cecchini israeliani. Impossibile verificare, ma dalla finestra si vedono i sacchi di sabbia delle postazioni dell’IDF sopra i tetti di un palazzo prospiciente.

Pochi i pazienti: i posti letto – ci dice la responsabile amministrativa Nita Zackary – sono 222. Ma al momento sono ricoverate una sessantina di persone. “Siamo davvero preoccupati” conclude il direttore. Che si congeda lanciando un accorato appello: “L’ospedale deve essere lasciato fuori da qualsiasi conflitto”.

L’interno del campo profughi di Jenin in cui i bulldozer israeliani hanno demolito molte abitazioni (Emiliano Bos – RSI)

Il sindaco: “Temiamo l’effetto Gaza”

Lasciamo il campo profughi per incontrare il sindaco di Jenin in municipio, su una strada in leggera salita. L’incursione militare di Israele – dichiara il primo cittadino alla RSI – “non tocca solo il campo profughi ma almeno altri quattro quartieri. Lo avete visto anche voi: la vita in città si è fermata. Scuole, attività e negozi sono chiusi”.

Nelle strade – anche in centro – colpisce il livello di distruzione intenzionale delle infrastrutture. “Hanno devastato strade, fognature, sistema elettrico e telecomunicazioni. E hanno preso di mira anche il sistema idrico urbano: un terzo dell’erogazione di acqua potabile in città in questo momento è interrotta” ci spiega il sindaco Mohammed Jarrar.

Le incursioni militari israeliane qui sono ricorrenti: dal 2021 – aggiunge – il campo profughi di Jenin è stato preso di mira 154 volte dalle forze israeliane, che hanno usato spesso droni e hanno persino bombardato con gli aerei nei mesi scorsi. In totale – afferma – dal 2021 “sono state uccise 700 persone e oltre 15mila residenti del campo profughi sono sfollati”. Stando a uno studio dell’amministrazione comunale, i danni economici delle operazioni israeliane degli ultimi quattro anni è pari a due miliardi di dollari.

Un mucchio di asfalto divelto dagli escavatori “D9” delle forze di Israele nel centro di Jenin (Emiliano Bos – RSI)

Lo scorso dicembre per diverse settimane le forze di sicurezza dell’Autorità palestinese avevano condotto operazioni armate nel campo profughi di Jenin. “Cercavano criminali comuni che avevano violato le leggi palestinesi” è la spiegazione del sindaco, che appare poco convincente. È parere di molti che l’Autorità nazionale palestinese abbia in realtà tentato di dimostrare a Israele e all’Occidente la sua capacità di controllare le fazioni armate più estremiste, con la prospettiva – o la pretesa – di poter poi svolgere lo stesso compito in futuro anche nella Striscia di Gaza sostituendosi ad Hamas. Il 17 gennaio l’operazione palestinese grazie a un accordo con i gruppi armati. Due giorni dopo, ancora una volta, l’esercito israeliano ha invaso Jenin.

  • Una famiglia del campo profughi di Jenin che guarda verso l’alto mentre sopra volteggiano due droni israeliani (Emiliano Bos – RSI)

“È la stessa tecnica usata a Gaza: distruggere le case e obbligare i civili ad andarsene. Il numero di edifici ovviamente non è lo stesso della Striscia, ma l’obiettivo sembra identico” dice il sindaco alla RSI. Bombardamenti contro abitazioni, ordigni per far esplodere le case, a volte incendiate di proposito” denuncia Mohammed Jarrar. “E poi l’ampio ricorso ai bulldozer. Questo significa che vivere dentro il campo profughi diventa insicuro. La conclusione è che la gente è costretta ad andarsene”. Per il primo cittadino di Jenin, questi edifici “non verranno più ricostruiti o riabilitati perché sono stati completamente demoliti. Siamo davvero preoccupati”.

Documenti ed effetti personali di Tamam al-Sadi, l’infermiere 28enne ucciso da un drone israeliano, sullo sfondo suo papà (Emiliano Bos – RSI)

“Mio fratello, un volontario ucciso da un drone”

Su un tavolino nel cortile di questa famiglia in lutto sono esposti i frammenti di una vita appena spezzata: “Questa è la sua tessera di lavoro in ospedale… ci sono i buchi provocati dalle schegge della bomba… questo è il suo orologio…”. Accanto c’è lo zainetto rosso da soccorritore e la sua casacca arancione fosforescente. E persino la patente di guida con la data di nascita: 30 giugno 1997. Tamam al-Sadi era un infermiere e paramedico. Non aveva ancora compiuto 28 anni. È stato ucciso due giorni fa in un quartiere orientale di Jenin. “Un drone l’ha centrato qui davanti a casa mentre camminava con mio cugino” racconta alla RSI il fratello Hamman, un giornalista che vive a Ramallah.

Secondo fonti locali, l’obiettivo sarebbe stata una persona a bordo di una motocicletta. Ma Tamam e il cugino stavano camminando a piedi. “Ero al telefono con lui: mi stava dicendo che era tornato a casa per cena dopo il suo turno di lavoro e si preparava a uscire di nuovo per la sua attività di volontario”. Pochi istanti dopo invece una bomba israeliana l’ha ucciso sul colpo. Sulla strada sterrata davanti alla casa qualcuno ha posto una cornice di sassi per isolare il luogo esatto dove è stato colpito. Hamman ce lo mostra: “Mio fratello è morto qui. Mio cugino un paio di metri più in là”. Non si dà pace: “Era un volontario, tutti gli volevano bene. Lavorava come paramedico all’ospedale di Jenin. E poi era attivo come volontario per soccorrere i feriti. E insieme ad altri giovani assisteva anche gli anziani in una casa di riposo”. Mostra le foto sul suo cellulare: ritraggono Tamam insieme a un gruppo di giovani accanto agli ospiti della struttura. Su Facebook, alcuni amici americani del “Parents circle” – associazione che raggruppa israeliani e palestinesi – lo descrivono come uno dei “giovani ambasciatori per la pace” a un seminario estivo del 2023. Il fratello racconta che Tamam si sarebbe sposato presto e stava per comprare casa. “Aveva un sacco di sogni e un grande cuore”, aggiunge mentre i famigliari offrono dolci a parenti e conoscenti riuniti nel piccolo cortile a condividere il momento di dolore. Hamman non riesce a spiegarsi perché l’esercito israeliano lo abbia preso di mira mentre camminava accanto al cugino.

La RSI ha rivolto alcune domande all’IDF: Tamam al-Sadi era considerato pericoloso o affiliato a qualche fazione armata di Jenin? Se non lo era, per quale motivo il drone israeliano ha colpito un paramedico? L’esercito ha aperto un’indagine sulla sua morte? Al momento, ancora nessuna risposta (in caso di comunicazioni da parte delle forze armate dello Stato Ebraico questo servizio sarà aggiornato, ndr.).

“Se volevano colpire solo mio cugino… avrebbero potuto evitare di ammazzare anche mio fratello”, si tormenta Hamman. La sua domanda rimane senza risposta, mentre l’operazione militare di Israele prosegue per il 23° giorno consecutivo: “Tamam era una persona generosa e ben voluta. Non ha mai fatto nulla di male. Perché?… perché?…. L’hanno ucciso senza motivo”.

12:19

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