In Toscana il suicidio assistito è legge

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La Toscana ha approvato la legge sul fine vita. È ufficialmente la prima regione a regolamentare il suicidio assistito. La norma, composta da sei articoli, stabilisce le procedure da rispettare per garantire il diritto alla pratica, riconosciuto nel 2019 dalla Corte Costituzionale, ma mai tradotto in legge. Lumsanews ha sentito il punto di vista di Laura Palazzani, filosofa del diritto e esperta di bioetica.

L’approvazione della legge sul fine vita in Toscana si inserisce in un vuoto legislativo da parte dello Stato in materia. Quale pensa sia la causa?
“Le regioni stanno provvedendo in modo autonomo a regolare il suicidio assistito in mancanza di una legislazione nazionale. In Parlamento ci sono vari progetti di legge in discussione, i cui contenuti sono molto diversi a causa della diversità di visioni etiche tra chi chiede il diritto di morire e chi riconosce la indisponibilità della vita umana. Di fatto ci sono casi di pazienti che richiedono il suicidio assistito, appellandosi direttamente alla sentenza della Corte Costituzionale (n. 242/2019) che ha ammesso il suicidio assistito in casi di irreversibilità della patologia, sofferenza insopportabile, autonomia e trattamenti di sostegno vitale”.

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Qual è l’apporto che il biodiritto sta cercando di dare?
“Il biodiritto cerca una mediazione tra le opposte visioni etiche, perché se non si trova un punto minimo comune non si arriverà mai alla legge. La consulta scientifica del Cortile dei Gentili, di cui faccio parte, ha proposto un documento di mediazione fra laici e cattolici sul tema. L’abbiamo anche presentato in Parlamento. L’obiettivo è una
regolamentazione molto restrittiva che possa legittimare alcuni casi specifici di richieste di suicidio assistito”.

Quali sono allora i criteri da tenere in considerazione secondo il Cortile dei Gentili?
“Il documento interpreta i criteri della sentenza della Corte costituzionale in modo restrittivo: ritiene che non sia sufficiente l’irreversibilità della malattia di chi chiede il suicidio assistito ma che questa si manifesti con sintomi gravi e preveda una complessità assistenziale. La sofferenza insopportabile non può essere solo psicologica, ma anche fisica, l’unica
rilevabile in modo obiettivo (per evitare interpretazioni allargate e discrezionali). L’autonomia dovrebbe essere accertata non solo dal medico curante, ma anche da un medico terzo che garantisca l’imparzialità. Il trattamento di sostegno vitale non si riferisce solo alle tecnologie che tengono in vita un soggetto, ma a tutto ciò che è percepito come molto invasivo nel
corpo della persona, una sorta di accanimento clinico-farmacologico. Ma il requisito primo è l’accesso alle cure palliative”.

Possiamo dire che il mancato accesso alle cure palliative è condizione fondamentale.
“È sicuramente l’elemento più importante. La Corte costituzionale nella sentenza 242/2019 ha ripreso il parere del Comitato Nazionale Bioetica del 2019 sul tema del suicidio assistito che riteneva necessario innanzitutto verificare che il paziente che chiede di morire abbia avuto la possibilità di avere le cure palliative. Noi abbiamo una legge che regola le cure
palliative (n. 38 del 2010) che però purtroppo non è applicata o perlomeno applicata in modo eterogeneo nel nostro Paese”.

E questo tipo di cure è sempre efficace?
“La verità è anche, e questo lo dicono gli stessi palliativisti, che le cure palliative non possono lenire tutti i dolori e tutte le sofferenze. Cioè esistono delle condizioni che vengono chiamate in medicina ‘refrattarie’, che non sono lenibili con le cure palliative. E questi sono appunto i casi più drammatici”.

I casi in cui si potrebbe agire con il suicidio assistito.
“Sì. Ma questi casi, ripeto, devono essere molto restrittivi: casi che potrebbero essere configurati come accanimento clinico, a causa della insopportabilità del dolore e della sofferenza a fronte della impossibilità di benefici in ordine alla guarigione e miglioramento della qualità di vita. Ed è importante che la loro valutazione non provenga solo da commissioni mediche. Devono anche entrare in gioco i comitati di etica clinica. Si tratta di organismi che purtroppo ancora non sono regolati in Italia, organismi interdisciplinari di esperti di etica e diritto sul fine vita che possono, insieme ai medici, valutare caso per caso”.

Potrebbe esserci il rischio di rendere una materia così sensibile in un diritto “regionale”?
“Il problema è che le regioni hanno una certa autonomia, anche dal punto di vista regolatorio. E in effetti progetti di legge c’erano già stati anche in altre regioni prima della Toscana, che ha portato a compimento questo percorso. Dal punto di vista etico è inaccettabile che i pazienti nello stesso territorio italiano siano trattati in modo diverso a seconda delle regioni in cui vivono. Dovremmo trovare un percorso che garantisca una uniformità. Altrimenti ci troveremo di fronte a quello che è il turismo regionale”.





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